Gli altri e noi

"Ma quale sarebbe stata effettivamente la nostra vita senza le persone incontrate?"

Capita di ritornare ai luoghi di origine e fare brevi pellegrinaggi al Camposanto. Persa una certa lugubre atmosfera di quei luoghi, è come rimpatriare tra concittadini, amici e persone con cui abbiamo percorso per tratti più o meno lunghi la nostra vita. L’abitudine poi di mettere le foto sulle lapidi è un gesto contro la perdita subitanea della memoria, contro l’oblio e l’anonimato. Il volto è presenza e l’essere vissuti insieme nello stesso tempo ridesta sentimenti e reminiscenze di vita quotidiana. I nomi poi, con dati anagrafici essenziali come paletti di inizio e fine, riconducono al tempo in cui le nostre esistenze erano correlate.

Per un attimo questi amici, quasi vivificandosi, riattualizzano ricordi che noi percepiamo oramai con il distacco del tempo, il quale ha purificato gli aspetti controversi.  Emotivamente ciò avviene perché con le persone conosciute e incontrate c’è stata una varietà di rapporti. Non c’è niente di più unico. Il loro volto, giovanile o attempato, i momenti di situazioni piacevoli o spiacevoli, di amori mancati o vissuti, di un’amicizia svanita, di una malattia o di una gioia sono punti non trascurabili fissati per sempre. Ad ogni modo, ogni sensazione è come un emergere dalla nebbia!

Quale sarebbe stata la mia vita se non avesse preso la piega che poi ha avuto con le persone incontrate? Noi siamo contrassegnati da esse perché insieme abbiamo percorso un tratto di strada.

Quando ero Prefetto di Propaganda Fide – la grande Congregazione che rispondeva al mandato di Gesù di portare il Vangelo a tutte le genti – visitando le missioni, usavo non di rado recarmi nei piccoli cimiteri dove riposano uomini e donne, la cui memoria resta scritta negli annali degli Istituti religiosi di appartenenza. Ero colpito dal fatto che molti missionari e missionarie erano morti assai presto, o addirittura poco dopo il loro arrivo a causa di malattie allora incurabili; brevi e intense vite, assolutamente non insignificanti, alle quali – mi si raccontava – altri giovani davano continuità secondo uno stile, o meglio un patto di passione missionaria, che non avrebbe lasciato al buon seme della Parola di Dio di andare perduto.

“Mi sta a cuore l’umanità dell’umanità, la dimensione umana dell’umanità. Perché è anche la grande passione di Dio” (Francesco, Discorso agli Artisti). Ciò vale per sempre.

Per Cristo infatti non è stato diverso. Anzi, vien da pensare che Dio stesso abbia voluto in Lui fare propria questa esperienza di umanità nell’umanità. Un’esperienza effettivamente che a Dio mancava e che ora però lo condiziona eternamente nel suo essere divino: motivo per cui la misericordia nella verità è diventata l’inclinazione delle sue relazioni.  Uomini e donne di Palestina, alcuni dei quali, sono entrati nel racconto evangelico e tratti fuori dall’oblio storico; uomini e donne che nella fede, lungo i secoli, si sono lasciati coinvolgere da una profonda relazione spirituale; il calendario liturgico ne annovera molti, dando vita ad una sequela onomastica che per tanti anni ci ha contraddistinti come cristiani e identificati come persone.

Oggi l’onomastica delle persone è molto cambiata, spesso è divenuta bizzarra, forse a testimonianza di un’emancipazione che rincorre un marcato distacco religioso, mentre ci si affanna a professare anche pubblicamente la fede nella non-credenza o nella secolarità, che è quasi un nuovo ossequio religioso; ma poi si rinuncia realmente al termine della propria vita a quella misericordia nella verità anzidetta?

Le relazioni di Cristo con i suoi contemporanei in quell’angolo della terra che corrisponde alla Galilea e alla Giudea, suscitano nei pellegrini il desiderio, per così dire, quasi di partecipazione, di toccare la vita del Signore; toccare non dissimilmente dal gesto della donna emorroissa del Vangelo di Luca, medico, il quale non casualmente annota che nessuno era riuscito fino ad allora a guarirla: ella, avvicinatasi alle spalle di Gesù, furtivamente gli toccò il mantello con fiducia ormai disperata e percepì in sé qualcosa di nuovo; Gesù la fece venire allo scoperto non per redarguirla, ma perché la sua fede nascosta trovasse una conferma e la pace (Lc 8, 43-48).

La storia, anzi le storie umane, riservano sempre straordinarie analogie; mi ha sempre stupito quella dei kakure kirishitan, i cristiani nascosti del Giappone duramente perseguitati, ma sopravvissuti in Nagasaki e dintorni; nonostante l’assenza per lunghissimi decenni di missionari e liturgie, dopo oltre due secoli e mezzo (XVI-XIX sec.) sono riemersi facendo venire alla memoria le stesse parole di Gesù all’emorroissa: «La tua fede non è stata vana».

Shusaku Endo ha scritto un romanzo storico, Silenzio, per far riemergere la violenta e sofisticata persecuzione dei cristiani giapponesi; una vicenda drammatica ma bella. Manyo Maeda, cardinale di Osaka, discendente dei kakure kirishitan, poeta, oltre che apprezzato arcivescovo della città, in una delle sue haiku (classiche concise poesie aritmiche), scrive: Come il girasole segue sempre il sole, così vorrei cercare il volto di Dio (Himawari no gotoku kamisama aogitsutsu). La sua famiglia ne era stata impedita per secoli.

L’elegante espressione poetica ci riporta a questo punto all’inizio di questo scritto:  Ma quale sarebbe stata effettivamente la nostra vita senza le persone incontrate?

 

Fernando cardinale FiloniGran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro

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