Ultima gaffe, il clamoroso ‘buco’ comunicativo, non ancora tappato, che ha costretto la Casa Bianca a condividere con un giornale ‘non amico’ piani di guerra e commenti tra ubriachi all’osteria, anche se era lo Studio Ovale. Anche se l’attuale presidente Usa non ha direttamente parte nella vicenda è comunque un incidente comunicativo in pieno stile Donald Trump, e ha il merito di aver chiarito l’opinione che ‘loro’ hanno di noi e la solidità degli argomenti di Giorgia Meloni quando, bluffando su impalpabili benemerenze italiche alla corte del sovrano cafone, sostiene che l’Europa debba tutelarsi dai dazi con la sola diplomazia. Vediamo già Vance che annuncia ai suoi l’arrivo dei nostri diplomatici: “Ci sono i parassiti che vogliono parlarci”.
Quanto all’inopinato sostegno della stessa premier alle ragioni di Vance, ecco: per dimostrare che serve più per togliere a Matteo Salvini il ruolo – peraltro improbabile – di pontiere con gli Usa, che a difendere il ‘supremo interesse nazionale, come le imporrebbero la coerenza ideologica e il mandato dei suoi elettori, basterebbe chiedere alla Le Pen, che adesso ha altri problemi (è appena stata condannata a cinque anni di ineleggibilità). Perchè è certo che Marine e il suo giovane delfino, Giordan Bardella, impartirebbero alla Meloni una memorabile lezione di suprematismo, mandando di nuovo ‘en enfer’ il suprematista yankee, come hanno già fatto venti giorni fa a Monaco.
Trump, la pace per lui è una rapina a mano armata
Ritornando a Capitol Hill, poche ore prima della comunicazione ‘urbi et orbi’ dei segreti di Stato, c’era stata l’autocandidatura di Donald ‘Copperhead’ al Nobel, per una Pace sempre più simile a una rapina a mano armata ai danni dell’Ucraina, che gli Usa e la Russia si stanno spartendo e spolpando con clausole economiche capestro. Quasi in contemporanea, l’immobiliarista di origine bielorussa, Steve Witkoff, sguinzagliato dalla Casa Bianca a far danni nel ruolo che fu di Kissinger, rivela che Putin avrebbe pregato per Trump, ferito nel famoso e fumoso attentato dello scorso 13 luglio. E qui forse, siamo all’unica verità che lo zar ha detto da molti anni questa parte, e cioè che temeva di veder naufragare a pochi passi dall’approdo, il sogno di avere l’altro alla Casa Bianca. Witkoff ha anche tenuto a far sapere che ritiene l’Ucraina ‘un falso paese’.
Guarda caso, le stesse parole, alla lettera, pronunciate dall’Uomo del Cremlino il 21 febbraio 2022, tre giorni prima dell’attacco: “E’ una nostra colonia con un governo fantoccio, non merita di chiamarsi nazione”. Non contento, ‘l’inviato superfluo’ ha suggellato la visita a Mosca dichiarando Putin ‘una brava persona’. In effetti, potrebbe ben darsi che le decine di dissidenti e giornalisti, la cui morte abbiamo senza uno straccio di prova messo in conto al Cremlino, si siano percossi a morte, avvelenati da soli con sostanze radioattive e infilati nei gulag siberiani solo per mettere in imbarazzo quel bravo teocrate che i russi continuano a eleggere democraticamente da un quarto di secolo.
Una stupidità già chiara al suo primo mandato
La verità è che, ipnotizzati dai colpi di scena di un serial capace di ridicolizzare qualsiasi distopia letteraria sulle dittature di destra e di sinistra – altro che Orwell! – stiamo andando a sbattere a tutta velocità contro la stupidità di Trump e del suo entourage. Una stupidità che era chiara dal suo primo mandato, come nella fiaba di Andersen la proverbiale nudità di quel re che tutti i sudditi, ignavi e adulatori, fingono di ammirare per un vestito che non c’è. Ma non può durare. Il caos che questo maxi-Pinguino senza Batman sta seminando negli USA gli si ritorcerà contro prima della scadenza, con un impeachment che molto probabilmente sarà sostenuto anche da molti repubblicani per manifesta incapacità di intendere e di volere del loro capo. E questo si spera serva di lezione a un’America che troppo a lungo, anche grazie a noi sudditi europei, ha presunto di essere la migliore ipostasi della democrazia in terra. Viceversa, nell’attuale versione di libertà dell’America, i diritti sociali sono riservati a chi può permetterseli, e quelli individuali si riducono alla possibilità di acquistare armi di grosso calibro dal tabaccaio, o di dare a saltimbanchi di non minor calibro il diritto di parola e magari un ministero della salute, come all’ultimo – in tutti i sensi – dei Kennedy.
Se questi sono fatti loro, però, il problema più grave è che il 47esimo presidente degli Stati Uniti, a nemmeno dieci settimane dall’insediamento, ha già ridotto la politica internazionale a un asilo infantile e pretende di regolarla in base ai suoi umori quotidiani di bullo viziato e ignorante. Sta mandando in frantumi le fondamenta dei rapporti con gli stati senza alcuno scopo, nè progetto alternativo, ma solo per far vedere che mantiene tutto ciò che incautamente promette. Lo stesso Washington Post ricorda che Usaids, l’agenzia per gli aiuti sociali e umanitari fondata nel 1961 dal presidente John Kennedy e adesso praticamente smantellata da Musk, non era solo un’iniziativa di assistenza e sviluppo prestigiosa per l’immagine del paese. Era anche una leva strategica per giustificare e rafforzare la presenza degli USA in ogni angolo del mondo. Ma Trump pensa solo a distruggere, come un bambino furioso stanco dei propri giocattoli. Però quei giocattoli siamo noi. La vocina maligna e vendicativa che esce a sorpresa da quel corpaccione, e le mossette da Dumbo in tutù, sono tratti caratteriali: qualche psicopatologo dovrebbe avere il coraggio di coglierli e analizzarli.
Il “dazifascista” si fa i complimenti da solo
In queste ore, il ‘dazisfascista’ a stelle e strisc’’ si fa i complimenti da solo, tentando invano di nascondere che Mosca, mentre finge di accettare la tregua mediata dagli USA, approfitta della confussione per tentare di sfondare le linee ucraine e sbilanciare ancora di più un negoziato che già ora è una durissima capitolazione per Kiev, costretta a consegnare territori chiave alla Russia e risorse strategiche al finto arbitro. Allo stato dei fatti, le uniche concessioni del Cremlino sono state queste: revocare la minaccia di fucilare tutti i militari ucraini catturati nel Kursk, lanciata in totale e plateale disprezzo per la Convenzione di Ginevra; chiedere a Washington di togliere le sanzioni che hanno colpito la Federazione Russa in questi tre anni, richiesta che ovviamente l’Unione Europea ha subordinato al cessate il fuoco, scoprendo subito il trucco dei russi; escludere dal teatro di guerra le centrali energetiche e soprattutto il Mar Nero, dove Putin sa di essere più vulnerabile e deve difendere le rotte del proprio paese messo in ginocchio dalla guerra, anche se lo nega, e l’Occidente gli crede.
Ma se la politica interna della Russia per noi è sempre stata un mistero, è invece chiarissimo che Putin sta usando Trump come il più utile degli idioti. In proposito, è doveroso inchinarsi alla capacità di sintesi di Ellekappa, che in una delle sue ultime vignette su Repubblica ha messo in testa al presidente preferito da Meloni e Salvini un cappellino con la scritta: “Make Putin Great Again”. La verità sta tutta in queste quattro parole. Del resto, Putin non è il solo ad approfittare dello stato di follia degli americani.
Anche Netanyahu, ancora una volta con sospetta simmetria rispetto ai russi, ha deciso di prendere a schiaffoni l’alleato di sempre, costringendolo, per non perdere la faccia, a intestarsi a cose fatte la rottura di quella tregua faticosamente che lo stesso Tycoon aveva tessuto con i paesi dell’ormai ex Patto di Abramo. En passant, si può osservare che ormai Bibi non dissimula più il suo disprezzo per quel che resta della democrazia di Israele, nè il vero obiettivo di quella che ci ostiniamo a chiamare guerra: è sotto gli occhi di tutti che si tratta di un’operazione speciale di pulizia etnica volta a liquidare una volta per tutte la questione palestinese, insieme agli stessi palestinesi. Che gli riesca, è altra cosa. Lui per primo dovrebbe sapere che togliere la terra a un popolo non è mai servito a cancellarlo.
In attesa delle mosse del gigante cinese, l’unico che potrebbe davvero ingaggiare una guerra commerciale con gli Usa, l’evaporazione di ogni strategia politica da parte dell’America trumpiana permette anche Erdogan di accentuare la repressione contro gli oppositori politici. Oltre a mettere in carcere il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, Il presidente turco sta invalidando la laurea a molti oppositori politici, tra i quali decine di docenti universitari, perché non si possano candidare. Sul fronte curdo, ha fatto segnare un notevole successo grazie alla resa di Ocalan, di cui peraltro resta da spiegare la contropartita, certo non leggera. Ma Erdogan sa di non aver mai avuto le mani così libere. La Russia gli è grata per non essersi opposto al mantenimento delle basi siriane di Latakia e Tartus. E gli Usa non sono più quelli che il presidente turco aveva accusato di complicità con il tentato golpe del 2016 per essersi rifiutati di consegnargli l’imam Fetullah Gulen, che Istanbul considerava l’ispiratore della sommossa. Se Gulen non fosse morto a ottobre, non è improbabile che oggi la Nuova America lo avrebbe espulso senza tanti complimenti.
Trump non si accorge di lavorare per i nemici
In tutto questo, Trump pensa di essere il demiurgo regista di un nuovo ordine mondiale, ma non si accorge di lavorare per i nemici. Alza la voce e si vanta di essere l’ennesimo uomo del destino, ma lascia che tutti i dittatori si dispongano nel modo più conveniente ad approfittare della precarietà e disprezzo delle regole per aumentare il proprio potere all’interno e trasformare in dominio le rispettive sfere d’influenza. Putin, in particolare, non riesce a nascondere l’intenzione di umiliare l’America, lo storico avversario, causa di quel crollo dell’Unione Sovietica che lui ritiene una catastrofe. E grazie a Trump, ci sta riuscendo. I due autocrati hanno molto in comune, un sodalizio di lunga data che non tutti ricordano, e forse gli Italiani non hanno mai saputo, a causa delle connivenze, ieri, della nostra sinistra con l’Urss, oggi, della destra e di una parte ridicola di ex comunisti nostalgici con il fascistissimo governo della Federazione russa.
Queste ‘liaisons dangerouses’ non li hanno mai visti sullo stesso piano: Trump è sempre stato nelle mani dell’altro. Troppi indizi suggeriscono che lo Stranamore del Cremlino lo abbia creato e ne abbia fatto il suo piazzista. Se così fosse, sarebbe un incredibile successo politico. Ed è molto plausibile che lo sia. In tanti hanno scavato nel passato di Putin: negli anni ’80, oscuro ufficiale responsabile, a Dresda, dell’ufficio del Kgb per le operazioni di spionaggio industriale e di infiltrazione politica ai danni dell’Occidente; poi, vicesindaco a San Pietroburgo, con sospetti agganci al crimine organizzato; infine, presidente della Federazione, con qualche dubbio sulla reale paternità dei sanguinosi attentati che lo avevano autorizzato a spianare la Cecenia, e con molte certezze sulla spartizione delle ex aziende statali tra lui e gli oligarchi di turno.
Una parabola di potere, corruzione e violenza che meglio di tutti racconta con accuratissima facoltà di prova la giornalista inglese Catherine Belton nel suo pluripremiato ‘Tutti gli Uomini di Putin’ edito nel 2020 da Nave di Teseo e disponibile anche in podcast su RaiPlay. Sostiene, Belton, che il gerontocrate del Cremlino avrebbe salvato il Trump dalla bancarotta già venticinque anni fa, continuando poi a manipolarlo e utilizzarlo come terminale per investire petrorubli negli Usa e in Europa attraverso la rete dei siloviki e dei veri e propri mafiosi piazzati nei gangli della finanza occidentale. E’ probabile che Putin non si aspettasse che il pittoresco tycoon, del quale gli erano ben chiari i limiti caratteriali e culturali, arrivasse alla Casa Bianca la prima volta. Ma avendo compreso, come tutti i russi con un po’ di sale in zucca, gli ‘umori’ dell’America profonda, sapeva che un nuova elezione, con margini molto più ampi, era possibile. E così è stato. Con un mix efficacissimo di finanziamenti illeciti e disinformazione via web – più questa, che quelli – ha contribuito a far trionfare Trump, che ora si comporta come la marionetta di Mosca all’estero, anche nei confronti della Nato. Ha indebolito l’Unione Europea, facendo crescere dovunque partiti ‘amici’, ultranazionalisti e di estrema destra. Ha stretto accordi con la Cina, costringendo, così, gli USA, pronti a tutto pur di sciogliere l’abbraccio tra Mosca e Pechino, ad assecondarlo, vedremo fino a che punto, nelle sue pretese di delegittimare Zelenski, annientare Kiev e considerare l’Europa il suo cortile. In breve, ha costretto il mondo a riadeguarsi alle logiche della forza e delle deterrenza nucleare, riportandolo alla Guerra Fredda, ma molto più pericolosa, perché destabilizzata da troppi attori e troppi interessi.
Attivare l’iter che porterà l’Ucraina nell’Ue
In un quadro del genere, e’ assai rischioso votarsi alla parte dell’agnello, una figura che la Storia trasforma molto spesso in capro espiatorio. Ma prima di parlare di difesa comune europea, c’è una cosa ancora più urgente: avviare il lungo iter che porterà l’Ucraina dentro l’Unione. E’ innegabile che la storia di questo paese mostri tratti ideologici, politici ed etici spesso ambigui, tra corruzione diffusa della burocrazia e riferimenti al nazionalsocialismo. Ma è anche vero che gli ucraini negli anni ‘30 hanno pagato con almeno tre milioni di morti per fame (‘Holodomor) la loro opposizione al dirigismo staliniano. Fu anche questo che li spinse tra le braccia di Hitler, quando invase la Russia, tra l’altro passando proprio da lì, come ora Putin e Bonaparte due secoli fa, per mettere prima di tutto le mani sul ferro e sul carbone ucraini.
La realtà è che ogni paese avviato sulla strada dell’indipendenza, nasce tra luci e ombre, compromessi morali e violenze, e non si vede perché dovremmo chiedere ad altri la coerenza che non abbiamo avuto noi. La volontà di affermare e ottenere anche soffrendo, anzi soprattutto soffrendo, questa indipendenza, e’ il passaggio fondamentale che trasforma un popolo in nazione. Offre materiale per costruire la mitopoiesi del sacrificio alla patria che alimenta la successiva unità. Noi italiani di guerre d’indipendenza, di retorica dell’unità, di posti al sole e genti da civilizzare, siamo grandi esperti. Quindi, faremmo meglio a non renderci più ridicoli di quanto già siamo agli occhi del mondo, con buona pace degli sforzi del governo Meloni per trasformare la nostra vocazione alla farsa in orgoglio, missione che già Mussolini aveva tentato, con gli esiti noti.
Gli ucraini hanno senza dubbio perso la guerra, ma non erano stati loro a cominciarla, quindi rimproverarli di scarso realismo, o peggio, di aver tentato di vincerla coinvolgendo il mondo e’ semplicemente ridicolo: si sono difesi, non avevano scelta. In questo momento, i russi hanno occupato il 20 per cento del loro territorio, e sembra proprio che Trump glielo voglia riconoscere: è la base d’asta di una trattativa che potrebbe essere anche più dolorosa per Kiev. Ma se gli ucraini non avessero reagito, Putin si sarebbe preso tutto in pochi giorni. Se non gli e’ riuscito, non è solo perché’ il suo esercito è stato incapace, ma anche perché aveva finito per credere alle proprie parole, è cioè che l’Ucraina fosse un’espressione geografica, come aveva detto Metternich deridendo l’Italia che cominciava a ribellarsi all’occupazione straniera. Affermare che l’Ucraina ha perso, perciò, è vero, ma è una banalità: chi si difende, non lo fa pensando a vincere, ma a sopravvivere. Combattendo contro chi intende privarli della libertà gli ucraini si sono guadagnando diritto e dignità di diventare una nazione compiuta. E noi potremo anche rifiutare di aprirle la porta, ma questo non cambia la realtà delle cose: la Russia sta occupando un territorio europeo, esattamente come gli Usa minacciano a giorni alterni di occupare la Groenlandia. Chi lo nega, dovrebbe per coerenza negarlo anche se al posto dell’Ucraina ci fossero la Svizzera, o la Gran Bretagna, l’una mai entrata e l’altra uscita dall’Unione e ora visibilmente ansiosa di ritornare sui propri passi. Per non parlare della Moldovia, della Romania, dell’Ungheria e della Bulgaria, della Serbia, della Finlandia e degli altri stati baltici, dove il russo è parlato da gran parte della popolazione, proprio come nel Donbass. Ammettere Kiev tra i 27, e’ dunque un atto urgente. Significa sancire anche dal punto di vista formale quello che da quello sostanziale e’ già’ chiarissimo, e cioè che Putin non ha aggredito un ex paese sovietico, sul quale pretende di vantare diritti storici che nascondono chiari obiettivi economici. Ha aggredito noi.
Grazie a Trump lo zar ha il coltello dalla parte del manico
Ora, grazie a Trump, lo zar ha il coltello dalla parte del manico nei confronti di tutti, ma non è lui che deve fare le prossime mosse. Che cosa succederà, ad esempio, se Trump dovesse ordinare all’Europa di togliere le sanzioni e Mosca si sentisse, così, autorizzata ad ammassare truppe ai nostri confini? Ci prepareremo a sopravvivere con il celebre kit? Alzeremo subito le mani a scanso di equivoci? Una risposta facile non esiste, e se qualcuno dice di averla in tasca e’ meglio diffidare, sia che proponga di riarmarci fino ai denti, sia che predichi un pacifismo troppo simile a una posa e a un’abitudine, se non a un tentativo di compiacere elettori e lettori in fuga. Però bisogna decidere se la libertà è più importante della pace, o se la pace più importante della libertà. Perché il pericolo non è Trump. L’America, lo ripetiamo, si libererà presto di lui: i cittadini e gli elettori Maga per primi si stancheranno di pagare le sue mattane e le sue bugie. Il vero pericolo sono i regimi totalitari come la Russia, la Cina, la Turchia, la Corea del Nord e i governi, come il nostro, che stanno usando per stravolgere, a loro vantaggio e per sempre, l’equilibrio di quegli stessi poteri che hanno garantito ottant’anni di pace. Sarà anche una pace relativa, o magari una lunghissima tregua. Eppure è l’unica che abbiamo, e in qualche modo occorrerà difenderla.