Follini ricorda De Gasperi: la politica ha perso lungimiranza. L’eccesso di presentismo è il grande limite di questa stagione

Quest’anno ricorrono i 70 anni dalla morte di Alcide De Gasperi (scomparso il 19 agosto del 1954). Della sua eredità, di quel che resta della visione del politico che fondò la Democrazia Cristiana, fu l’ultimo presidente del Consiglio del Regno d’Italia, gestì la transizione dalla monarchia alla Repubblica, stravinse le elezioni del 1948 e guidò l’Italia nei difficili e straordinari primi anni del Dopoguerra, Bee Magazine ha parlato con Marco Follini.

 

 

 

“La sua storia ci racconta che in quelle circostanze straordinarie si poté attingere a una classe dirigente inventata che poi diede buona prova di sé – spiega l’ex vicepremier del governo Berlusconi ed ex leader dell’Udc, già segretario del movimento giovanile della Dc, ora analista ed editorialista politico – Certo, oggi con la strada molto meno in salita la classe dirigente non è a quel livello”.

Follini conclude con realismo: “La politica ha perso lungimiranza. L’eccesso di presentismo è il grande limite di questa stagione in cui anche i migliori vengono divorati dalla loro stessa frenesia e finiscono per non lasciare nessuna traccia”.

La voce su De Gasperi dell’Enciclopedia Treccani lo definisce nell’incipit: statista. Seguendo una distinzione a lui stesso cara: “Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alla prossima generazione”.  Oggi vede statisti in giro?

Quello che vedo oggi è l’opposto di De Gasperi. Siamo alle prese con una classe dirigente molto affannata e superficiale, propensa ad andare di moda più che durare nel tempo. Lui, al contrario, arrivò al potere da anziano, varcò la soglia di Palazzo Chigi intorno ai 65 anni. Un po’ come la corsa per la Casa Bianca dei due “giovanotti” americani.

La sfida dell’età per Biden e Trump, come ha scritto Ezio Mauro su “Repubblica”. Il nuovo conflitto della modernità che nella scelta tra esperienza ed efficienza vede come posta in gioco “la rimodulazione del meccanismo di selezione delle élite”.

Mauro ha ragione, mentre nella stagione di De Gasperi c’era più riguardo per la terza età. Lui era un outsider, senza incarichi politici di primo piano fino a quel momento. Nessun allibratore ci avrebbe scommesso, eppure stravinse le elezioni del 18 aprile 1948 e in quei cinque anni fu protagonista assoluto della politica italiana. Questa storia ci racconta che nelle circostanze straordinarie del Dopoguerra si poté attingere a una classe dirigente inventata che poi diede buona prova di sé.

Era stato parlamentare a Vienna. Esperienza non di primo piano ma che lo formò.

La seconda caratteristica di De Gasperi era che veniva percepito dal Paese come “straniero”. Era nato in Trentino, prima che diventasse parte dell’Italia, per questo fu parlamentare in Austria e lì si fece le ossa. Essere nato fuori dai confini fu ragione di diffidenza nei suoi confronti, la destra lo chiamava “l’austriacante”. Non era considerato abbastanza patriottico. D’altra parte l’Italia del Dopoguerra non era più nazionalista: Togliatti era stato a Mosca per salvare la pelle, Nenni e Saragat esuli come tanti altri, Sturzo aveva cercato rifugio a Londra e poi negli Usa. Si ricostruì un Paese – lo dico ai cultori del facile nazionalismo di oggi – attingendo a un patrimonio di vite vissute in larga parte all’estero”.

De Gasperi fu anche uno strenuo europeista – è considerato con Spinelli, Schuman e Monnet un padre dell’attuale Unione Europea – e atlantista. Due pilastri che oggi vengono fortemente messi in discussione. Cosa resta di quell’ordine mondiale?

Quei due pilastri ce li siamo trovati belli e pronti, ma quando fu scelta la strada dell’Ue e della Nato era tutt’altro che spianata. L’Europa era un territorio conteso che aveva originato due guerre mondiali, con Paesi che si odiavano tra loro. Nemmeno la scelta atlantica fu facile: contro gli Usa c’erano i comunisti, i fascisti e molte perplessità anche nel mondo della sinistra Dc. Dossetti non era così convinto. De Gasperi ebbe la lungimiranza di scommettere “against all odds”, contro ogni probabilità. A posteriori appare ovvio e scontato, ma fu quasi un azzardo. Noi troviamo De Gasperi nella biblioteca della storia, ma la sua navigazione fu in gran parte controcorrente. É una figura che non solo fa a pugni con la nostra attualità ma corse la vita con il vento contro.

Non fu anche un mediatore? Se ne ricorda l’inclusività, la capacità di allargare il governo ai partiti del centro pur avendo la Dc la maggioranza assoluta.

Non vorrei farne un ritratto a tinte pastello. Era un uomo con un certo vigore e asprezza nell’agone politico. I suoi ministri lamentavano la conduzione sbrigativa delle riunioni. Non aveva il carattere avvolgente di Aldo Moro: era un politico essenziale che spesso si trovò a combattere. É vero che aprì ai partiti laici, ed è un suo merito, ma lo fece contro Dossetti che avrebbe preferito un monocolore Dc. Aveva sì un carattere inclusivo ma si faceva valere con modi anche spicci. Ricordiamo cosa rispose proprio a Dossetti: “Potete fare da pungolo, ma poi qualche volta dovete mettervi alla stanga”.

Oggi Matteo Salvini rimprovera a Giorgia Meloni di non essere inclusiva come è stato Silvio Berlusconi. Si può fare un paragone tra De Gasperi e i leader di oggi?

La straordinarietà del Dopoguerra fu che mancava una classe dirigente. De Gasperi si affermò riempendo un vuoto e dandogli la pienezza di una politica.  Oggi, premesse le differenze, è uno dei pochissimi che da tutto l’arco costituzionale riconoscono, anche con frasi a buon mercato, essere stato il migliore. Ma il suo è un modello non replicabile, figlio di una contingenza particolare. Certo, oggi con la strada molto meno in salita la classe dirigente non è a quel livello. Ricordiamo però che i primi vent’anni dopo la sua morte fu poco celebrato e ricordato, ci fu quasi una congiura del silenzio.

Il fondatore della Dc era un cattolico che dialogò con le forze laiche e si scontrò più volte con la Chiesa. Oggi il Parlamento non legifera sul fine vita e i governatori regionali si muovono in ordine sparso e camminando sulle uova. Ottant’anni fa la politica aveva più coraggio di adesso? 

De Gasperi era molto credente, non ci sono dubbi sull’intensità della sua fede ma sentiva di dover essere sovrano dell’ordine politico e fondava la sua impresa sulla consapevolezza che tra i due mondi ci dovesse essere distinzione. Quando Pio XII gli negò un’udienza privata per fargli pagare l’”eresia” del rifiuto di un’alleanza a destra, scrisse una lettera sofferta che nasceva da dentro di lui. Non la ribellione al Papa di un laico ma la dignità di un cattolico che gli rappresenta il valore della sovranità civile. Non è da tutti scrivere missive al Pontefice essendo attanagliato da un groviglio di sentimenti: non fu orgoglio luciferino ma convinzione spirituale profonda.

 

 

 

Quella degasperiana fu anche un’epoca di grandi riforme: la Cassa del Mezzogiorno, la progressività fiscale, l’esproprio dei latifondi. Ci rimane soltanto l’Eni, fulcro del governativo Piano Mattei?

Non possiamo stipare De Gasperi nell’attualità, è passato troppo tempo. Se nascesse oggi sarebbe difficile immaginarlo al centro di questo sistema politico perché figlio e padre di altri valori. Ci ha però insegnato che si possono realizzare cose che sembravano impossibili quando c’è una visione di lungo periodo.

É questa la sua lezione più importante?

Direi di sì, tornando alla sua frase sulla differenza tra nuove elezioni e nuove generazioni. Abbiamo perso di vista la lungimiranza. Certo, l’agenda di oggi è un’altra, ma la politica ha perso drammaticamente questa prospettiva. L’eccesso di presentismo è il grande limite di questa stagione in cui anche i migliori vengono divorati dalla loro stessa frenesia e finiscono per non lasciare nessuna traccia.

 

Federica FantozziGiornalista

 

 

 

 

 

 

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