Sarà un’America molto diversa quella che andrà al voto a novembre 2024, rispetto a quella che ha eletto Joe Biden quattro anni fa. Secondo le analisi del Pew Research Center, l’elettorato sarà il più eterogeneo di sempre: oltre un elettore su tre sarà nero (14%), latino (14,7%) o asiatico (6,1%). In cinque Stati (California, Texas, New Mexico, Hawaii e Washington D.C.) le minoranze costituiscono più del 50% dell’elettorato e sono costantemente più del 40% nei quattro stati più popolosi e che garantiscono più grandi elettori (dopo la California, e il Texas, già citati, Florida e New York).
Inoltre, per la prima volta nella storia, la generazione Z (nati tra il 1997 e il 2012, che conosciamo come nativi digitali) e i Millennials (nati tra il 1981 e il 1996) non soltanto saranno più dei Baby boomer (i loro genitori, nati tra il 1965 e il 1980) ma, sommati, tra loro supereranno tutte le generazioni precedenti.
In questo scenario la proposta politica di Donald Trump, giudicata superficialmente più vicina all’America profonda e all’elettorato bianco e più anziano, dovrebbe essere strozzata. La realtà dipinge tutto un altro scenario. La vittoria di Trump non soltanto è, oggi, giudicata probabile da opinionisti e sondaggisti, ma la stessa popolazione americana la considera ormai più che credibile.
I sondaggi restano comunque fluttuanti, l’affluenza sarà ancora una volta decisiva: gli indecisi sono la maggioranza e si confermano il fattore di maggiore incertezza di questa tornata, anche a causa dell’impopolarità galoppante di entrambi i candidati che non è mai stata così alta. Chi rifiuta l’etichetta democratica quanto quella repubblicana, o che dichiara di considerare un candidato minore ma potenziale elettore dei due maggiori a ridosso del voto, non è più minoranza nel paese.
L’unica certezza che ci consegneranno queste elezioni è che, vincente o meno, ancora una volta Trump spaccherà in due gli americani, con una loro parte più che consistente che lo vorrebbe ancora una volta come loro presidente, pur incarnando l’ex presidente le paure delle loro fette più conservatrici e nonostante l’elettorato non sia mai stato così lontano, da un punto di vista anagrafico e sociale, dalle sue idee.
Le disuguaglianze non sono mai state così nette, i profitti delle grandi imprese sempre più impressionanti, il potere d’acquisto del salario medio è crollato, il costo degli studi universitari ormai quasi inavvicinabile. La pressione sugli stipendi della classe più povera, composta da operai e impiegati di basso livello, è in aumento a causa dell’immigrazione clandestina e del libero scambio con paesi in cui la manodopera non costa nulla. Questo cocktail, unito alla sempre più ridotta leadership a stelle e strisce in politica estera, ha creato un forte rancore sociale.
Trump, che non è certamente un fine analista di politica internazionale, ha tuttavia ben fiutato la stanchezza dei suoi connazionali sul ruolo del proprio paese a livello globale, ereditato dai decenni passati come egemone. L’influenza della politica estera nelle decisioni di Washington, unita alla spesa galoppante per la difesa a discapito di servizi sociali, scolastici o sanitari è considerata dai più sempre più insopportabile. Questa stanchezza è sentita sulla pelle, più degli altri, proprio da quell’elettorato nero, latino o dei giovanissimi che apparentemente dovrebbe essere più distante dalle politiche di Trump. Il suo slogan “America First” incarna meglio di ogni spiegazione queste preoccupazioni.
Quale che sia il risultato delle elezioni, buona parte degli statunitensi si sente discriminata dalle evoluzioni economiche e sociali che la colpiscono ferocemente, nella sua identità e nelle sue aspettative verso il futuro. A novembre si presenteranno al voto due Americhe mai così all’opposto tra loro, e quel che è certo è che i più sfortunati tra loro guardino ancora una volta a Donald Trump come a un eroe. Nonostante quattro anni da Presidente, Trump attacca ancora una volta l’establishment, la politica tradizionale e i mezzi d’informazione e per questo l’America più in difficoltà lo sostiene ancora una volta e con ancora più convinzione, anche se ben ne percepisce gli eccessi, che peraltro non si contano più.
Quasi nessuno, nel mondo, pensava che Trump potesse conservare un’agibilità politica dopo l’assalto al Campidoglio di tre anni fa. È impressionante il numero di scivoloni che ha collezionato Trump negli ultimi anni e che avrebbero affossato qualsiasi candidatura, ma non la sua. A differenza di Biden, che gioca ancora secondo le regole della politica tradizionale, Trump ha dimostrato a più riprese di essere in grado di sopravvivere a scandali e gaffe. I tentativi giudiziari di escluderlo dalla contesa elettorale hanno, per di più, rafforzato la sua immagine anti-establishment e sono diventati uno strumento comunicativo sempre più potente nelle mani dell’ex presidente, utili a promuovere il proprio racconto.
Nicholas Taleb ha spiegato nel suo celebre “cigno nero” quella metafora che definisce un evento raro, imprevedibile e inaspettato capace di provocare un impatto sproporzionato sull’andamento della storia. Nella comunicazione politica, un cigno nero è definito come quell’evento imprevedibile e capace di orientare una contesa elettorale, che sembrava aver assunto ormai una direzione chiara. L’impressione, ai più, è che occorra ormai un cigno nero a Joe Biden per impedire ancora una volta a Donald Trump di rientrare alla Casa Bianca.
Giorgio Borrini – Giornalista