Disastro umanitario a Gaza

In attesa della catastrofe finale o del cessate il fuoco:  una scrittrice ripercorre i fatti (e come ci vengono rappresentati)

Gaza

Le università americane, a cominciare dalla Columbia University di New York, sono in rivolta contro il sostegno militare USA alla guerra di Israele contro Hamas nella striscia di Gaza. Una dopo l’altra sono state occupate con la parola d’ordine “Solidarietà per Gaza”, chiedendo trasparenza dei finanziamenti ricevuti dagli atenei e disinvestimento dalle fabbriche di armi e dalle aziende partner di Israele. Ci sono stati scontri, arresti, e la protesta non accenna a calmarsi. Tra gli studenti in agitazione, non pochi sono ebrei, animati da associazioni come “Jewish voices for peace”.

Infatti l’operazione di terra per invadere Gaza è più che mai incombente. Secondo fonti egiziane, Israele ha fatto sapere che lancerà l’offensiva se entro una settimana non si raggiunge l’accordo sul cessate il fuoco. Non solo gli Usa non sono riusciti a convincere Nethanyau a rinunciarvi, ma il premier israeliano continua ad asserire che la farà, col consenso USA o senza.  In occasione della crisi con l’Iran, molti hanno addirittura pensato che ormai gli USA vi avessero consentito, in cambio di una reazione di Israele contro l’Iran rimasta contenuta, e tale non innescare un conflitto aperto tra i due Stati, tra cui la tensione era ormai salita alle stelle.

Israele infatti il 1 aprile aveva attaccato l’ambasciata iraniana a Damasco, uccidendo 11 persone tra cui un generale iraniano, ufficiale di collegamento con Hezbollah.  La reazione iraniana è stata severa, ma inefficace: un grappolo di missili, lanciati su Israele, sono stati tutti intercettati dalle contraeree, e non hanno causato vittime. L’Iran comunque ha dichiarato che per loro la questione finiva lì; ma Israele, nonostante il successo militare e gli sforzi degli alleati occidentali per chiudere l’incidente, ha annunciato invece una rappresaglia dura all’attacco fallito, con conseguente minaccia da parte dell’Iran di una risposta apocalittica.

Siamo stati col fiato sospeso in attesa di eventi che potevano scatenare una nuova guerra, ma contrariamente a quanto minacciato, la reazione di Israele è stata decisamente misurata: frutto di una febbrile trattativa dietro le quinte, hanno detto gli analisti, con cui Biden ha ottenuto – sembra – che Israele si limitasse a colpire l’Iran in modo simbolico.

Ma accantonato il fronte iraniano, Israele torna a concentrarsi su Gaza. Acquista quindi un alone inquietante per il futuro la notizia del World Press Photo 2024, premio vinto dal fotografo palestinese Mohammad Salem della Reuters, con la sua foto – subito ribattezzata “Pietà” –  in cui una donna velata stringe a sé, avvolta nel sudario, la nipotina di cinque anni uccisa da un missile israeliano a Khan Yunis. E’ noto infatti che l’occidente – e gli USA in particolare –  mentre inviano aiuti umanitari per i palestinesi e deplorano le troppe morti di civili inermi, continuano a rifornire Israele delle armi che adopera.

Da tempo piovono bombe anche su Rafah, la città palestinese di confine dove stanno ammassati un milione e mezzo di profughi. Che non hanno più dove andare: il confine con l’Egitto è chiuso, il mare bloccato. La città è ormai in macerie come Gaza city, come tutta la striscia. Eppure il governo israeliano, che aveva già intimato alla popolazione civile di sfollare proprio verso Rafah per mettersi al riparo dalle imminenti operazioni militari, li ha avvisati già da tempo che devono andarsene anche da lì, perché lì le loro vite sono in pericolo.

E dove potrebbero andare, se non si raggiunge l’accordo?

Secondo gli Israeliani, a quanto pare,  dovrebbero confluire tutti nella zona di Khan Younis e Mawasi, dove la Mezzaluna rossa egiziana ha già allestito un nuovo accampamento destinato ad ospitare 11.000 persone (una goccia nel mare in confronto del numero di profughi attesi), in aggiunta agli altri due campi già esistenti. Dal canto loro gli Egiziani hanno ribadito che i profughi non potranno entrare in Egitto ma hanno allestito  lungo la strada che segna il confine, dal lato egiziano, una “zona neutrale” oltre alla quale non sarà consentito ai fuggiaschi di andare, e dove si ritiene di poter rifugiare 200.000 persone, assistendole con cibo, acqua e ospedali da campo. Dal canto suo l’Autorità palestinese dovrebbe fare lo stesso nella “zona neutra” dal lato di Gaza.  Tutto ciò non potrà comunque bastare. l’Organizzazione mondiale della Sanità ha da tempo dichiarato che l’offensiva contro Rafah sarebbe “una catastrofe umanitaria oltre ogni immaginazione”, e porterebbe quanto resta del sistema sanitario al collasso, mentre l’estrema destra israeliana continua a sfornare piani di deportazione dei palestinesi nel deserto del Neghev o simili.

È difficile in realtà immaginare una catastrofe umanitaria ancora peggiore di quella attuale:

Di contro alle 1200 vittime del 7 ottobre,  i più di 3000 feriti, tra cui diverse donne stuprate,  e ai 129 ostaggi tuttora in potere di Hamas, ad oggi l’offensiva israeliana nella striscia di Gaza ha ucciso ben più di 30.000 palestinesi, e ne ha feriti più di 75.000,  tra cui un gran numero di vecchi, donne e bambini, lasciando inoltre un numero enorme di persone sul lastrico, senza più casa né risorse per vivere, nella più totale devastazione del territorio.  Per valutare queste cifre bisogna rendersi conto che il numero di civili morti in Ucraina, secondo la missione di monitoraggio delle Nazioni Unite, sono ad oggi più di 10 mila, di cui 575 minori, mentre i feriti sono più di 20 mila.

Agli sfollati bisognosi di tutto, le organizzazioni umanitarie già ora non riescono a far giungere sufficienti aiuti, perché i convogli vengono bloccati e l’esercito israeliano non li lascia passare, quando non vengono addirittura uccisi gli stessi operatori umanitari, come è successo ai sette volontari della o.n.g. World Central Kitchen, nella notte del 1 aprile, in seguito all’attacco di un drone israeliano. Ma non erano i primi cooperanti morti, tanto che molte organizzazioni sono state costrette a far rimpatriare i propri, e rinunciare ad assistere la popolazione.

E tutti ricordiamo la strage (112 morti, 750 feriti) degli affamati che il 1 marzo si accalcavano intorno ai camion per la distribuzione di viveri, quando i militari hanno aperto il fuoco e la gente è fuggita in preda al panico.

Nel frattempo, L’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Volker Turk, si è detto «inorridito» dalla distruzione completa dell’ospedale Al-Shifa a Gaza e del Nasser Medical Complex di Khan Younis, operata, secondo Israele, allo scopo di cercare terroristi ed ostaggi. E ha chiesto un’indagine internazionale sulle fosse comuni ritrovate presso il distrutto ospedale Nasser, dove accanto ai corpi seppelliti dai palestinesi con rituale islamico sono stati ritrovati anche una decina di corpi con i polsi legati o seppelliti in modo irrituale, dopo che le truppe di occupazione avevano estratto e poi riseppellito i cadaveri, alla ricerca di morti israeliani.

E come se non bastasse, il Wall Street Journal ci ricorda che in Israele è in corso un’altra sanguinosa campagna militare, contro i palestinesi che vivono fuori della Striscia. Infatti titola il 24 aprile: “Israele alla caccia di un unico militante fuggiasco importa nella West Bank le tattiche di guerra di Gaza. Bombardamenti, droni e rastrellamenti per stanare gli attivisti trasformano il territorio palestinese in un altro fronte di guerra”. E precisa:  “Israele sta dispiegando tattiche di guerra contro gli attivisti in alcuni dei 19 campi profughi che tuttora punteggiano la riva ovest del Giordano, oltre 75 anni dopo che la fondazione dello Stato d’Israele ha sloggiato dalle loro case più di 700.000 Palestinesi.”

Al riaddensarsi della tempesta su Rafah, Blinken  è volato ancora in Israele nell’intento di sbloccare il cessate il fuoco richiesto da Hamas per rilasciare gli ostaggi; e da Hamas è venuta una risposta di cauta apertura alla proposta egiziana in merito. Nell’attesa, e nella speranza che i nodi si sciolgano, conviene forse ripercorrere gli avvenimenti che ci hanno condotto fino a questo punto,  per cercare di averne una visione d’insieme, che sfugge nel succedersi frammentario delle notizie; un’occasione per riflettere anche su come i nostri media ci hanno via via informato della tragedia in corso.

Quando il 7 ottobre 2023 si è sparsa la notizia dell’eccidio nei kibbutz di Israele e nella pacifica festa in cui centinaia di giovani stavano sentendo musica, siamo tutti inorriditi di fronte a quell’attacco brutale che non aveva risparmiato tanti vecchi, bambini e giovani innocenti e tanti altri ne aveva rapiti come ostaggi.  Dopo, siamo stati inondati dalle immagini dolorose dei familiari in lacrime, dei corpi senza vita, del sangue. La rappresaglia di Israele non è partita prima che tutti, in tutto il mondo, avessero ben impresso il numero delle vittime e degli ostaggi e le loro facce, non anonimi, ma in carne ed ossa, con nomi e storie e persone care che si disperano. Dopo di allora, tonnellate di bombe si sono rovesciate su Gaza.

Il numero di morti  è salito vertiginosamente. Ma nessun telegiornale ci mostrava i loro volti, le loro storie. I morti palestinesi sono solo numeri, cifre anonime. Come se ci fossero vittime civili che contano di più e altre meno: da un lato vite spezzate, dall’altro inevitabili “effetti collaterali” di una legittima autodifesa.

Sta di fatto che a Gaza è mancata da subito l’elettricità, l’acqua, il carburante: poi anche il gas e la legna per cucinare. Circa due milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le loro case, portando con se poco o nulla.  Gli ospedali sono stati distrutti uno dopo l’altro, e mancano tremendamente farmaci, anestetici, posti letto, attrezzature. I feriti muoiono spesso perché sono operati troppo tardi in condizioni igieniche precarie. Ma non era facile vedere sui nostri schermi o sulle nostre prime pagine i feriti ammucchiati per terra su giacigli di stracci, i genitori disperati sui cadaveri dei loro bambini morti, i vecchi rimasti soli; queste immagini ci sono ma bisogna andarsele a cercare on line o sulle emittenti arabe. Noi nei notiziari vediamo di solito cumuli di macerie dall’alto, sentiamo esplosioni di lontano.

Oltre alla volontà dei nostri media di non mettere in imbarazzo Israele mostrando troppo l’umanità dei palestinesi, c’è però un motivo oggettivo per cui i reportages da Gaza scarseggiano in Occidente. Dal 7 ottobre al 19 marzo solo nella Striscia sono stati uccisi 128 giornalisti. Non sempre si tratta di incidenti: ci sono stati anche attacchi mirati contro chi si segnalava inequivocabilmente come reporter.  Sul posto, nonostante le perdite continue, sono rimasti praticamente solo giornalisti di media arabi. I giornalisti occidentali stanno in Israele.

Ci avevano mostrato ripetutamente dai teleschermi  il video  inviato alle proprie famiglie da un fanatico incursore del 7 ottobre, entusiasta di avere ucciso tanti ebrei con le sue mani, con l’audio del padre che incita il figlio ad ammazzare ancora (senza parlare dei numerosissimi fake (falsi) che sono circolati per mostrare la barbarie dei palestinesi, ad esempio con bimbi in gabbia); non sono stati altrettanto diffusi – ma sono stati mostrati al Tribunale dell’Aja – gli  sgradevoli video dei soldati israeliani postati sui social per farsi vedere dagli amici mentre allegramente devastano e razziano le case palestinesi rimaste in piedi, gridando “li ammazzeremo tutti”, o dileggiano i prigionieri (né si è data pubblicità al fatto che, secondo quanto scrive da Israele Oren Ziv su Internazionale dell’8 marzo 2024, “esiste un’unità speciale dell’esercito israeliano dedicata al sequestro di denaro e altre proprietà trovate sul campo di battaglia. Finora si sa che l’esercito ha confiscato a Gaza decine di milioni di shekel che secondo i militari erano in possesso di Hamas”.)

Non c’è da stupirsene, ma va detto che in relazione a questa vicenda il materiale diffuso dai media risulta pesantemente di parte, nel senso che gli organi di informazione mainstream tendono a pubblicare soltanto i video che mostrano la spietatezza e la disumanità di una delle parti in guerra, mentre ce ne sarebbero di entrambe le parti.

Dopo due mesi di bombardamenti ininterrotti, una pausa di speranza l’ha aperta a fine novembre la tregua raggiunta. Gli accordi prevedevano il rilascio di 50 ostaggi trattenuti da Hamas dopo l’attacco del 7 ottobre a Israele, in cambio di 150 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane per proteste, aggressioni contro le forze israeliane o danneggiamento alle proprietà e l’ingresso di 340 camion carichi di aiuti umanitari. Altri giorni di tregua supplementari hanno permesso di portare a 105 gli ostaggi liberati, soprattutto donne, bambini e anziani, sia israeliani che di altre nazionalità.

Ma a dicembre la guerra è ripresa come prima. Così le vicende delle operazioni dell’esercito di Israele per “sradicare Hamas” dopo la strage di civili del 7 ottobre, sembravano diventate una routine che non faceva notizia. Tanto che un giornalista italiano, Raffaele Oriani, nel silenzio quasi totale dei media, aveva dato le dimissioni dal Venerdì di Repubblica, per protesta.

Frattanto, che lo volessimo sapere o no, la situazione della striscia di Gaza continuava ad aggravarsi nell’assuefazione generale, come se fosse una fatalità, mentre ai bombardamenti si alternavano ormai le incursioni dell’esercito via terra, casa per casa.

Poi l’11 gennaio Gaza è tornata sulle prime pagine dei giornali,  in un susseguirsi di notizie sempre più allarmanti.

La scossa che è ridestato l’attenzione è stata la clamorosa denuncia presso la Corte internazionale di giustizia dell’Onu, mossa dal Sud Africa nei confronti di Israele. I nostri media hanno dovuto rimettere Gaza in primo piano per occuparsi della scandalosa accusa: il Paese nato dalla liberazione dall’apartheid accusa di genocidio il paese fondato dagli scampati al più immane genocidio razzista del XX secolo.

Poi è arrivata, il 26 gennaio, la prima pronuncia del Tribunale, che riteneva ammissibile l’accusa, dando a Israele un mese di tempo per documentare che non stava commettendo genocidio, e intanto, in via d’urgenza, disponeva che Israele prendesse «tutte le misure per prevenire qualunque atto di genocidio a Gaza». Pronuncia che Israele ha respinto al mittente con sdegno, come tutti si aspettavano. Addirittura Il Ministro della Sicurezza dello Stato ebraico ben Gvir ha definito la Corte di giustizia internazionale dell’Aia «antisemita» e ha esortato Israele ad ignorarne le decisioni.

Dopo di che, i nostri media sarebbero stati pronti a passare ad altro, dato che prima di arrivare a una sentenza ci vorrà molto tempo, forse anni. Ma si è diffusa la notizia di un’imminente cessate il fuoco per un accordo raggiunto sul rilascio di prigionieri, che ha suscitato a molte attese; attese che si sono poi arenate in logoranti trattative, nonostante le pressioni americane, perché Hamas chiede un cessate il fuoco definitivo e totale, Israele no.

Intanto il 9 febbraio è stata annunciata l’operazione di terra contro Rafah, che rischia di risolversi in una ulteriore carneficina, senza contare quella dovuta alla fame e alle malattie non curate che infieriscono contro gli sfollati palestinesi. Lo ha dichiarato anche l’Organizzazione mondiale della Sanità: secondo Richard Peeperkorn, rappresentante dell’Oms per Gaza e la Cisgiordania, la capacità dell’Oms di distribuire aiuti medici a Gaza resta fortemente limitata perché molte delle sue richieste di consegna vengono respinte da Israele.

A questo punto il fronte dei governi occidentali, solitamente compatto nel sostegno a Israele, ha cominciato a mostrare delle incrinature.

Lo stesso presidente USA Biden non ha potuto trattenere espressioni di impazienza nei confronti di Nethanyau, sordo a ogni tentativo di convincerlo che la durezza della reazione israeliana rischia di essere controproducente e alienare simpatie a Israele. Certamente è controproducente per la rielezione di Biden. Le proteste negli USA infatti sono andate sempre crescendo, dal soldato americano che si è dato fuoco davanti al consolato israeliano gridando Free Palestine, ed è morto, ai vescovi episcopali che hanno pubblicato un appello per chiedere il cessate il fuoco a Gaza e lo stop ai finanziamenti americani a Israele.

Anche il Vaticano ha reagito, dichiarando che la difesa deve essere proporzionata all’offesa, e che a Gaza si era passato un limite. Il 19 febbraio 26 Stati UE (quindi con la sola eccezione dell’Ungheria) hanno chiesto al governo israeliano di non lanciare un’operazione di terra a Rafah, per non peggiorare una situazione già catastrofica, nonché «un’immediata pausa umanitaria che possa condurre a un cessate il fuoco sostenibile, al rilascio incondizionato degli ostaggi e alla fornitura dell’assistenza umanitaria». Josep Borrell (l’Alto Rappresentante per la politica estera comune europea) ha ribadito infatti che a Gaza gli aiuti umanitari “non arrivano, o arrivano col contagocce, in quantità ridicole rispetto alle necessità della popolazione”.  E “non arrivano per via di tutti gli impedimenti che vengono posti affinché non arrivino”.

L’intensificarsi della tensione ha avuto anche i suoi risvolti all’italiana quando da noi l’attenzione era monopolizzata dal Festival di Sanremo. Fuori programma, uno dei cantanti in gara ha ripetutamente chiesto dal palco il cessate il fuoco. Un altro, Ghali, nel testo della sua canzone faceva osservare a un extraterrestre che da noi per un confine si bombardano gli ospedali; senza fare nomi neanche lui. E’ bastato perché la Comunità israelitica di Milano si risentisse, denunciando i fatti come “propaganda anti israeliana inaccettabile” e invocando l’intervento della RAI, prontamente effettuato: la presentatrice di una seguitissima trasmissione ha dovuto leggere in diretta un comunicato dell’Amministratore delegato Roberto Sergio, in cui la RAI si dissociava da quanto detto dai cantanti e le vicende del conflitto venivano riassunte come se esistessero solo le vittime del 7 ottobre.  Di suo, la conduttrice ha ritenuto opportuno aggiungere che “tutti ovviamente condividiamo” ciò che aveva letto, suscitando poi un vespaio sulla stampa – dove molti hanno deplorato la Rai asservita al governo – e sui social, dove si potevano leggere a decine commenti del tipo: “ma vi rendete conto? Uno chiede il cessate il fuoco, chiede di non bombardare gli ospedali, e diventa una provocazione?!”

Ma che succedeva intanto dentro Israele?

È noto che il premier Netanyahu e il suo governo di estrema destra, al momento dell’attacco di Hamas, si trovava in una posizione pericolante, accusato tra l’altro di corruzione, mentre il paese era spaccato tra gli oppositori e i sostenitori della riforma costituzionale che il governo si accingeva a varare. L’attacco di sorpresa non è bastato a ricompattare il Paese.

In realtà fin dal 7 ottobre lo shock non ha impedito a Haaretz, il più autorevole giornale di Israele di opposizione, di pubblicare opinioni molto lucide, che chiedevano ai concittadini di ripercorrere come si fosse arrivati a un attacco terroristico di quella portata micidiale contro la popolazione civile. Scrittori e giornalisti israeliani ragionavano sul fatto che l’aggressione improvvisa non scaturiva dal nulla, e riconoscevano la sofferenza dei palestinesi, senza alcuna colpa privati della loro terra ai tempi della fondazione dello Stato d’Israele, ricordando gli anni di vessazioni, l’occupazione e la colonizzazione continua di nuove terre palestinesi, che avevano inasprito il conflitto, e infine il sabotaggio di ogni processo di pace e l’affossamento deliberato dell’Autorità palestinese, che aveva esacerbato i rapporti, portando alla vittoria politica di Hamas nella striscia di Gaza.

Le famiglie degli ostaggi, dal canto loro, non hanno mai smesso di manifestare per chiedere che la liberazione dei prigionieri e la loro incolumità diventino una priorità per il governo, e non hanno mai accettato l’escalation militare che ogni giorno che passa mette in pericolo la speranza di rivedere vivi i loro cari. Da più parti in Israele si denuncia il fatto che il governo sembra insistere nella guerra soprattutto perché solo la guerra gli consente di rimanere in piedi.

Lo stesso ex premier Olmert, anche lui del partito Likud, ha denunciato la totale mancanza, da parte di Netanyahu, di una visione del futuro, di una prospettiva che consenta di giungere in futuro a una pace e a un rapporto accettabile con i palestinesi. Non sono pochi insomma gli israeliani che criticano la decisione del governo di risolvere la questione di Gaza “sradicando Hamas”, e osservano che la guerra a oltranza porta a diffondere nella popolazione palestinese sentimenti di rancore e di rivalsa verso Israele, che alimentano Hamas invece di isolarlo. Per ogni casa e famiglia distrutta nella caccia all’ultimo militante, ne nascono inevitabilmente molti nuovi, e allora insistendo su questa strada non c’è alcuna speranza di sradicare l’organizzazione avversaria.

A meno che “sradicare Hamas” a costo di far terra bruciata e sopprimere ogni vita intorno, non voglia dire risolvere la questione palestinese facendo fuori l’ultimo palestinese: ma allora questa sarebbe una “soluzione finale” che darebbe ragione alle accuse di genocidio.

Sulla quale accusa e sulle reazioni suscitate, compresa quella di antisemitismo, dovremo ritornare in un prossimo articolo.

 

Simona Nuvolari – Scrittrice

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