Tre anniversari: Truffaut, Pasolini, Feltrinelli. Lottare con i libri “cambia il mondo”. “E combatte le ingiustizie”

 

Giangiacomo Feltrinelli a Roma il 2 luglio 1959 alla XIII edizione del Premio Strega, vinto da Il Gattopardo pubblicato dalla sua casa editrice nel 1958. Sulla lavagna alle spalle di Feltrinelli si legge il nome di Pier Paolo Pasolini candidato con Una vita violenta.

 

“Ero la pecora nera. Qualunque cosa facessi non andava bene; allora non ci tornavo su. Andavo alla biblioteca comunale e divoravo Balzac”. Il 6 febbraio di quest’anno François Truffaut avrebbe compiuto novant’anni (è morto a cinquantadue per un tumore al cervello). Nel 1959 dirige il primo lungometraggio, I quattrocento colpi, un’autobiografia di cui è protagonista l’alter ego Antoine Doinel, un quattordicenne povero e irrequieto (“faire les quatre cents coups è un’espressione idiomatica che in francese significa “fare il diavolo a quattro”, “combinarne di tutti i colori”).

 

Antoine Doinel legge le Opere complete di Balzac dall’edizione a cura di Maurice Bardèche, Paris, 1955 -, in Les Quatre Cents coups, regia: François Truffaut. Produzione: Les Films du Carrosse, S.E.D.I.F. (Francia, 1959)

 

Capita ancora oggi che sia un prete o un maestro di pugilato a togliere dalla strada qualche adolescente. Truffaut/Antoine trova la propria strada leggendo i romanzi di Balzac. Si appassiona a La ricerca dell’assoluto: è la storia di Balthazar Claës, che a ventidue anni studia chimica a Parigi con Lavoisier, ma preferisce tornare in provincia a Douai, nella Fiandra francese, nella casa di famiglia ricca di quadri di Rubens, Rembrandt e Velázquez. 

Il chimico, però, non ha calcolato l’effetto psicologico e materiale del rapporto centro-periferia: dalla fine del 1809 il cinquantaduenne Balthazar rovina sé stesso e la sua famiglia spendendo in libri e strumentazione un patrimonio accumulato per secoli perché la ricerca scientifica non si può portare avanti troppo a lungo da soli, in una sede periferica e senza il sostegno di un ente (un romanzo di eccezionale attualità, a rileggerlo alla luce delle recenti decisioni ministeriali sui fondi per la ricerca scientifica, con la morale implicita che al nord insegnano i professori  bravi e attivi, al sud i cretini e i fannulloni). 

Balzac è stato importante anche per artisti e intellettuali italiani di orientamento marxista che hanno avuto ruoli nella fortuna della storia dell’arte nel nostro paese e che hanno visto nell’analisi della società parigina e della provincia francese nella Commedia umana una chiave interpretativa ulteriore dell’Italia che cominciava ad aspirare a una nuova lotta di liberazione dalle destre e dagli eccessi del capitalismo, da molti più sbrigativamente definita “rivoluzione”.

Non si è trattato di una distorsione di Balzac in chiave comunista: è proprio Karl Marx che legge e usa in questa prospettiva i romanzi realisti della Commedia umana. Nel febbraio 1867, poco prima di dare alle stampe il primo volume del Capitale, Marx suggerisce a Friedrich Engels di leggere Le chef d’oeuvre inconnu, “colmo di deliziosa ironia”. Il capolavoro sconosciuto sarà il libro di Balzac che avrà maggiore diffusione tra i pittori figurativi. 

Cézanne, Picasso, Schifano si identificheranno in vario modo con il pittore insoddisfatto che a Parigi nel Seicento dipinge all’infinito la stessa opera.

La ricezione italiana di Balzac in un’ottica politicizzata è incoraggiata dal lavoro di due case editrici: la traduzione degli Scritti sull’arte di  Marx ed Engels, a cura e con un’introduzione di Carlo Salinari, pubblicati nell’Universale Laterza, Roma-Bari, nel 1967, alle pp. 159-163 contiene il saggio Il realismo di Balzac di Engels. 

Ma prima, tra 1956 e 1959, a Milano Giangiacomo Feltrinelli ha fatto pubblicare dalla sua casa editrice, fondata due anni prima, la traduzione di tre opere di Balzac ispirate a valori di critica sociale con cui lettori marxisti avrebbero potuto simpatizzare: Gli impiegati, a cura di Augusto Pancaldi, racconto sulla degenerazione del clientelismo politico; la prima edizione italiana degli Scritti critici (1958); Mercadet l’affarista, opera teatrale sull’immoralità delle speculazioni economiche. 

Con le traduzioni di Balzac uscite da Giangiacomo Feltrinelli Editore entrano in scena i protagonisti dei due altri anniversari ricorrenti nel 2022. Di uno ricorre la nascita, dell’altro la morte. Entrambi gli intestatari degli anniversari sono accomunati dall’esito tragico delle loro vite, entrambe chiuse da morti violente, entrambe accompagnate da campagne mediatiche ingiuriose.

 

Pier Paolo Pasolini protagonista della performance di Fabio Mauri, Intellettuale, Bologna, Galleria comunale d’arte moderna, 31 maggio 1975 (foto: Antonio Masotti)

 

Il 5 marzo di quest’anno Pier Paolo Pasolini avrebbe compiuto cent’anni, ma viene assassinato quando ne ha cinquantatré. Non partecipo all’industria pasoliniana (parafraso l’incipit di un saggio di Giovanni Agosti, Pasolini a Milano, “Prospettiva. Rivista di Storia dell’arte antica e moderna”, 161-162, Gennaio-Aprile 2016, pp. 187-195, utile non solo per gli storici dell’arte), quindi riferisco due episodi su Pasolini che riguardano i temi di questo articolo (parlo di libri e di anniversari) per introdurre il terzo convitato.

Il 9 dicembre 1973 su “Il Tempo” Pasolini recensisce Eugénie Grandet (nella traduzione di Alfredo Fabietti ed Emma Defacqz, Milano, Garzanti, 1973) in un articolo intitolato Uomini, forme e invenzioni di Gogol’, Puškin, Balzac e Flaubert. Per Pasolini il romanzo di Balzac è “moderno […] nel senso che dà a questa parola la critica marxista (Lukács), cioè nel senso che lo sguardo gettato sulla società da Balzac ne coglie gli aspetti politici e sociali più veri e rivoluzionari (all’interno della borghesia capitalistica)”. 

Alla fine degli anni Sessanta Pasolini avrebbe potuto dirigere la nuova collana di poesia della Giangiacomo Feltrinelli Editore. Con la mediazione di un comune amico friulano e pittore, Pasolini e Feltrinelli si incontrano una sola volta, non entrano in sintonia, il progetto fallisce (l’episodio è in Senior service di Carlo Feltrinelli, pp. 268-269, di cui parlo diffusamente dopo).

Il 19 agosto di quest’anno Giangiacomo Feltrinelli avrebbe compiuto novantasei anni, se il 15 marzo di cinquant’anni fa, a quarantacinque anni, non fosse stato ritrovato cadavere sotto un traliccio Enel dell’alta tensione nei pressi di Segrate. Il commissario Calabresi  arriva “inaspettato e non graditissimo ospite” nella caserma di via Moscova, impone “la presenza della polizia nell’inchiesta”, identifica per primo il morto e segue “le indagini” (cito dalla voce Calabresi, Luigi, di Emmanuel Betta in Dizionario Biografico degli Italiani, 2019, consultabile cliccando qui).

Mutilato e straziato, il cadavere è facilmente riconoscibile perché ha il volto intatto (nonostante la versione ufficiale dei fatti che lo vorrà saltato in aria per un congegno esploso mentre l’editore cercava di montarlo); inoltre l’editore e il commissario si conoscono da tempo e il cadavere ha pure addosso le foto della moglie Sibilla e del figlio Carlo insieme a una patente di guida intestata a “Vincenzo Maggioni nato a Novi Ligure il 19 agosto 1926 […] residente a Milano in via Savona 12” (cito il romanzo biografico di Nanni Balestrini, L’editore, pubblicato per la prima volta da Bompiani nel 1989, dalla ristampa con prefazione di Aldo Nove uscita a Roma, DeriveApprodi, 2006, p. 33).

Feltrinelli si è creato un’identità falsa durante il triennio seguito al sostanziale ritiro dalla vita pubblica. Ha deciso per l’”irreperibilità” un paio di giorni dopo la strage di piazza Fontana. I giornali mainstreaming e alcuni organi della magistratura milanesi concordano quasi totalmente nella “campagna di odio, denigrazione, calunnia, persecuzione delle destre contro la casa editrice, le librerie e contro” Feltrinelli. 

Dopo piazza Fontana, si cerca di attribuire a Feltrinelli, celebre, milionario e con contatti internazionali, un coinvolgimento nella strage in realtà ben lontana “da quella strategia rivoluzionaria di cui alcuni, non si sa bene a quale titolo, mi onorano” (le affermazioni sono dello stesso Feltrinelli, le trascrive il figlio Carlo in Senior Service (1999), Milano, Feltrinelli, 20187, pp. 358-359).

Ugo Mulas, Giangiacomo Feltrinelli in colbacco e “mantello in persiano marrone scuro di Fendi” “lancia le pellicce Živago”: foto e didascalia da “L’Uomo Vogue”, 1, settembre 1967

 

La campagna persecutoria culminante nell’orrore di piazza Fontana ha un precedente che interessa chi si occupa di storia delle immagini. Nel settembre 1967, quando ormai perfino gli stessi sodali hanno difficoltà a confrontarsi con l’editore e le sue scelte, in un servizio di moda scattato da Ugo Mulas per il primo numero di “L’Uomo Vogue”, Feltrinelli appare insieme ad altri intellettuali e artisti “in vogue” (Lucio Fontana, Ettore Sottsass, Emilio Pucci, Nino Cerruti, Eriprando Visconti, tra gli altri).

Come gli altri fotografati, Feltrinelli indossa capispalla firmati in pelliccia (non è una scelta stravagante: su tutti i “september issues” delle edizioni di “Vogue” è tradizione ancora oggi presentare in anteprima le collezioni invernali di abbigliamento di lusso), in uno dei due ritratti in testa ha un colbacco: ecco che la foto di moda si trasforma in una risposta per immagini ai denigratori dell’editore di Pasternak. 

L’astiosa malevolenza per un imprenditore di talento a cui “non […] frega niente di cosa dicono gli altri” è imperante: nei giornali e perfino tra chi ancora lo apprezza.  I due ritratti di Mulas sono estrapolati dal contesto e catalogati tra le “feltrinellate” tra cui trova posto anche la diffamazione dell’editore attraverso la censura della scelta di mostrarsi in pubblico con la futura moglie Sibilla Melega, sconveniente perché ventenne, tanto bella da potere andare a teatro “in minigonna” (i virgolettati vengono da Carlo Feltrinelli, Senior service, p. 330) e “umile figlia di un operaio” (queste sono parole della stessa Sibilla: Cesare Lanza, intervista a Sibilla Melega, “La mescolanza”, 1 agosto 2014).

Dopo Feltrinelli e Calabresi, ammazzati a distanza di un paio di mesi l’uno dall’altro, ci hanno rimesso in molti, e non è detto che chi ci ha rimesso di più fosse colpevole, o più colpevole di altri. Uno dei più autorevoli storici viventi, Carlo Ginzburg, nel libro Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, ha pubblicato un esame filologicamente accuratissimo delle fonti “per influire sull’esito del processo d’appello, smontando in maniera argomentata le presunte prove addotte contro Adriano Sofri” (nel frattempo condannato a ventidue anni di prigione): i lettori delle carte processuali “rimarranno sbalorditi vedendo su quali fondamenti – fradici, per non dire inesistenti – si sia arrivati a un giudizio di colpevolezza”.

Del resto, per ricostruire l’ambigua aria che tirava a Milano basta vedere chi sono i “cattivi” nel film Sbatti il mostro in prima pagina di Bellocchio e, d’altro canto, che caratura culturale ed emotiva hanno i “dilettanti del terrorismo velleitario” e i “ceffi orientati a sinistra” di cui si fida l’editore, nonché quei “gruppuscoli” in parte presenti anche ai suoi funerali rievocati sia all’inizio del film sia all’inizio del “memorial” di Feltrinelli scritto da Alberto Arbasino. 

Legato a Feltrinelli e a Pasolini, Arbasino ha valutato la fine di entrambi come un “inverosimile presepio”: l’editore ritrovato “proprio nella località dove si stampano i suoi libri”, lo “scrittore e regista proprio nella località dove sono ambientati i suoi romanzi e i suoi film”(Ritratti italiani, Adelphi 2014, pp. 217, 226-227, 385).

Aria torbidissima si respira anche in molti punti della ricostruzione della vita di Feltrinelli in Senior service, in cui il figlio Carlo riesce a essere coinvolgente e imparziale, basandosi su fonti e documenti editi e inediti. C’è differenza tra la biografia di Carlo Feltrinelli e altre biografie più o meno recenti: le elenca Paolo Mieli nell’articolo per il cinquantesimo della morte Il destino di Feltrinelli, uscito sul “Corriere della sera” il 1° marzo a p. 37, in cui, secondo la linea storica del giornale, l’editore appare come un miliardario eccentrico e ultra ideologizzato perché tormentato da fantasmi familiari, progressivamente isolato dagli stessi estremisti di sinistra che lo sfruttarono economicamente pur deridendolo o disprezzandolo.

In Senior Service ha invece un ruolo serio e centrale “il  carteggio Feltrinelli-Pasternak” custodito “in una vecchia cassaforte da ufficio in via Andegari” (p. 117), prezioso per chiarire la vicenda editoriale del Dottor Živago e confermare con dettagli eloquenti che si trattò di una vicenda politica internazionale in cui davvero pochi degli illustri o potenti coinvolti fanno una bella figura, con l’eccezione proprio di Boris Pasternak e del suo coraggioso editore.

Il Dottor Živago esce il 23 novembre 1957 e Pasternak vince un Premio Nobel che non può ritirare a causa del trattamento che gli riserva il suo stesso Paese. Feltrinelli considera la stampa e la circolazione del romanzo dell’intellettuale sovietico dissidente un’”esplicita protesta” e una “battaglia per la tolleranza”. L’intellettuale russo, la sua amata Olga (la Lara del romanzo) e l’editore italiano pagano a carissimo prezzo la lotta contro i totalitarismi fatta coi libri.

Gli anniversari sono occasioni faticose o inutili per chi fa il mio lavoro: esperti della superficie delle cose ripetono o travisano cose già dette da altri e ci si trova a dover giocare in difesa per emendare, correggere, dire le cose giuste in una maniera corretta. 

Mi limito quindi a elencare le ragioni personali e professionali per cui il ricordo del 15 marzo 1972 ha un senso decisivo per me come cittadina, come lettrice di romanzi realisti e come storica dell’arte che insegna ai giovani in un’università pubblica nella regione in cui si comprano meno libri in assoluto. 

Se Feltrinelli non fosse riuscito a pubblicare Živago e non avesse concluso gli accordi per trarne un film, tante bambine bionde non sarebbero state chiamate Lara all’anagrafe (è toccato a mia sorella); se Feltrinelli non avesse capito, a differenza di Einaudi e di Mondadori, che Il Gattopardo era un capolavoro e uno strumento di critica politica e sociale, non avrebbe vinto il Premio Strega 1959 e Luchino Visconti non avrebbe girato uno dei film che meglio spiegano il rinnovato pantano politico dell’Italia odierna.

Se Feltrinelli avesse accettato la bocciatura della pubblicazione di Fratelli d’Italia di Arbasino da parte del direttore di collana Giorgio Bassani non esisterebbe il maggiore romanzo italiano che racconta splendori e miserie dell’Italia di allora. Fin qui ho citato gli effetti, privati e pubblici, delle geniali intuizioni di Feltrinelli, editore dei primi best-seller dell’Italia moderna. 

Altre sue scelte da editore hanno avuto effetti, privati e pubblici, di cui oggi ancora usufruiamo, dimenticando che spettano al suo spirito di servizio imprenditoriale. Con i soldi che tutti gli invidiano e ispirato da criteri storici oggettivi, Feltrinelli fonda a Milano una straordinaria biblioteca di storia del movimento operaio internazionale, poi trasformata in un Istituto che oggi fa parte della Fondazione Feltrinelli (qui la storia della biblioteca): “Di ogni fenomeno storico, di ogni corrente politica, cercammo e trovammo testi e documenti, materiale a stampa e iconografico, atti di  congressi, carteggi privati ancora gelosamente chiusi nelle biblioteche degli eredi di  coloro che li avevano scritti, e innumerevoli collezioni di giornali vecchi di due, tre  secoli o appena recenti, molte delle quali uniche superstiti dalla dispersione operata dal  tempo e dalla distruzione sistematica ed intenzionale dell’intolleranza fascista”.

Contemporaneamente stampa libri che tutti possono comprare grazie al prezzo democratico e alla possibilità di passare ore nelle librerie Feltrinelli a Pisa, a Roma, a Milano, a Bologna, che sono anche le prime librerie in cui la gente può entrare a sfogliare i libri attratta dalle copertine, magari comprando ciò che non avrebbe pensato di portare a casa, gadget compresi, e dopo avere ballato alla musica di un juke-box, giocato a flipper, assistito a una performance. 

Feltrinelli inventa spazi in cui i libri sono parte fondamentale dell’educazione degli italiani e anche dei loro momenti di svago e di riposo. È questa la rivoluzione senza armi fatta da uno che a ventinove anni fonda una casa editrice credendo fino all’ultimo che sia possibile “cambiare il mondo e combattere le ingiustizie con i libri”, attraverso una “battaglia per la libertà di espressione contro qualsiasi potere che ritenga l’analisi, la critica o l’attività creativa di un poeta o di uno scienziato […] un’offesa a ideali legittimi, a uomini illustri o tradizioni gloriose, ma tuttavia mai assolute e intoccabili” (si vedano le pp. 259-261, 246 di Senior service).

Diversi collaboratori di Feltrinelli scrivono anche di storia dell’arte per la rivista di Roberto Longhi “Paragone Arte”, di cui l’editore avrebbe potuto diventare l’editore nel 1961. Tra i libri pubblicati, un posto importante occupano le enciclopedie. Ma non tutti possono permettersele e Feltrinelli pensa in particolare ai giovani e alla classe operaia, la stessa interrogata da Mario Soldati nel 1960 nel reportage Chi legge? Viaggio lungo il Tirreno. 

Nel 1960 gli operai di un cantiere conoscevano un poco Dante e Victor Hugo, nel 2022 potremmo chiederci quanti studenti di scuola e di università hanno letto la Commedia e I miserabili?). Nel gennaio 1971, al “prezzo nuovo” di “L. 5000”, equivalenti a circa 43 euro odierni, la casa editrice pubblica l’Enciclopedia Feltrinelli Fischer Arte 2: in due volumetti con la copertina 18 x 12 cm. disegnata dal partigiano Albe Steiner e la direzione dello storico dell’arte marxista trentasettenne Giovanni Previtali, “riunisce in sé le prerogative della grande enciclopedia e quelle del dizionario enciclopedico” e ogni voce in ordine alfabetico “tratta un concetto o un argomento fondamentale della disciplina in questione”. 

Il risultato è rilevantissimo (per esempio, la voce “attribuzione” redatta da Previtali resta uno dei caposaldi storicizzati da cui partire nei corsi universitari per introdurre il metodo del paradigma indiziario su cui si basa la storia dell’arte) anche grazie alla squadra di studiosi (che sarebbero considerati giovanissimi, con i gerontocratici criteri anagrafici odierni) che insegnerà poi dalla maggior parte delle cattedre universitarie che sono state decisive nell’evoluzione della storia dell’arte: nel 1971 Luciano Bellosi ha trentacinque anni, Miklós Boskovits trentasei, Alessandro Conti venticinque, Gianni Romano trentadue, Bruno Toscano quarantuno (sulla storia dell’Enciclopedia Feltrinelli Fischer esiste un saggio di Arturo Galansino in  “Prospettiva. Rivista di Storia dell’arte antica e moderna”, 149-152, Gennaio-Ottobre 2013, pp. 136-140, confluito nel suo libro Giovanni Previtali, storico dell’arte militante, Centro Di 2013, pp. 136-140).

Nello stesso gennaio 1971, Feltrinelli scrive al figlio di dieci anni un vero e proprio testamento spirituale: 

“Forse il regalo più bello che posso farti è lottare per un mondo migliore, un mondo più giusto. Oggi che purtroppo i fascisti riempiono con le loro gesta le pagine dei giornali […] comincerai a capire che, fuori dalla tranquillità della tua casa […] si svolge una battaglia durissima […] per la giustizia e la libertà contro il terrore nero dei fascisti e dei padroni, contro l’ingiustizia, la povertà e la fame. E l’augurio più grande che ti faccio, Carlino, è che quando tu sarai grande, tutte queste lotte, tutte queste sofferenze saranno solo un ricordo del passato, qualcosa che si legge e si studia sui libri e non già come oggi, una realtà contro la quale, credimi, ogni uomo onesto deve combattere” (la lettera è trascritta dal destinatario in Senior service, p. 387).

“Fascisti”, “padroni”, “giustizia”, “libertà”, “povertà”, “fame”: sono parole che mentre scrivo si ripetono senza sosta nei media e sui social. Non “un ricordo del passato” né “qualcosa che si legge e si studia sui libri”, ma ancora “una realtà contro la quale […] ogni uomo onesto deve combattere”.

Non con la lotta armata, non con la guerra, ma con il dissenso garantito dai libri, come hanno provato a fare Truffaut, Pasolini e Feltrinelli (P.S. Oggi probabilmente il testardo Feltrinelli sarebbe riuscito comunque a pubblicare il romanzo di uno scrittore russo inviso a mezzo mondo; ho qualche dubbio su quanti acquirenti avrebbe trovato il romanzo in Italia, in tempi in cui perfino il padre della letteratura russa moderna viene bandito dalle università pubbliche).

 

Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia

 

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