C’è ancora tanto da fare per costruire un’Europa che sappia guardare al futuro: dalla sicurezza fino all’ingresso di nuovi Paesi sono tante le sfide da affrontare. Ne abbiamo parlato con Giuliana Laschi, professoressa ordinaria di Storia internazionale dell’età contemporanea e Storia dell’integrazione europea presso il dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna.
Si preannunciano nuovi ingressi nell’Unione Europea, in particolare dall’Est, come bisogna accogliere questo segnale?
Politicamente è un segnale positivo perché sin dall’inizio del processo di integrazione europea l’idea era quella di riunire tutti i Paesi che fanno parte del continente. Dal punto di vista più tecnico è tutto molto più complesso rispetto a quanto descritto dal Consiglio e dalla Commissione.
Non so se è una scelta accurata: il processo può essere molto complesso perché ci sono le condizionalità nell’entrata che generalmente vengono spiegate come interessi degli Stati membri affinché questi siano adeguatamente preparati ma un aspetto importante è che devono essere pronti i futuri membri ad entrare o non reggeranno la competizione economica e sociale.
Il rischio è quello di vivere male nell’Unione Europea. Alcuni Paesi oggi si trovano in grandissima difficoltà, basti pensare alla Romania o alla Bulgaria dove non c’è nemmeno più l’ombrello sociale presente prima dell’ingresso. Credo sia un errore dichiarare la possibilità di adesione senza fare il percorso naturale che si è sempre fatto per entrare nell’Ue.
Finora che benefici hanno tratto i Paesi dell’Est che sono entrati nell’Unione Europea?
In primo luogo un sostegno alla transizione democratica anche se alcuni hanno avuto diversi problemi ma nella maggior parte dei casi si sono registrati successi. La Comunità prima e l’Unione Europea successivamente del resto hanno sempre aiutato nella transizione democratica, basti pensare all’Italia e alla Germania all’inizio così come per la Grecia e per la Spagna ed il Portogallo.
I vantaggi sono stati anche economici e sociali. La spinta economica è stata importante: il lavoro, gli investimenti e i fondi sociali sono stati importanti per lo sviluppo delle società.
Eppure non tutti gli Stati sembrano soddisfatti, il gruppo di Visegrad resta una voce contraria a molte misure dell’Unione Europa: si tratta di una minaccia o la voce di Paesi che avrebbero dovuto avere di più per una migliore integrazione?
Non penso avrebbero dovuto avere di più. In tutti i trattati da Roma in poi c’è l’elemento della solidarietà che ha sempre funzionato fino agli anni ’80 e ’90 si è inserito l’elemento della contabilità mentre la partecipazione anche dal punto di vista economico va ben al di là della contabilità: pensiamo ad esempio ai progetti europei – non contabilizzati – nelle università grazie ai quali arrivano tantissimi fondi.
I Paesi di Visegrad non hanno ricevuto troppo poco la solidarietà interna è cosa complessa, anche nei Paesi ricchi ci sono stati impoverimenti. Nei Paesi che fanno parte del gruppo di Visegrad ci sono problemi molto gravi: lì si sono sviluppati sovranismi, forze centrifughe e razzismi assieme a pensieri politici violenti difformi.
Questo è un problema relativo alla crisi politica dell’Unione Europea che non si riesce a superare. Il gruppo di Visegrad può permettersi una modalità aggressiva grazie al supporto di tanti movimenti e partiti sovranisti.
Ucraina e Turchia, due ingressi promessi ma che sembrano lontani: che ruolo potrebbero giocare questi due Stati nell’Unione Europea?
Si tratta di due casi molto diversi. L’adesione dell’Ucraina è stata decisa politicamente, si tratta di una cosa che non avviene spesso. Molti si lamentano dei tempi lunghi ma tutte le adesioni hanno richiesto almeno un decennio per lo meno perché è un affare complicato.
All’Ucraina è stato detto sì soprattutto per la guerra in corso, una situazione diversa a quella del 2014 quando aveva chiesto di entrare ma era stato detto di no. A Kiev è stata data l’idea di tempi abbastanza rapidi ma si tratta di un Paese ancora non pronto dal punto di vista politico ed economico.
Avvisare un Paese dell’entrata rapida è un errore compiuto già con la Turchia. Sarebbe stato meglio parlare di un’associazione molto forte con la valutazione di un ingresso successivamente. É un errore illudere un popolo in guerra di una rapida entrata nel processo di integrazione.
Per la Turchia fu un errore enorme. Nel 1964 è stato firmato un trattato di associazione che preludeva dopo 25 anni l’adesione: sono cambiate molte cose ed Ankara nel frattempo ha fatto tanto per l’ingresso nell’Ue. Anche in quel caso si è creata un’illusione sull’ingresso e successivamente oltre al mancato ingresso è cambiata anche la visione nei confronti dell’Unione europea in negativo.
Il processo di integrazione è uno strumento sensibile e se adoperato male può portare a contraccolpi negativi. La divisione e la lontananza con Ankara derivano anche dall’atteggiamento sbagliato dell’Ue nei suoi confronti.
In una lectio magistralis all’Università Roma Tre l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi ha detto che non ci sarebbero state nuove Brexit. Di fatti l’uscita dall’Europa della Gran Bretagna è stata un fallimento…
Sembra difficile che la Gran Bretagna possa rientrare. Certo Londra ha dato i suoi contributi all’Unione Europea nonostante le grandi differenze: l’arroganza e la presunzione di un governo che non riusciva a controllare il referendum è stato un errore importante.
Per la Gran Bretagna politica un rientro è molto complicato anche se gli elettori potrebbero aver capito che la grande crisi economica che stanno vivendo deriva in gran parte dalla Brexit e l’Ue nel frattempo ha tanti problemi per ragionare su un rientro. Nulla esclude però nel futuro un riavvicinamento.
Quest’anno saranno quindici anni dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona: è necessario un nuovo trattato o si può tornare a ragionare sull’idea di Costituzione europea?
Non so se riproporremo una costituzione europea, la maggior parte dei politici hanno una visione più nazionalista. Mi hanno fatto riflettere le recenti proposte di Draghi sull’integrazione.
La crisi europea è prima di tutto politica e dopo economica. Non abbiamo una Costituzione che avrebbe cambiato in meglio il processo di integrazione e non abbiamo nemmeno istituzioni che possano reggere questo processo: un’Europa con questa architettura costituzionale è la stessa che è stata pensata nel 1957 dove c’erano però solo sei Paesi e un disegno politico. Così non si va avanti.
Le istituzioni non sono più nei confini dei trattati. La riforma è necessaria ma per come stanno andando le cose sembra tutto lontano: basti pensare che si torna a parlare di nazioni come nell’Ottocento.
Per quanto riguarda invece la Difesa Europea: è un tema che accompagna la nascita dell’Ue ma che sembra rimasto fermo…
É sempre stato necessario un sistema di difesa europeo. L’ombrello Nato ci ha dato sicurezza ed abbiamo speso molto poco per questa sicurezza quindi è positivo per gli europei. Trump non è il primo presidente a dire che si spende troppo per la Nato negli Usa, avere un esercito europeo ci avrebbe garantito un’autonomia internazionale particolare e avremmo potuto prevedere un sistema di sicurezza “creativo”.
Purtroppo non avere un sistema di difesa ci mette in condizioni complicate. Pensiamo al fatto che un possibile secondo mandato di Trump potrebbe sortire effetti sulla Nato: rimuovere i finanziamenti significherebbe scoprire l’Europa dal lato orientale in un momento in cui c’è un conflitto in corso.
In questo momento ci troviamo insicuri su vari fronti. Per me è auspicabile un sistema di difesa europeo ma la presenza di governi nazionalisti potrebbe essere un limite visto che puntano su eserciti nazionali, non si sa come potrebbero reagire.
Il federalismo europeo è stato messo da parte o è ancora attuale?
Si può sempre contare sull’ideale del federalismo, del resto nella storia gli ideali servono. La storia non ci arriva dall’alto ma è costruita dagli uomini e dalle donne giorno dopo giorno e gli ideali servono per costruire la storia.
Nella storia tutta è attuabile anche se il federalismo europeo ad oggi sembra molto lontano e c’è il ritorno del concetto di “nazione”. Forse questo non è il momento adatto a meno che non crescano nuovi leader che facciano crescere i partiti con ideali e progetti.
Francesco Fatone – Giornalista