In un libro di recente pubblicazione (“Il Dio dei nostri padri”, divenuto un best-seller, come ormai quasi sempre gli capita), Aldo Cazzullo, nel commentare il secondo dei dieci comandamenti dati da Dio a Mosè sul Monte Sinai – “Non nominare il nome di Dio invano” – evidenzia come tale comandamento, oltre a porre il divieto di non bestemmiare, imponga all’uomo di “non strumentalizzare il nome di Dio, di non usarlo per i propri scopi ideologici o militari, di non uccidere in nome di Dio”.
Sembra un comandamento ovvio, se si considera che Dio è la personificazione dell’amore e del bene, eppure quanta violenza, quante uccisioni, quante stragi sono state perpetrate nel nome di Dio. Ancora oggi quel nome viene utilizzato per giustificare le peggiori nefandezze: si pensi ai fondamentalisti islamici che al grido di “Allah akbar” uccidono dei civili innocenti, come è avvenuto il 7 ottobre 2023 in un kibbutz israeliano o, ancora pochi giorni fa, in occasione di alcuni attentati in Germania; si pensi all’attentato di cui rimase vittima il Premier israeliano Ytzhak Rabin ad opera di un fondamentalista ebreo, o, più recentemente, alle stragi di cui si sono macchiati e continuano a macchiarsi migliaia di fanatici israeliani che uccidono i palestinesi pensand
Si pensi, infine, all’espressione “God wins” che figurava sul cartello tenuto in mano da quel singolare “patriota” col capello dalle corna di bufalo, che, insieme ad una moltitudine di altri “patrioti”, il 6 gennaio di quattro anni fa diede l’assalto a Capitol hill, nel quale morirono numerosipolizio
Il dilemma di Antigone
L’uomo, “animale” sociale costretto a relazionarsi con i suoi simili, ha bisogno che la sua vita sia scandita da regole, le più importanti delle quali sono le regole giuridiche. Le quali, tuttavia, in sé considerate sono “neutre”, perché tutto dipende dal contenuto che ci si mette dentro: una regola, una legge, che si auto-qualificasse come mero atto di forza, costituirebbe un’assurdità e sarebbe strumento per le più gravi prevaricazioni. Occorre allora che all’idea della “forza”, connaturata alla legge, si affianchi l’idea di “giustizia”. Tuttavia, il problema di dare contenuto alla parola giustizia (in riferimento alla legge) è fra i più difficili e complessi, come dimostra proprio l’intera storia dell’uomo. Anzitutto perché le concezioni della giustiziavanno necessariamente contestualizzate: connaturate come sono al passare del tempo e all’evolversi della società, esse “nascono, cambiano, si estinguono e sono sostituite da altre concezioni, con il mutare delle culture” (G. Zagrebelsky).
In passato, per esempio, si riteneva che fosse giusto il diritto che derivava da Dio (emblema della giustizia personificata) e, non a caso, nell’antichità, i sacerdoti erano anche uomini di legge. Però la Storia ci ricorda – come si è visto – che nel nome di Dio sono state (e sono tuttora) commesse le più grandi ingiustizie. Ed è proprio l’inadeguatezza di questo richiamo alla divinità che ha portato, nel corso del tempo, a cercare rifugio nel diritto naturale: una sorta di legge “non scritta”, contenente determinati principi fondamentali, comuni a tutto il mondo e rinvenibili nella natura stessa dell’uomo. Così, per esempio, posto che è coerente con la natura dell’uomo non uccidere, è da considerare “giusta” la legge che proibisce l’omicidio.
Ma anche con riferimento al diritto naturale il problema della giustizia correlata alla legge era – ed è – lungi dall’essere risolto, se solo si considera che la storia del pensiero umano risulta caratterizzata p
I veri diritti “non negoziabili”
Un antico problema, proprio della filosofia del diritto, è dunque quello del rapporto fra “giustizia (o diritto) naturale” e “giustizia positiva” (o diritto positivo), anche se gli ordinamenti giuridici moderni considerano, ormai, quale unico, vero diritto solo quest’ultimo, dal momento che il ricorso a principi generali, astratti, generalmente condivisi (o come tali considerati) quali quelli del diritto naturale si traduce necessariamente in un’amplissima discrezionalità da parte di chi è chiamato quotidianamente ad interpretare ed applicare la legge (il giudice), con conseguenze esiziali per il principio, altrettanto importante, della “certezza del diritto” (che significa anche uguaglianza dei cittadini davanti alla legge) e col rischio che la discrezionalità dell’interprete trasmodi in arbitrio.
Sotto questo profilo, merita di essere ricordato un interessante lavoro di Alan Dershowitz, forse il più noto avvocato americano, contenuto in un saggio di qualche anno fa, divenuto best-seller: “Rights from Wron
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Secondo Dershowitz i diritti non derivano né da Dio (perché “Dio non parla agli esseri umani con un’unica voce”: si pensi al Dio dei cristiani e al Dio dell’Islam), né dalla natura (che è moralmente neutra), ma derivano “dall’esperienza umana, e in particolare dall’esperienza dell’ingiustizia”. Piuttosto che ricorrere ad astratte generalizzazioni – sostiene il giurista americano -occorre partire dall’esperienza umana, che ci fa vedere gli errori (e gli orrori) della storia, perché da essa è possibile apprendere che esiste un sistema basato sulla difesa di alcuni diritti fondamentali, che ci consente di affrancarci dagli errori del passato: per esempio, il diritto alla vita e alla salute, la libertà di espressione, la libertà di e dalla religione, l’uguaglianza davanti alla legge, il diritto ad un giusto processo, il diritto alla partecipazione democratica, ecc. Dunque, più che individuare un diritto naturale partendo, per così dire, dall’alto, Dershowitz reputa opportuno partire “dal basso”, ossia da quelle che si sono palesate come evidenti ingiustizie (si pensi, come esempio eclatante, ai lager o ai gulag) per individuare “i diritti che non possono essere violati”.
I rigurgiti di fanatismo religioso
Un tale sistema, fondato su principi, richiede necessariamente di essere codificato e, sotto tale profilo, fondamentale si rivela, soprattutto nelle democrazie occidentali, il riconoscimento
Roberto Tanisi