I laureati (in Parlamento). Risultati di una ricerca

La nuova legislatura, la XIX, iniziata nell’ottobre del 2022 è quella che ha fatto registrare, nella serie storica considerata, il numero più alto di laureati nelle assemblee legislative: il 76% alla Camera e il 75% al Senato

La cultura, che rappresentò un elemento costitutivo della skill parlamentare fin dalla prima legislatura della Repubblica, può essere considerata ancora un atout per le carriere politiche? O, quanto meno, il grado d’istruzione continua ad apparire un condimento importante nella formazione del ceto parlamentare delle ultime legislature?

Quale che possa essere l’idea della competenza dei rappresentanti in parlamento percepita dal corpo elettorale, percezione che si è probabilmente anche manifestata con l’alto tasso di astensionismo nel voto di settembre 2022, l’andamento della curva che indica il livello di cultura del ceto politico presente nel Legislativo ha mostrato complessivamente un andamento in continuità con il recente passato. Non del passato più remoto, però, che faceva registrare, nell’Italia del 1948, il 91% di deputati e senatori provvisti di diploma di laurea a fronte del 90% di italiani illetterati. In quel tempo lontano – lungo almeno fino alla fine degli anni ’80- un’alchimia preziosa combinava il partito di massa con sistemi elettorali incentrati sulla scelta dal basso con il voto di preferenza, generando “prodotti” politici di livello diverso dal ceto parlamentare nella stagione attuale, che ha visto la fine della forma partito e l’avvento di regole elettorali basate sulla cooptazione della rappresentanza, sottraendo la scelta agli elettori per consegnarla ai compilatori delle liste.

Prima di esaminare il quadro statistico, però, diventa necessaria una premessa metodologica: il grado d’istruzione dei parlamentari, attingibile dalle fonti ufficiali della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica redatte sulla base delle autocertificazioni, ha sempre rappresentato, insieme ad altri indicatori sensibili come l’attività professionale, un elemento di valutazione alquanto controverso. La ragione risiede in una certa indeterminatezza nell’indicazione di alcune voci – ad esempio, in caso di espressioni come “fornito di diploma” oppure “laureato”, senza altre specificazioni- a causa della mancanza di una rigorosa codifica delle informazioni relative agli studi. Pertanto l’identificabilità del livello d’istruzione del parlamentare dipende dalla sua adesione a formule sufficientemente intellegibili e ad una compilazione non omissiva.

Spesso, peraltro, l’analisi statistica e l’interpretazione politologica hanno prodotto, in ragione della diversità delle fonti adottate per l’elaborazione delle distribuzioni- se interviste, raccolte di biografie o, appunto, informazioni raccolte dagli uffici parlamentari- dati divergenti per descrivere il medesimo fenomeno. Pertanto sceglieremo di adottare la fonte ufficiale delle due Camere legislative per svolgere la nostra analisi. Per quanto concerne, invece, l’aspetto diacronico, seguiremo la scansione, arbitraria ma sostanzialmente accettabile (perché agganciata al passaggio dal sistema elettorale proporzionale con voto di preferenza al sistema maggioritario introdotto con la riforma del 1993) che considera l’evoluzione della politica italiana distinguendo tra Prima Repubblica (dalla prima legislatura, 1948/53, alla dodicesima, 1994/96), e Seconda, caratterizzata dall’avvento dell’età berlusconiana (1996/2006). Ai primi due cicli aggiungeremo una terza cesura, quella che parte dalla quindicesima legislatura ( 2006/08, che fa registrare l’avvento di sistemi elettorali caratterizzati dalla cooptazione totale della rappresentanza), e giunge ai giorni nostri (XIX legislatura, 2022, ancora in corso), registrando anche l’avvento dei movimenti populisti.

L’analisi parte, dunque, dall’ultima legislatura della cd Prima Repubblica, la X (1987/1992). La stagione si chiude con l’epifania di “Tangentopoli”, preludio della rimozione di un’intera classe parlamentare che, nel passaggio dal sistema proporzionale al maggioritario (1993), sarebbe stata sostituita nella misura del 72%, un turnover altissimo, se si considera che nelle prime dieci legislature della Repubblica il rinnovamento della rappresentanza non aveva superato il 33%, valore che manteneva un accettabile equilibrio tra esperienza e nuovi ingressi. La “cultura” degli eletti nella X legislatura vedeva il 70% di laureati alla Camera (al Senato erano 65%), seguiti dal 19,2% di diplomati negli istituti superiori (12,7 al Senato), 2,2 deputati forniti di licenza media inferiore (1,6 senatori) e rispettivamente l’8,5% di deputati e il 20,6% di senatori il cui titolo era sconosciuto perché non indicato nell’autocertificazione.

L’avvento della Seconda Repubblica (1994-2006) non portò significativi scarti di valore rispetto al quadro statistico della X, facendo registrare per i laureati, nelle quattro legislature che vanno dalla XII alla XIV, oscillazioni lievi che in media tra Camera e Senato andavano dal 67 al 74%. In questo  dodicennio, che saluta l’avvento del “Mattarellum”, la legge elettorale partorita dal referendum del 1993, una formula mista a prevalenza maggioritaria, gli elettori si misurarono con il collegio uninominale e il sistema “first past the post” che, nonostante poggiasse formalmente sull’intuitus personae del candidato, veniva fortemente condizionato dalla scelta “ideologica” della coalizione di appartenenza: l’apporto del singolo candidato al consenso nel collegio, infatti, non si rivelò decisivo se non in alcune realtà marginali. Il 25% degli eletti, poi, veniva estratto alla Camera da una lista bloccata, modalità elettiva che fece ingresso per la prima volta nell’ordinamento elettorale  della Repubblica italiana, per poi restarci fino ai giorni nostri.

Se le leggi elettorali segnano il passaggio delle “Repubbliche” secondo la scansione che i media hanno fatto dei mutamenti di contesto politico indotti dalla filosofia dei nuovi sistemi, la “Terza Repubblica”, tuttora in corso, nasce con la legge Calderoli del 2005, un provvedimento che rimuove ogni residuo di scelta dal basso degli eletti, facendo esondare la lista bloccata dalla porzione minoritaria contenuta nella legge del 1993 fino alla copertura totale delle candidature. Da quel momento, infatti, l’elettore non ha più potuto scegliere il proprio candidato, ma solo la lista che contiene una classifica immutabile predisposta dal leader del partito. La prima applicazione della legge si ebbe nel 2006 per la composizione delle nuove Camere della XV legislatura, che durò appena due anni. Si ebbe un sensibile mutamento dei laureati, che toccarono il 68,7% alla Camera e il 68% al Senato. Ancora più bassa la percentuale dei laureati nella legislatura successiva, la XVI (2008/2013): solo il 66,5% dei deputati dichiarava di possedere quel titolo di studio, mentre i senatori erano il 70,15%. La XVII legislatura (2013/2018), che vide riempirsi gli scanni parlamentari con l’onda nuova del populismo incarnato dal Movimento Cinque Stelle, rovesciò i rapporti tra le camere, facendo registrare un 70,15% di laureati a Montecitorio e un 68,25% a palazzo Madama. Non si registrano scarti significativi nella legislatura successiva, la XVIII (2018/2022, in cui si avvicendarono tre governi con tre diverse maggioranze, passando dall’imprinting sovranista a quello europeista), che censì 70,8 deputati su cento laureati e 69,5 senatori su cento (sommando i laureati e gli specializzati).

La nuova legislatura, la XIX, iniziata nell’ottobre del 2022 è quella che ha fatto registrare, nella serie storica considerata, il numero più alto di laureati nelle assemblee legislative: il 76% alla Camera e il 75% al Senato. I fattori che possono aver influito nella cooptazione del ceto parlamentare s’incrociano con il più basso turnover del periodo considerato, circa il 41%, a fronte di valori che hanno oscillato dal 72% al minimo 53%. A fronte della novità rappresentata dal taglio dei parlamentari i compilatori delle liste hanno preferito ridurre i rischi di attraversare la terra incognita di un nuovo scenario nelle assemblee di Camera e Senato, confermando le candidature un numero di uscenti più alto e affidando l’attività parlamentare a figure potenzialmente in grado di affrontarne l’impatto con una più solida competenza di base. Non potendo, pertanto, attingere a curricula politici spesso si è inteso agire valorizzando il patrimonio di competenze certificato dalla laurea.

Conclusioni

Certo l’Italia del 2023 è assai diversa, quanto a possesso di titoli di studio, dell’Italia appena uscita dalla guerra, quando il novanta per cento della popolazione non era in grado di esibire neanche la licenza elementare e l’analfabetismo si aggirava intorno al 13% (tanto per fare confronti, in Germania era l’1, in Francia il 4 e in Inghilterra il 2%). Oggi gli analfabeti dichiarati sono meno dell’uno per cento (anche se l’analfabetismo di ritorno appare inquietante, se è vero che tra il 20 e il 25% dei giovani in uscita dalla scuola media inferiore ha difficoltà a leggere, scrivere e contare), i laureati il 14,3%, i diplomati il 35,6%, e, tra licenza media inferiore ed elementare troviamo il 45,5% degli italiani. Complessivamente il 95,5% degli italiani può esibire un titolo di studio e non è detto che quei pochi che ne sono privi non siano in grado di scrivere e far di conto.

Due terzi dei parlamentari, pertanto, si dichiara in possesso di un diploma di laurea, in una serie storica che ha oscillato, come si è visto, nel range che va dal 66 al 76% negli ultimi trent’anni. Dunque se si vuole criticare la qualità del ceto parlamentare contemporaneo non si può argomentare più di tanto intorno al titolo di studio, a meno di non voler criticare il valore degli studi universitari ma il discorso si farebbe a questo punto lungo e fuorviante. Piuttosto occorrerebbe domandarsi se il curriculum del politico che si colloca nelle posizioni apicali dello Stato, oltre l’erudizione certificata a scuola e nelle università, non debba contenere un “di più” rappresentato dalla cultura politica, dall’attitudine al servizio, dal cursus honorum che si guadagna attraverso il rapporto costante con il popolo. Lo dice anche la Costituzione italiana quando, all’art. 54, fa riferimento al dovere del cittadino cui sono affidate funzioni pubbliche di adempierle con “disciplina ed onore”, ove il lemma “disciplina”, che trova il suo etimo nel latino “discere”( imparare e dunque restituire ciò che si è imparato con la necessaria competenza), impone una qualità adeguata nell’esercizio della sua attività a servizio della cittadinanza. Con la fine dei partiti di massa la formazione “politica” del parlamentare non ha più luoghi per esercitarsi: la carenza di questa più peculiare “cultura”, non trasmissibile nelle aule universitarie, insieme con sistemi elettorali basati sulla cooptazione, sono gli ingredienti con cui sono impastate le carriere parlamentari contemporanee. Un’omissione ed un additivo.

 

Pino PisicchioProfessore ordinario di Diritto pubblico comparato. Già parlamentare in varie legislature, presidente di Commissione, capogruppo e sottosegretario

(Ha collaborato alla ricerca Jacopo Marzano)

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