Crisi demografica, c’entra anche il sistema scolastico. Con il ritardato inserimento nel mondo del lavoro

Un esperto del mondo della scuola ci spiega perché. L’aver creato una società di eterni ragazzi, di fuori corso della vita inclini a procrastinarne le scelte fondamentali, “democratizzando” il fenomeno dei Vitelloni, un tempo tipicamente borghese, aver procrastinato l’inserimento non contribuisce certo alla crescita demografica. E nemmeno, diciamocelo francamente, alla crescita tout court del sistema Italia

A lungo rottamata come un residuato bellico della retorica littoria e della sua fallace equazione fra numero e potenza, la questione demografica torna ad accendere il dibattito politico. Nessuno ovviamente propone di reintrodurre la “tassa sul celibato” o le solenni premiazioni delle coppie più prolifiche, ma si fa sempre più condivisa la consapevolezza che, con gli attuali tassi di crescita demografica, l’Italia rischia di divenire un Paese di vecchi in cui magari non c’è posto per i vecchi, vista l’insostenibilità del sistema previdenziale e sanitario.

Qui non si tratta di rivisitare la retorica fascista sugli “otto milioni di baionette”, ma di constatare che il crollo delle nascite rischia o di costituire un freno alla crescita o di alterare gli equilibri etnici, religiosi, culturali della penisola, rendendo necessaria una massiccia immigrazione, con i problemi che essa può comportare, quando supera una certa soglia, come insegna il caso francese. Quando Thanatos batte Eros, quando le morti superano le nascite, un popolo è condannato all’estinzione.

Esistono, è vero, anche i teorici della “decrescita felice”, per cui una riduzione della popolazione italiana potrebbe risultare positiva. E almeno sul piano teorico potrebbero avere ragione. Il nostro è uno dei Paesi più densamente popolati d’Europa, secondo i dati del 2020, con 196 abitanti per chilometro quadrato contro una media Ue di 115. Ma il ragionamento reggerebbe se a calare simmetricamente di numero fossero tutte le classi anagrafiche. Non è così, e il combinato disposto della crescita delle aspettative di vita e del crollo della natalità provoca una pericolosa riduzione dei residenti in età lavorativa.

 

Malthus

 

È fatale, di conseguenza, parlare di politiche demografiche senza pudori ideologici. Tanto più che l’impegno pubblico a favore della natalità e la condanna di quelle che un tempo erano chiamate pratiche maltusiane, in Italia associati al fascismo, non sono in realtà monopolio della destra. In Francia per esempio hanno avuto come antesignano uno dei più alti esponenti della cultura progressista, quell’Emile Zola che nel 1899 pubblicò il romanzo Fécondité, in cui denunciava da una prospettiva integralmente laica i rischi insiti nella borghese “società del figlio unico”.

 

Emile Zola

 

Il problema però emerge al momento di passare dalla denuncia del fenomeno all’analisi delle origini e all’eventuale proposta di antidoti.

In primo luogo, è saggio non farsi sedurre da quella che lo storico inglese Edward Carr, nelle sue Sei lezioni sulla storia, chiamava “la superstizione della causa unica”. L’origine di un fenomeno o di un evento – si tratti della caduta dell’Impero Romano o della Rivoluzione Francese – non è mai una sola. Non lo è in particolare l’origine di una tendenza che matura nell’intimità di una coppia, e che può essere al massimo influenzato da scelte politiche o da fattori etico-religiosi.

 

Edward Carr

 

È chiaro che in una società secolarizzata l’appello al crescimini et multiplicamini biblico è sempre meno ascoltato, tanto più che già con Pio XII era stato concesso in determinate situazioni il ricorso ai metodi naturali di prevenzione del concepimento; ma non bisogna scordare che lo stesso Zola partiva da un punto di vista laico. È vero che problemi di carattere economico angustiano le giovani coppie negli anni che sarebbero più adatti alla riproduzione. Ma il baby boom italiano raggiunse il culmine negli anni Cinquanta e Sessanta, un periodo in cui, fra Ricostruzione e “Miracolo”, i bilanci familiari soprattutto nel prolifico Mezzogiorno non erano certo lauti: ci si aiutava restringendosi nelle stanze, allungando la minestra e magari consolandosi per una gravidanza imprevista con il detto consolatorio secondo cui “ogni bimbo nasce col suo panierino”.

 

Papa Pio XII

 

A favorire la crescita demografica era semmai il minor costo del mantenimento di un figlio, la disponibilità di familiari o vicini disposti a prendersene cura in assenza dei genitori, il rapido inserimento della prole nel mercato del lavoro, almeno a livelli di classi popolari. E poi, naturalmente il fervore di un’epoca in cui si pensava che comunque i figli sarebbero potuti salire di uno scalino rispetto al padre nella gerarchia sociale: il figlio del maresciallo ufficiale (quanti sottufficiali felici di mettersi sull’attenti davanti al figlio con le stellette di sottotenente!), il figlio del muratore geometra, il figlio del bidello professore, come in una pellicola di Castellani interpretata da un indimenticabile Aldo Fabrizi.

 

Aldo Fabrizi

 

Un ruolo fondamentale, come fabbrica di queste speranze spesso tutt’altro che deluse, era svolto dalla scuola, che anche per questo fino alle soglie degli anni Sessanta è stata una delle istituzioni più rispettate nella società italiana, forse più della stessa magistratura, senz’altro più della burocrazia pubblica e delle Forze Armate, su cui gravava l’ombra della sconfitta. Tale fiducia in genere non era infondata, visto che – a parte le eccellenze dei licei – la scuola italiana fino agli anni Settanta era in grado di preparare col comparto dell’istruzione tecnica e professionale manodopera qualificata e quadri intermedi di alto livello, come forse nessun altro Paese al mondo.

Certo, con la riforma del 1962, la nuova scuola media abolì i corsi di avviamento commerciale e industriale che avevano sfornato negli anni precedenti migliaia di operai qualificati, computisti, commessi; ma la riforma, nata da un compromesso fra democristiani e socialisti, interpretava l’esigenza di fornire a tutti gli studenti della scuola dell’obbligo un patrimonio culturale comune – era previsto in seconda persino lo studio del latino – e ad evitare che scelte precoci ipotecassero il futuro di un giovane. Inoltre persisteva la possibilità di seguire materie opzionali funzionali alle scelte successive, dal latino alle applicazioni tecniche. Con la riforma del 1977 tale prospettiva cambiò e le Medie divennero una scuola generalista, con la tendenza, tipica della classe dirigente ministeriale, a “teoricizzare” anche gli insegnamenti pratici, trasformando per esempio il disegno in educazione artistica, la ginnastica in educazione psicomotoria, le applicazioni tecniche in educazione tecnologica.

Rimanevano intatti però, anche in seguito all’incapacità della classe dirigente della Prima Repubblica di approdare a una riforma della scuola secondaria superiore, gli istituti tecnici e i professionali. I primi consentivano di conseguire in cinque anni dopo le medie un diploma funzionale all’esercizio di una professione: ragioniere, geometra, perito. Diplomi spendibilissimi in un’Italia ancora in crescita, al termine di un percorso che, dopo il 1969, apriva comunque le porte di tutte le facoltà universitarie. I Professionali consentivano di conseguire in genere dopo tre anni (quattro per gli odontotecnici), diplomi di qualifica riconosciuti a livello nazionale, con la prospettiva di un rapido inserimento nel mercato del lavoro, ma anche, dopo il 1969, di proseguire con un corso biennale propedeutico alla “maturità professionale” e all’eventuale accesso, anche in questo caso, a tutte le facoltà. Naturalmente, il sistema presentava delle lacune, specie negli istituti professionali. Lo spazio riservato alle discipline teoriche nel triennio iniziale era limitato, con italiano, storia ed educazione civica accorpate nella “cultura generale”, e questo costringeva a frettolosi recuperi nel biennio finale propedeutico alla maturità; i programmi non sempre erano aggiornati alle esigenze del mercato del lavoro e gli scolari erano impegnati spesso in lunghe ore di “aggiustaggio”, che però presentavano il merito di far maturare attitudini di precisione oggi in larga misura venute meno.

Tale ordinamento fu stravolto fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo con la riforma di questo ordine di studi promossa dal volitivo direttore dell’Istruzione professionale presso il Ministero di Viale Trastevere, Giuseppe Martinez. La riforma fu preceduta da una sperimentazione, il cosiddetto “Progetto 92”, che ovviamente diede esito positivo: è difficile, del resto, immaginare che i responsabili delle sezioni pilota, insegnanti convinti della necessità di introdurre modifiche, ammettessero il fallimento, smentendo se stessi. Entrata a regime, la riforma ridusse drasticamente le ore di pratica a beneficio delle discipline teoriche, con un duplice risultato: ridimensionare la capacità degli istituti professionali di formare artigiani e tecnici qualificati (ma anche, negli Alberghieri, camerieri e cuochi) e disamorare alla frequenza ragazzi che avevano scelto questo tipo di studi attratti dalla possibilità di un apprendistato pratico. Veniva drasticamente ridotto il numero degli indirizzi, che sino ad allora avevano consentito nella loro varietà di adeguare gli istituti alle esigenze del mercato del lavoro.

Le criticità furono paradossalmente aggravate dall’elevazione dell’obbligo scolastico a 15 e poi 16 anni, generando, in alunni costretti alla frequenza senza averne motivazioni, quegli episodi di insofferenza e a volte violenza verso compagni e professori che tutti conosciamo. Chi abbia esperienza di scuola, o anche semplicemente di vita, sa bene che l’intelligenza non si manifesta in una sola forma; c’è un’intelligenza analitica e una sintetica, e c’è anche un’intelligenza pratica. È l’intelligenza di ragazzi impazienti della teoria, che per poter apprendere e partecipare al dialogo scolastico hanno bisogno di assistere alla concretizzazione di quanto appreso, si tratti di allestire la mensa per compagni e professori all’Alberghiero o di riparare un’auto in un professionale a indirizzo meccanico. Questa intelligenza pratica in una scuola eminentemente teorica, quasi un liceo di serie C, senza la filosofia né il latino, come quella creata dalle riforme degli anni Novanta, non poteva e non può trovare soddisfazione.

Quando il dottor Martinez fu destinato dall’allora ministro Berlinguer alla direzione dell’Istruzione tecnica, la capacità professionalizzante anche degli istituti tecnici industriali e commerciali cominciò a scemare. Il risultato è che oggi per formare un perito, un ragioniere, un geometra è necessario un percorso di laurea breve. Successive scelte hanno aggravato questa deriva, per esempio la fusione dei licei artistici con gli istituti d’arte, che invece avevano il merito di preparare non artisti incompresi ma artigiani qualificati e richiestissimi, come specialisti del ferro battuto, dei mosaici, delle vetrate.

Ma cosa c’entra tutto questo con la crisi demografica, potrà obiettare il lettore? All’apparenza poco, in realtà qualcosa di più. A dirlo non è chi scrive, ma uno dei più quotati esperti in materia demografica, Roberto Volpi, che da tempo sostiene questa tesi e anche in un suo recente intervento sul supplemento culturale del “Corriere della Sera”, “La lettura” del 26 giugno scorso, ha denunciato come un tragico errore l’affossamento dell’istruzione tecnico-professionale, “a vantaggio di una scombiccherata, tronfia, pervasiva e più ancora che inconcludente dannosa liceizzazione del sistema dell’istruzione secondaria superiore”.

Secondo il professor Volpi moltissimi ventenni potrebbero trovare facilmente lavoro, “se non fossero stati letteralmente traviati da un’aspirazione liceale che, sospinta allo spasimo dalla concorrenza tra licei di diversa etichetta più ancora che indirizzo, ha investito come uno tsunami famiglie e comunità”. Sempre secondo Volpi, come secondo il sottoscritto, il ritardato inserimento nel circuito lavorativo è una concausa della crisi della natalità.

Un giovane (o una giovane) che alle soglie dei vent’anni raggiunge l’autosufficienza economica è in grado di mettere su casa e famiglia, di fare figli, di pensare seriamente al futuro. Un giovane (o una giovane) parcheggiato in licei “deboli”, che al termine del percorso aprono soltanto la strada all’università, sarà portato a procrastinare le scelte fondamentali dell’esistenza, si sentirà, continuando a vivere con i genitori o comunque grazie al loro contributo, un eterno figlio piuttosto che un potenziale padre o una potenziale madre. La scelta di avere degli eredi maturerà, se maturerà, solo in seguito, non più nel pieno delle potenzialità riproduttive.

E siccome una laurea non garantisce più come una volta un elevato potere d’acquisto, avvertirà pesantemente l’onere di conciliare impegni lavorativi e quel dispendio non solo di denaro, ma anche di tempo e di cure, quel coinvolgimento emotivo che l’arrivo di un bambino comporta, specie presso coppie di genitori prossimi alla quarantina e abituati a convivere come eterni fidanzati.

A tutto questo, occorre aggiungere un altro elemento: il lavoro – se ovviamente non degenera nello sfruttamento – non è solo uno strumento per sopperire alle necessità dell’esistenza, ma una scuola di vita, in cui si impara a tener fede agli impegni presi. Un esame all’università si può sempre rimandare, una consegna, una “comanda”, un articolo in molti casi no. E anche molti impegni legati alla nascita e alla crescita di un figlio – dalla “poppata” notturna all’accompagnamento a scuola – non sono procrastinabili.

Naturalmente, il problema del calo demografico non si risolve solo accelerando l’ingresso nel mercato del lavoro. Non sono certo solo i fattori economici a scoraggiare le giovani coppie dal prolificare. Un figlio rappresenta senza dubbio un costo, solo in parte compensato da un welfare che per altro con l’applicazione dei parametri dell’Isee penalizza le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano; ma rappresenta anche un drastico cambiamento delle abitudini di vita, la necessità di ricorrere a baby sitter o ai suoceri anche per uscire una sera da soli, di rinunciare ai viaggi esotici per un monotono soggiorno in una località marina. E sempre meno spesso la sua nascita e la sua crescita comportano un consolidamento dei legami fra partner. Dinanzi a scelte concernenti la sua educazione emergono differenze di sensibilità e di cultura fra le famiglie di provenienza che a volte incrinano la stabilità di un rapporto. Per tacere delle conseguenze traumatiche, per la prole come per i genitori, di una separazione o di un divorzio.

Resta il fatto che aver creato una società di eterni ragazzi, di fuori corso della vita inclini a procrastinarne le scelte fondamentali, “democratizzando” il fenomeno dei Vitelloni, un tempo tipicamente borghese, aver procrastinato l’inserimento non contribuisce certo alla crescita demografica. E nemmeno, diciamocelo francamente, alla crescita tout court del sistema Italia.

 

 

Enrico NistriSaggista

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