I colori dell’Infinito sulla scena. Un viaggio sulla via di Jackson Pollock

Lo spettacolo “Bianco”, sull’artista Jackson Pollock, è danza della pittura monocromatica e policromatica, danza del segno verbale anche violento, intenzionale ma non artificioso, danza dei corpi che coabitano di fronte a un pubblico ipnotizzato che sembra assistere in apnea.

Si possono in un’ora e mezza di teatro restituire la potenza, il furore, la follia innovativa e autodistruttiva di un artista come Jackson Pollock e nello stesso tempo far comprendere agli spettatori le fasi dell’altrettanto distruttiva e viscerale storia d’amore “ingaggiata”- è il caso di dirlo- con Lee Krasner, sua tutrice materna, compagna d’arte, sostenitrice e amante, divenuta sua moglie?

Sì, è possibile, quando sulla scena agiscono due interpreti straordinari come Gianni De Feo e Serena Borrelli, quando il testo è stato concepito e “cucito” su di loro da un autore geniale come Marco Buzzi Maresca, le musiche originali affidate a Theo Allegretti e la regia così sapientemente out sider è dello stesso Gianni De Feo.

Lucifero – Jackson Pollock (1947)

Sto parlando del lavoro teatrale che ho avuto la fortuna e la gioia di vedere sabato 1 febbraio presso il Teatrosophia di Roma e che domenica, con un doppio spettacolo a richiesta è terminato. Purtroppo. Perché opere di questo livello non dovrebbero essere relegate in teatri cosiddetti off, suggestivi e carichi di forti, percepibili corrispondenze al loro interno, ma che indubbiamente faticano sul piano imprenditoriale a garantire un più ampio respiro a progetti di tale valore e che impegnano risorse creative così avanzate.

Una “selezione culturale”

Come per celia o per vera modestia diceva Flaiano a proposito delle sue cose teatrali, il pubblico in questi casi finisce per essere quello “ristretto” degli amici affezionati, quello degli appassionati delle performances di Gianni De Feo e dei suoi collaboratori. Tutti loro meritano di più, anche se il pubblico stesso gode ogni volta di questa “selezione culturale”. Un sold out di spettatori relativo ai posti che può permettersi il teatro, che vengono letteralmente avviluppati nel vortice dello spettacolo il cui titolo “Bianco” è già un’anticipazione, non solo simbolica.

Bianchi sono i volti coperti di biacca dei due attori, Bianchi gli abiti di scena di Roberto Rinaldi pensati e realizzati come quelli degli artisti da bottega rinascimentale, Bianca la luce pulsante ritmata dalla musica nell’illuminare i dipinti di Pollock che scorrono sulla parete di fondo impegnando gli spettatori ad assorbire sinesteticamente parole, sonorità, immagini, colori, gesti e movimenti. Spettatori chiamati a partecipare emotivamente e intellettualmente a questa suggestiva ricostruzione dell’universo del grande artista americano, il quale sosteneva di non voler “illustrare” ma “esprimere” sentimenti, di volere liberare energie nascoste nelle cose e dentro di sé.

La natura americana vista da Pollock

Deflagra nello spazio scenico la tragedia dell’uomo e dell’artista, proiettata fuori e dentro gli interpreti: un grumo di sangue, vene, carne ed ossa, muscoli guizzanti e gesti che cercano di attingere un ordine trascendente nel caos primitivo, di aprire nuovi spazi alla ricerca pittorica tesa come una corda verso l’Infinito. Una vastità che per Pollock evocava le immense praterie della natura americana, le distese dell’Arizona dove aveva trascorso la propria adolescenza e anche le manifestazioni dell’arte pittorica dei nativi d’America: quell’arte “popolare” introiettata presso l’Art Students League di N.Y. dove aveva seguito i corsi  di Thomas Hart Benton il quale diventerà suo amico fraterno, anzi “paterno”, ricordato spesso in scena come riferimento artistico da superare e padre da tradire per trovare un nuovo linguaggio pittorico.

Tradire lui e tradire Lee, tradire in realtà sé stesso, lentamente votandosi alla morte attraverso l’abuso di alcol e comportamenti autolesionisti fino al parossismo, interrotti da ripensamenti e pentimenti sempre passeggeri. E Lee-Serena, per ammirazione e amore assoggettata a quel genio, lo accompagna nel suo tragitto vorticoso, devastante, rinunciando alla propria affermazione come artista forse altrettanto grande e ponendosi nel cono d’ombra di quell’Ego colossale. I due corpi degli interpreti vanno oltre i loro corpi, offrendo tutte le proprie energie per trasferirle nei corpi e nelle anime dei due artisti, artisti anche loro nel ricreare questo geyser, questa furia creativa incrociata al fervore erotico che ha i tratti ambigui della sottomissione, del dominio e del vittimismo da parte di Lui e dell’affettività e della cura maternali da parte di Lei.

L’influenza di Picasso

Nel loro recitar cantando e danzando una sorta di danza rituale, quasi tribale, i due protagonisti tessono la tela della vita e dell’arte con un ritmo incalzante, facendo sgocciolare le parole sul palco quasi imitando la tecnica del dripping, gettandovi i colori della drammatica vicenda di entrambi. I loro corpi fluidi, le stringhe del loro universo emotivo e intellettuale, le loro voci impegnate in evoluzioni sonore e intonazioni espressive fanno pensare che recitino con “altro” dal proprio corpo (come direbbe Valere Novarina) senza mai strafare, come se tutto fosse naturale, come se si muovessero negli spazi immensi della natura americana, mentre si devono limitare ai pochi metri dello spazio scenico. Immensi anche loro.

Al centro di questo palco ridotto si erge la Parola di un testo denso e feroce, esaltato ed esaltante, che sa corrispondere con l’essere più profondo dell’attore e avvicinarlo a uno stato di grazia. Una tela anche questa, un tessuto in cui gli influssi dell’arte di Picasso e il mito del Minotauro si intrecciano con gli archetipi junghiani che tanta fascinazione esercitarono sull’arte di Pollock, sulla sua idea ancora romantica dell’arte come crocevia insostituibile di vita, realtà ed esperienza capace di trascenderci.

Lo spettacolo “Bianco” è danza della pittura monocromatica e policromatica, danza del segno verbale anche violento, intenzionale ma non artificioso, danza dei corpi che coabitano di fronte a un pubblico ipnotizzato che sembra assistere in apnea. Tutti sentono di partecipare a un rito individuale e collettivo, in cui l’arte teatrale apre all’infinito dell’Essere andando oltre la forma, proprio come voleva Jackson Pollock, che si spinse fino al buio dell’abisso della ricerca, fino all’auto-annientamento forsennato e precoce.

 

Caterina Valchera – Docente. Saggista

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