Nel 1950 il maggiore storico dell’arte italiano del Novecento, Roberto Longhi, nell’introduzione al primo numero della sua rivista, “Paragone – Arte”, suggeriva ad allievi e colleghi di avvalersi del romanzo storico, indicandone il massimo esponente in Proust, per imparare a raccontare in modo coinvolgente i dati delle proprie ricerche scientifiche (chi vuole saperne di più, può cominciare con i consigli di lettura di Carmelo Occhipinti nel video di presentazione del progetto Calliope. La storia dell’arte vista attraverso i testi di narrativa, da lui diretto all’Università di Roma “Tor Vergata”).
Del ruolo del romanzo storico, e dei romanzi di Balzac in particolare, nella vita e nell’opera di un lettore diventato regista come Truffaut ho parlato nell’articolo precedente.
Molti romanzi realistici ottocenteschi sono una guida e una fonte non trascurabili ancora oggi per chi si interessa della storia delle immagini, della loro fortuna e vuole scriverne: i protagonisti della Commedia umana spesso sono gli artisti e le loro opere d’arte; numerosissime pagine contengono informazioni sul processo creativo, sulle tecniche, i materiali, la condizione sociale degli artisti, le consuetudini del mercato, del collezionismo, le strategie espositive, i rapporti con il pubblico e con gli spazi commerciali.
Nei romanzi di Balzac insieme agli artisti è spesso presente un personaggio particolare, artista egli stesso o ispiratore di intellettuali, che ha avuto una speciale evoluzione nelle arti visive e dello spettacolo e che oggi ha un posto altrettanto speciale nell’affermazione dell’unicità come valore della personalità individuale: l’ermafrodito, che in letteratura e nelle arti visive si evolve nella più complessa e attuale figura dell’androgino.
Nella Commedia umana la figura dell’ermafrodito si incardina all’ambito delle arti visive con il racconto Sarrasine, uscito nel 1831 ma ambientato nel 1758 a Roma.
Nell’epoca e nella terra in cui si creavano le disgraziate e prodigiose figure degli “evirati cantori”, lo scultore Sarrasine si innamora della cantante Zambinella credendola una donna, ma è l’unico della sua compagnia di amici a non sapere che la conturbante creatura è un giovane castrato (la vita di successi pubblici sfrenati e di solitari dolori privati di questi artisti, diventati tali per condizione e non per vocazione, è narrata anche in un film, Farinelli voce regina di Gérard Corbiau, tuttavia inopportunamente sbilanciato sulle poco probabili avventure erotiche del protagonista). Lo scultore muore scoprendo la vera identità di genere di Zambinella, a cui per anni continuano a riferirsi per le loro opere scultori e musicisti.
Balzac apporta un altro decisivo contributo alla rappresentazione positiva della figura dell’androgino, veicolandola verso le arti visive: l’interesse dello scrittore per le opere d’arte che rappresentano figure di bellezza fisica difficilmente classificabile in un solo genere dà vita a un’opera narrativa di grande fortuna. Dopo avere visto la Statue d’un ange androgyne nello studio dello scultore romantico Théophile Bra una domenica di novembre del 1833, Balzac scrive Séraphîta, che esce nel 1835.
Ecco la trama del libro, senza spoiler. Da una mattina della metà di maggio 1800, nello Stromfiord in Norvegia, si snoda la storia di un essere androgino, ultra snob, dotato di una sapienza soprannaturale e della conoscenza dell’amore puro. Dell’androgino sono innamorati contemporaneamente gli amici Minna, che lo chiama Séraphîtus credendolo uomo, e Wilfrid, che volendo a tutti i costi credere che si tratti di una donna usa il femminile Séraphîta. L’androgino di Balzac è un essere superiore, che racchiude in sé il genere maschile e femminile, come l’angelo della statua che lo ispira. Per aggiornare la figura del semplice ermafrodito nell’androgino che assomma le più sofisticate qualità fisiche, intellettuali ed emotive dell’uomo e della donna, Balzac fa parlare Séraphîta con le parole derivate dalla filosofia mistica di Emanuel Swedenborg (1688-1772), teorico dello “spirito angelico” in relazione alla “teoria degli angeli”.
La metafisica del filosofo scandinavo e la sua applicazione in Séraphîta hanno estensioni editoriali e visive di cui sono protagonisti sia uno degli intellettuali di cui si è ricordato l’anniversario della morte il 14 marzo scorso, l’editore Giangiacomo Feltrinelli (ne abbiamo parlato qui) sia due degli artisti più noti esponenti della Performance Art, Ulay e Marina Abramović.
Nel febbraio 1962 Feltrinelli fa pubblicare la traduzione di Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno, un dittico che all’epoca risultava ancora scandaloso e che Miller aveva ricavato anche dall’esperienza del matrimonio con la ballerina June Mansfield.
I tormenti coniugali di Miller derivano anche dal fatto che egli riconduce l’incostanza di June alla sua natura androgina: la moglie è trasfigurata in una sorta di reincarnazione contemporanea dell’androgino codificato da Balzac in Séraphîta e da lui consegnato all’immaginario ottocentesco e novecentesco.
Peraltro, nel 1956 Miller descrive esplicitamente l’effetto della lettura di Séraphîta nella redazione del libro A Devil in Paradise (tradotto in italiano da Einaudi nel 1960 con il titolo Paradiso perduto).
Alla metafisica di Swedenborg così come è divulgata da Balzac e (meno precisamente) da Miller si adeguano le creazioni visive dei più noti artisti performativi del Novecento. Sulla figura dell’ermafrodito/androgino lavora il tedesco naturalizzato olandese morto a Lubiana Ulay, che si scopre veramente artista mentre si guadagna da vivere come dipendente della Polaroid.
Come molti artisti esordienti, Ulay studia esclusivamente il proprio aspetto, ritraendosi infinite volte (i costi sono praticamente annullati, le sedute di posa possono avvenire ovunque e negli orari che si prediligono).
Negli autoritratti scattati con macchine Polaroid 57 e organizzati in cicli di “fotografie performative” di cui l’artista è l’unico umano protagonista, Ulay rielabora costantemente la propria identità di genere e di professionista: cerca risposte nella autoidentificazione con la figura dell’androgino.
In un autoritratto del ciclo di sei foto intitolato Visual Poetry (a sua volta parte della serie Renais sense), Ulay si presenta come artista intellettuale che si esprime con la fotografia ostentando una copia di Tropic of Cancer di Henry Miller accanto a una di Die neue Foto-Lehre di Andreas Feininger (una sorta di manuale di tecnica fotografica).
La ricerca sull’identità di genere attraverso la rielaborazione visiva della figura dell’androgino prosegue nei cicli di performative photographies intitolati Dunes e S’he (anche in questo caso si tratta di auto-Polaroid eseguite nel 1973 e nel 1974 con la sensibilissima pellicola 107, che richiedeva una grande perizia nella preparazione e nello scatto della foto).
Tra 2015 e 2016 Ulay stesso ha raccontato nella propria autobiografia in forma di intervista e in altre interviste (l’intervista è un genere prediletto dagli artisti per raccontare il proprio lavoro, dalle Vite di Giorgio Vasari ad oggi) la genesi, lo scopo e la ricezione delle auto-Polaroid basate sull’iconografia dell’androgino:
“Dal 1970 al 1975 ho recitato da solo davanti alla Polaroid. Erano azioni intime e performance intime, senza pubblico. Da qui si è evoluta la fotografia performativa, o meglio la definizione “fotografia performativa”. “L’affiancamento tra fotografia e performance è venuto dal modo in cui ho lavorato […]. Non si trattava però di performance, ma semplicemente di autoritratti”.
“Ho lavorato con due media: uno è la performance e l’altro è la fotografia. […] La definizione “fotografia performativa” è stata creata dopo, quarant’anni fa non esisteva. Il connubio tra performance e fotografia è stato davvero un evento unico nella storia della fotografia e nella storia della performance”.
“Quando ho incontrato Marina [Abramović] nel novembre del 1975, ad Amsterdam, era interessata a quello che stavo facendo e le ho mostrato tutte le foto di ricerca sull’identità del mio periodo di gender-crossing. Le sono piaciute moltissimo. Penso che facesse parte del processo decisionale che ci ha portato a lavorare insieme. La nostra è stata una collaborazione uomo/donna, ma sin dall’inizio abbiamo venerato la figura dell’ermafrodito e l’unione di maschio e femmina […]. Penso che la mia esperienza con il travestitismo abbia avuto una grande influenza sulla nostra collaborazione nei Relation Works”.
“Il lavoro non era né mio, né suo. Ci sentivamo come se fossimo in tre: una donna e un uomo insieme generando qualcosa che chiamavamo ‘il Terzo’” (la traduzione dall’inglese di dichiarazioni di Ulay del 2014 e del 2015 è mia. Queste e altre fonti sull’arte immateriale e sulle sue implicazioni ideologiche e commerciali sono antologizzate e commentate nel mio libro Le conseguenze delle mostre. II. La tradizione nella Performance Art.
Elaborando azioni iconograficamente sempre più spettacolari a discapito della reale sostanza delle opere ottenute da esse, con il passare degli anni e con l’accumulo di esperienze ed esigenze di affermazione diverse, Ulay e Abramović hanno smesso di vedere l’arte alla stessa maniera, si sono separati litigiosamente, hanno ripreso a lavorare da soli. Abramović è diventata celebre in tutto il mondo grazie al Leone d’oro vinto alla Biennale di Venezia nel 1997 con una performance, Balkan Baroque, greve ed enfatica, dedicata alla condanna con tutti e cinque i sensi della violenza delle guerre (l’idea viene dalla tragedia della guerra nei Balcani).
Non facciamoci, però, ingannare dalla pur seduttiva messa in scena degli effetti di una carneficina: Abramović mantiene posizioni ideologicamente ambigue, definendosi anche oggi e a tutti gli effetti “jugoslava”, non proponendo un pacifismo coincidente con l’antimilitarismo e l’antinazionalismo.
Fin dagli esordi e proprio in occasione di Balkan baroque, l’artista di Belgrado si dichiara orgogliosa di essere figlia di “partigiani” di Tito, attivissimi in guerra e dopo, tanto da ricoprire ruoli professionali di primo piano (è soprattutto il caso della ambiziosa e rigidissima madre dell’artista) e da ottenere il diritto di abitazione in un appartamento sottratto a legittimi proprietari ebrei (le notizie sono nella biografia autorizzata Quando Marina Abramović morirà pubblicata da James Westcott, meno superficiale dell’autobiografia Attraversare i muri).
Dal ruolo pubblico non limpido dei genitori e dalla figura dello stesso Tito l’artista non ha mai preso le distanze, partecipando anzi al culto della personalità tributato al dittatore e ai suoi sodali, in vita e dopo la morte. Con queste premesse e con la constatazione che gli artisti non sono mai innocenti, in primo luogo perché devono vendere le proprie opere per vivere (e, quando ci riescono, per arricchirsi), aggiungo un dato recentissimo.
Il 20 marzo Abramović, che risiede da decenni negli Stati Uniti, ha espresso la propria solidarietà nei confronti dell’Ucraina annunciando l’asta di una nuova messa in scena della sua performance più famosa, The Artist is Present (la notizia qui).
Questa posizione contro l’invasione e la guerra non va disgiunta dal precedente lavoro sul tema della fusione dei generi e della rappresentazione dell’androgino come essere superiore, basata sulla conoscenza della narrativa e su una visione non settaria del mondo contemporaneo.
Su questi presupposti, Ulay e Abramović in coppia hanno semplificato la Performance Art in una moda visiva di massa imitata da tanti artisti dello spettacolo (chissà se Damiano dei Måneskin sa che quando si traveste non è un erede dei soli Renato Zero e David Bowie); a loro volta, seguaci e imitatori hanno molto contribuito all’affermazione del superamento dell’idea dell’identità di genere come unica possibile nella società contemporanea.
Gli artisti e gli intellettuali qualche volta si distinguono in meglio rispetto a chi governa comunità politiche e religiose e si esprime su questi temi. Capitano infatti casi come quello dell’8 marzo scorso. Durante la domenica del Perdono nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca il capo della chiesa ortodossa, il patriarca di Mosca Kirill, ha rotto il silenzio mantenuto dal giorno dell’attacco all’Ucraina.
In un luogo sacro per la sua comunità, Kirill ha pronunciato la seguente dichiarazione: “La guerra è giusta perché è contro chi sostiene i gay”. Riassumendo: è “giusta” la guerra che in secoli passati le chiese chiamavano “guerra santa”, consistente in pratica nell’attacco, il ferimento, lo stupro, l’uccisione di civili di ogni età e sesso (per scopi politici ed economici, allora come oggi, non certo per le ragioni morali addotte pubblicamente).
La “guerra santa” è giustificata dalla lotta necessaria a modelli di vita contrari a un presunto spirito cristiano. Il Patriarca ha addotto come esempio comportamentale nefasto quello confluito nei gay pride o “marce della dignità”, equiparate al “peccato” che sta per estinguere la “civiltà umana” (cito da Alessandro Trocino sul “Corriere della sera” dell’8 marzo).
Si tratta di una posizione che non nasce oggi e che si rinforza con dichiarazioni e azioni simili diffuse nella storia dei totalitarismi e delle dittature di ogni colore.
In definitiva: le ragioni per cui un’artista jugoslava che vive negli Stati Uniti, e che fa coincidere il rifiuto della guerra con il militarismo nazionalista, appoggia economicamente la reazione ucraina all’invasione russa vanno valutate con spirito critico; ma è sicuramente rilevante la esplicita posizione di superficie, che rinnega la violenza dell’attacco militare in corso.
Una posizione che dovrebbe spettare ai capi di stati e di chiese, che invece (con l’eccezione di Francesco) incitano e promuovono il massacro, per giunta motivandolo con l’odio per l’espressione dell’unicità di quegli stessi individui che (come ho provato a ricordare in questo articolo) con la loro unicità intellettuale, estetica e professionale sono alla base di alcune delle punte più alte della cultura europea.
Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia