Draghicom – Mario Draghi e la comunicazione

Politica

Dopo i silenzi della discontinuità, un forte consolidamento comunicativo. Con alcuni problemi aperti.

Parliamo del premier, della sua comunicazione e di quella del sistema che lo circonda, lo accarezza, raramente lo graffia, lo racconta.

Faccio questa investigazione dal primo giorno.

Incuriosito dall’invocazione di una platea di esperti che, percependo scollamento e baratro del Paese, ne ritmavano il nome, ancora in posizione remota, incuranti dei suoi dinieghi, ovvero delle sue disponibilità che al tempo venivano descritte solo per scalare il Colle.

Stimolato anche a capire – se possibile un’ora prima di veder spiattellato il fatto sulle prime pagine – quale sarebbe stato l’incidente di sistema che avrebbe fatto precipitare la chiamata di Mattarella con il suo ragionevole consenso.

Completamente all’oscuro, però, circa l’evoluzione che avrebbe avuto non tanto il suo profilo razionale – ben descritto dalle biografie, adattabile alla domanda internazionale e nazionale di un governo competente e con i piedi per terra – quanto quello, ben diverso, emozionale e connesso all’immaginario pubblico.

Ho così scritto, all’inizio, del suo esprit républicain, in raccordo non solo alla modernità laica della rivoluzione francese, ma anche alle nostre culture risorgimentali e costituzionali.

Ho poi scritto del suo benefico silenzio, da intendersi come un fattore di discontinuità – almeno per un po’ di tempo – rispetto al vociare, rissoso e generico, della politica italiana, dai balconi e dalle piazze, più che dagli scrittoi e dai luoghi della sobrietà istituzionale.

E poi ho fatto un garbato colpo di tosse quando questo silenzio poneva domande di fondo. Va bene togliere di mezzo la comunicazione politica (ovvero politico-elettorale) da luoghi che devono soprattutto spiegare intenzioni, processi, rischi, opportunità nell’interesse generale. Ma non bisogna togliere del tutto il microfono al diritto-dovere di questi luoghi, appunto, di esplicitare questa non eludibile e non rinviabile “spiegazione”.

In quella fase i giornalisti cominciavano però ad andare al di là del “colpo di tosse”. C’era chi ricordava che la democrazia comporta il dovere di dare risposte a domande, non a far passare comunicati o tornare ai tempi dei video-missili catapultati dal Cavaliere. E c’era anche chi dubitava della capacità tecnica del premier di sostenere il dialogo con i media, di parlare in pubblico, di operare non solo nel quadro delle sue prerogative ma anche nel costume ormai irrinunciabile della “politica come immagine”.

La fase due è arrivata presto. Mario Draghi sapeva parlare. Sapeva parlare benissimo nel quadro di civili e non reticenti conferenze stampa. Sapeva rispondere con chiarezza e leggera ironia a domande difficili.

Rotto il ghiaccio, questo aspetto dell’accompagnamento dei fatti con un forma di comunicazione rituale ma sdrammatizzata, si dimostra capace di comporre l’io della responsabilità con il noi della complessità di governo.  Una cosa piaciuta ai media, che si sono sentiti parte appunto di un rito perduto forse dall’età dell’oro della Prima Repubblica. Ma che forse è piaciuta anche a Draghi, che senza mai dare l’impressione di cercare il consenso in verità lo trovava e lo patrimonializzava, restando quesì sempre con un livello di fiducia e reputazione superiore al 60%.

In un sistema Italia in cui la politica e le istituzioni politiche stanno tutte sotto al 20% e a quei livelli ci stanno solo il Papa, il capo dello Stato e le forze dell’ordine.

La fase tre è quella centrale circa le due partite di maggiore visibilità. Il controllo-contrasto della crisi sanitaria nel quadro interno. La relazione di garanzia con il quadro europeo (chiamiamolo impropriamente “esterno”) per assicurare a un Paese più volte finito nelle zone opache della credibilità le risorse (elevate) messe in campo per fronteggiare crisi della salute e soprattutto crisi dell’economia.

La stessa componente italiana dell’onda negazionista internazionale – che si sarebbe prodotta comunque in un contesto a forte analfabetismo funzionale – non ha mai né turbato né arrestato il razionale cammino di Draghi e del Governo per misure al tempo stesso ferme ma con ragionevoli aperture per stimolare la ripresa.

Anche questo campo di battaglia, in cui non tutti i leader politici italiani sarebbero passati indenni, non ha sgualcito il profilo pubblico di un premier improntato ad autorevolezza con tratti elitari ma al tempo stesso capace di mediare senza indietreggiare. E capace anche di semplificare posizioni e opinioni senza la usuale sequenza dei “sì, ma”.

La quarta fase ha ora un percorso piuttosto leggibile, altre volte per definizione un po’ sotterraneo e in ombra. È il percorso delle relazioni internazionali dell’Italia e del radicamento di una posizione in cui il ruolo del Paese non sia declamatorio ma riconosciuto dagli stessi soggetti protagonisti di quel sistema. Il G20 a guida italiana, che conta largamente su un lungo processo di preparazione tecnica (quella che Draghi stesso nella conferenza conclusiva dell’evento ha spiegato parlando del ruolo primario degli “sherpa”), ha il suo coefficiente di successo solo se gli attori in campo appaiono credibili ai loro simili (che sono anche competitor), ai media, al sistema di impresa e di orientamento finanziario agli investimenti.

Tutti sanno che un G20 non è un congresso di Vienna. Modula orientamenti, non spartisce il pianeta. Accorda volontà in evoluzione, non produce atti, alleanze, decisioni monumentali. Ma essendo sul tavolo una scommessa di immagine (Greta che dice che non se ne può più dei politici capaci di fare solo “bla bla bla” sul clima) mette la presidenza del G20 nella necessità di produrre una risposta. Quella che Draghi ha chiamato “sostanza”, dicendo una mezza verità, portando tuttavia per la prima volta un orientamento maggioritario internazionale in materia di clima e riduzione Co2 ad intendersi su una data che non si poteva neanche dire.

Il consolidamento comunicativo di Draghi segna risultati. Ma lascia aperte alcune zone d’ombra.

Tutta la manovra economico-finanziaria resta per addetti ai lavori. Lo stesso PNRR è un documento difficile e le promesse di comunicarlo restano legate ad una trasparenza formale. Il raddrizzamento della comunicazione istituzionale, invasa dalla comunicazione politica, come il caso Morisi ha messo in evidenza, grazie a chi si è preso la briga di spiegare che cos’è stato il fenomeno della guerra digitale impostata da alcuni politici con l’artiglieria piazzata nei palazzi pubblici, non è ancora materia annunciata.

La garanzia che la comunicazione scientifica (che sta combattendo l’analfabetismo funzionale immenso che c’è in Italia) non è ancora garantita dall’andare in pensione il giorno dopo la dichiarazione della fine della la pandemia. Si dirà che queste sono misure che chiedono stabilità di governo. E’ vero. Ma questa, come si sa, è un’altra partita che sta per lo più nelle mani di Draghi per capirne l’evoluzione ormai a breve.

*docente di Comunicazione pubblica e politica all’Università IULM di Milano

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