Parliamoci chiaro: questo è un Paese oltre che di “extraterrestri” ( copyright Craxi) anche di smemorati, dalla memoria volatile. Volatile? Forse sì ma forse anche no, se si tiene conto che per circa un trentennio – diciamo dagli anni 1993-94 in poi, e oltrepassando la sua morte – il nome di Craxi era diventato un nome antonomastico per significare e compendiare ruberie, latrocini, ecc.. Il nome del leader socialista, schiacciato, nella sua immagine e nella sua storia di leader, sulla vicenda giudiziaria, ridotto a un’unica dimensione che volutamente ignorava i meriti politici di uomo di governo e di statista.
Il nome di Craxi, a causa anche del fenomeno della personalizzazione della politica che era cominciato anche con lui, si trascinava dietro nel giudizio sommario e portato fino al dileggio, al pregiudizio qualunquista e inveterato, anche il partito socialista, un partito dalla storia centenaria, tra i protagonisti della Resistenza e della rinascita del Paese.
Si è per quasi tre decenni ironizzato sul Craxi in fuga, sul Craxi esule o latitante, sulla sua villa “principesca” in Tunisia. Poi si è visto che non era così. Questa vocazione alla damnatio per la verità da qualche anno ha cominciato a conoscere qualche cedimento, qualche politico ( per esempio D’Alema, proprio su questo giornale) ha cominciato a dire che il giudizio su Craxi andava rivisto.
Sono stati pubblicati libri, tenuti convegni. Ora, la ricorrenza del venticinquennale della morte sembra aver fatto un miracolo: un fiorire di dichiarazioni per mettere in evidenza la modernità dell’azione politica di Craxi, la sua volontà riformatrice, la difesa dell’indipendenza del Paese davanti a pretese di Stati esteri (vedi Sigonella), l’opera di statista (revisione del Concordato, dopo oltre mezzo secolo dai Patti Lateranensi stipulati da Mussolini).
In questi giorni sono state ascoltate dichiarazioni da parte di personaggi che, in realtà, chiudendo un momento gli occhi si poteva immaginare che fossero idealmente, se non addirittura personalmente, in mezzo ai lanciatori di monetine contro Craxi quella sera del 30 aprile 1993 mentre usciva dal Raphael, l’albergo di Roma dove alloggiava. In questo coro di voci oggi “riabilitanti” e di fatto quasi “penitenti”, si sono notati per la verità anche dei silenzi eloquenti. Da parte di suoi avversari di sinistra che presumibilmente continuano ad avere di Craxi quei giudizi inveterati che ne hanno fatto una narrativa, ormai sempre più scricchiolante.
Poi sono arrivate le parole della massima istituzione della Repubblica che, su un piano storico-politico alto, ha ricordato il ruolo di Craxi nella politica italiana e la sua impronta riformatrice.
Intendiamoci, di questo revival, finalmente filo Craxiano, che in certe dichiarazioni assume qualche risonanza che sa di conformismo, di falso, un po’ ci meraviglia la suscita, ma solo perché ci sono voluti 25 anni perché cadessero tabù e pregiudizi. E certo non dispiace proprio a noi che su questo giornale, unico caso nella stampa italiana, massì diciamocelo, lo scorso anno abbiamo pubblicato quasi venti interviste (e non solo a socialisti) sui 40 anni del governo Craxi.
Quasi tutti, anche personaggi di rilievo fuori del suo partito, hanno messo in evidenza lo stile decisionista e coraggioso che portò a sfidare l’impopolarità nel referendum sulla scala mobile, in cui lui vinse e parte della Cgil e il Pci persero. Lo stile di governo che prevedeva un consiglio di Gabinetto, per snellire le procedure delle decisioni; o la sua battaglia per la Grande riforma, l’elezione diretta del presidente della Repubblica, sulla scia di Mitterrand, la battaglia per la de-legificazione, contro un Parlamento che fabbricava leggi su tutto, (famosi gli esempi della eviscerazione degli animali da cortile o dei molluschi eduli lamellibranchi (le cozze), invece di procedere con atti amministrativi.
Certo, non saremo ora noi a farne un santino: Craxi fece anche errori: a un certo punto smarrì il polso del Paese: quell’appello agli elettori a disertare le urne “andate al mare”, in occasione del referendum sulla preferenza unica, fu rivelatore; oppure il suo blindarsi nella logica di potere del Caf (Craxi, Andreotti Forlani). Certo, la sua politica non aveva condizioni facili di agibilità: stretto nella morsa tra Dc e Pci, geloso, quale discepolo di Nenni, dell’autonomia dei socialisti, sfidò il Pci, anche sul terreno ideologico, e si batté per riequilibrare i rapporti di forza, troppo soverchianti a favore del Pci.
L’occasione fu la guida del governo per quattro anni, si aspettava dai comunisti un appoggio o perlomeno un atteggiamento di sostanziale attenzione. Ne ebbe in cambio la definizione di “pericolo per la democrazia”, da Enrico Berlinguer. Un’altra occasione, offerta dalla storia, la caduta del Muro di Berlino, non si rivelò fruttuosa per i socialisti e per quanti erano stati critici o nemici del comunismo: i calcinacci del Muro invece di seppellire politicamente gli eredi di quella ideologia, per una beffa del destino “cinico e baro” (direbbe Saragat) si abbatterono sui partiti dell’altro schieramento, democristiano, socialista, liberale, repubblicano.
E chi, per dirla con un proverbio leccese, “aveva una parola di meno” si impancò a giudice, moralista, sfruttando una tempesta giudiziaria come Tangentopoli, e dimenticando semplicemente che la Storia aveva dato torto a loro e non ragione. Ma gli eredi del post comunismo la ragione se la presero lo stesso. E qui nacque la grande impostura su cui si è condotta la politica degli ultimi anni. Con gli italiani pronti a fabbricare nuovi idoli politici con la stessa facilità con cui poi li hanno distrutti o ridimensionati (Renzi, Cinque stelle, Grillo, Di Pietro). Questa volatilità farà fischiare l’orecchio alla presidente Meloni? Lei ora gode di ampi consensi anche nei sondaggi. Ma le caratteristiche antropologiche dell’elettore italiano quelle sono, e non bisogna dimenticarle.
Concludendo: questo ritorno d’interesse, di attenzione aperta e non affetta da pregiudizi verso Craxi con passaggi di film in tv, dibattiti televisivi, fiorire di libri e convegni, un risultato politico potrebbe darlo, e sarebbe un elemento così importante da trascendere la stessa persona di Craxi: e cioè la caduta di tabù, luoghi comuni e frizzi e lazzi anti-socialisti, potrebbero rendere possibile la riapertura di un discorso politico di fondo sul socialismo in Italia, sulla necessità – politica e storica- della presenza di un partito socialista, come nelle sue tradizioni, libertario, laico, pluralista, europeo, che si batte per la giustizia sociale e contro ogni discriminazione di qualsiasi tipo, un partito per la pace e il progresso della cultura.
Le idee non sono caciocavalli appesi
Belle idee, certo, ma le idee non sono – come direbbe Antonio Labriola- caciocavalli appesi, ma idee forza che debbono realizzarsi. I caciocavalli un tempo viaggiavano sulle groppe (a cavallo, appunto) di asini e muli. Le idee da realizzare camminano sulle gambe degli uomini. E qui veniamo a un altro problema: esauritasi per le leggi dell’età la vecchia classe dirigente, occorrono uomini nuovi. Non importa che provengano – per li rami – dalle file del vecchio partito, ma che sappiano raccogliere la bandiera del socialismo, troppo ingiustamente vilipesa e gettata nel fango, per mettersi alla testa di un movimento progressiste, se non lo si vuole chiamare propriamente socialista. Qualche amico ha fatto un nome: Pier Silvio Berlusconi. Non ha deciso se scendere ancora in politica. Ma forse, raccogliendo il meglio del pensiero del padre, e aggiungendo di suo il profilo dell’homo novus, chissà… Piersilvio, facci un pensierino.
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Da Mario Nanni, Parlamento sotterraneo, Rubbettino, 2020
Cinque anni prima che scoppiasse il revival Craxiano di oggi
Quelle telefonate ad Hammamet
“Dieci anni dopo, negli anni di Tangentopoli, e del rifugio ad Hammamet, in Tunisia, dove aveva fin dagli anni Sessanta una casa, i giornalisti parlamentari continuavano a cercarlo per chiedergli un commento sulla situazione politica, sul Psi che andava scomparendo, sui veleni di Tangentopoli, su D’Alema che cercava di annettersi quel che restava del Partito socialista, per dar corpo a una cosiddetta ‘Cosa 2’.”
La “Cosa 1” era il Pds che si sarebbe arricchito così di nuova linfa, assorbendo e cooptando esponenti socialisti, un volgo disperso, di manzoniana memoria. Per dare spessore e credibilità alla sua operazione politica, D’Alema si appoggiò a un esponente prestigioso del Psi.
Non poteva essere Martelli, il quale, dopo aver condiviso i trionfi del craxismo, poi diede il calcio dell’asino a Craxi con una intervista a “Panorama”, in cui sembrava che egli negli anni passati fosse stato, per dir così, solo di passaggio a Via del Corso (sede del Psi) e non l’alter ego, o il braccio destro politico di Craxi.
Questo tipo di personaggi Craxi li bollava come “extraterrestri”. Non poteva essere Rino Formica, troppo libero di giudizio e troppo legato ancora a Craxi, per poter condividere i progetti dalemiani. Stesso discorso per De Michelis, legato al leader socialista fin da quando, in una famosa assemblea del 15 gennaio 1980, aiutò Craxi, alleandosi con lui, a sventare la scalata al controllo del
partito da parte di Claudio Signorile, ex pupillo di Riccardo Lombardi, leader della “sinistra socialista”.
D’Alema puntò su Giuliano Amato, ex braccio destro di Craxi negli anni di Governo dei quattro anni. Fu mirabile il modo in cui Amato aveva sbrogliato la matassa della vicenda Achille Lauro, nel 1985, come la spiegò in Parlamento e in televisione, come gestì la reazione rabbiosa di Reagan sull’incidente di Sigonella, dove gli americani cercarono di bloccare l’aereo che aveva a bordo Abu Abbas, il dirottatore della nave “Achille Lauro” e il responsabile della morte del cittadino americano Klinghoffer, scaraventato in mare con la sua carrozzella.
Amato portava in dote il suo prestigio personale, la sua fama di dottor Sottile, il fatto di essere stato scelto da Scalfaro a presiedere quel governo che Craxi aveva sperato di guidare dopo le elezioni del 1992, prima che partissero gli avvisi di garanzia come fuochi d’artificio. Quando si diffuse la notizia che D’Alema avrebbe presentato alla stampa estera la cosiddetta “Cosa 2” insieme con Amato, mandai un fax a Craxi. Stiamo parlando di strumenti che oggi sembrano archeologici; eppure sono passati poco più di 25 anni! Nel fax chiedevo a che ora avrei potuto chiamarlo.
Mi rispose indicandomi l’ora e chiese di avere la notizia su cui doveva fare la dichiarazione. Un mio collaboratore poligrafico incaricato di inviare il fax, vedendo quella sequela di cifre, oltre una dozzina, domandò a chi fosse indirizzato. “A Craxi”, gli dissi. Nei giorni precedenti era uscito un articolo su un settimanale in cui si denunciava il fatto che giornalisti italiani intrattenessero ancora rapporti ‘’con un latitante’’ (tale era obiettivamente lo status di Craxi, inseguito da avvisi di garanzia ma anche da un ordine di custodia cautelare).
Impressionato da questo articolo, il collaboratore ebbe un’alzata d’ingegno patriottica. Andò un pomeriggio alla polizia. Mi sento chiamare al telefono: Qui distretto di polizia, il responsabile vuole parlare con il capo della redazione politico-parlamentare.
– Sono io, me lo passi -.
Qui si è presentato un tale F. che dice di essere un suo collaboratore. Mi ha fatto un discorso confuso su certi fax che mandate a Craxi, ma ho capito poco. Mi spiega di che si tratta? Spiegai al funzionario che noi continuavamo a fare i giornalisti, che Craxi per noi era fonte di notizie politiche, e che i contatti con lui erano dettati da esclusive motivazioni informative. Inutile aggiungere che quel collaboratore, di cui non avevo più alcuna fiducia, dalla mattina seguente vide la Camera solo in televisione.
Nel pomeriggio telefonata a Craxi. Quel giudizio senza appello su Amato
Come d’uso, lo chiamo presidente. Gli domando come sta. Era noto che aveva gravi problemi di salute. “Ma che presidente?!”, si schermisce, “non sono più neanche parlamentare”. Poi vengo al dunque. Gli domando un parere sull’iniziativa di D’Alema e sulla partecipazione di Amato.
Craxi mi rilascia una dichiarazione che poi sarebbe diventata “un testo”, citabile e citato in ogni occasione o discorso in cui si affronta il tema dei rapporti tra Craxi e il suo ex braccio destro. “Che vuoi che ti dica?! Le qualità intellettuali di Amato le conosciamo e non si discutono”. Poi aggiunse: “Amato è un professionista che lavora a contratto”.
Una definizione certamente amara, forse ingenerosa. Craxi, nell’angoscia della forzata lontananza dall’Italia, forse si era sentito tradito da Amato, forse lo considerava un ingrato; tradito dal suo braccio destro che aveva fatto una luminosa carriera politica stagliandosi con la sua figura di intellettuale di alto prestigio rispetto alla cerchia, pur notevole e numerosa, dei professori che gravitavano attorno ad Antonio Giolitti e a “Mondo Operaio”, la rivista intellettuale del Psi, fondata da Pietro Nenni, che gareggiava per valore e autorevolezza culturale con “Rinascita”, il settimanale del Pci.
Gratitudine o ingratitudine in politica: una vexata quaestio Ne scriveremo in altro capitolo. Ci basti qui sottolineare che la gratitudine non è una categoria politica. E tuttavia poniamo una domanda in forma di dilemma: Craxi sarebbe stato Craxi senza Amato? E Amato sarebbe diventato quel che poi è diventato se non avesse trovato Craxi sulla sua strada? Detto così, sembra un gioco di parole, e non vuole essere neanche un gioco di società. Se vogliamo allora dettagliare, possiamo riformulare la questione in questi termini: Amato avrebbe potuto mettere in luce operativa tutte le sue doti di negoziatore, Dottor Sottile, grande tessitore o sbrogliatore di matasse diplomatiche, giuridiche e politiche (l’esempio di Sigonella, non è certamente il solo caso) se Craxi non lo avesse scelto come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, cioè in un luogo nevralgico e decisivo per l’azione e la stessa vita dei governi?
Per converso, Craxi avrebbe ugualmente sviluppato la sua azione politica, nel campo sindacale, istituzionale, nei rapporti internazionali, se non avesse avuto in Giuliano Amato un lucido sostegno, un ispiratore, a volte un correttore, colui che riusciva a trovare il fondamento, la giustificazione giuridica, costituzionale di una scelta e di una iniziativa politica e di governo?
Da Hammamet all’Italia, “l’aiuola che ci fa tanto feroci”
Nell’estate del 2018, ero in vacanza in Tunisia. Poi andai ad Hammamet, per un breve soggiorno con i miei nipotini Alessandro e Giulia, che abitavano a Tunisi. Con loro, accompagnati dal padre, andai a visitare, per la prima volta, la tomba di Craxi, morto il 19 gennaio del 2000. Il cimitero, di fronte al mare, sembra piuttosto un giardino, non troppo vasto e nemmeno tanto curato. Ci sono tombe di molti anni fa, in gran parte di italiani. Il sepolcro di Craxi è semplice, sobrio e tuttavia non privo di una certa solennità: una lastra bianca, addossata quasi al muro di cinta, ombreggiata da un albero che la sovrasta. Sulla pietra bianca, il nome e cognome con le date di nascita e morte (1934-2000), un libro scolpito in rilievo e la scritta su due pagine: la mia libertà equivale alla mia vita. Sotto, la firma autografa. Quella frase sembra quasi il sigillo e il testamento di Craxi: per non essere privato della libertà preferì, poco socraticamente, non sottoporsi alla legge del suo Paese, giusta o ingiusta che fosse.
Ma egli si considerava vittima di un complotto per eliminarlo dalla scena politica nazionale e forse dalla vita stessa, e sentiva che dal carcere non sarebbe uscito vivo.”Mi farebbero fare la fine di Sindona”, aveva risposto a chi gli consigliava di rientrare in Italia, difendersi e sopportare anche il carcere, se necessario. Nell’estate del 2019 Rino Formica, in una intervista a Valter Veltroni per il “Corriere della Sera”, raccontò di aver cercato di dissuadere Craxi dal lasciare l’Italia, invitandolo a restare, a difendersi e a lottare per la sua innocenza; e aggiunse: “Egli non mi ascoltò, forse era convinto che se restava non ce l’avrebbe fatta”.
Questa la motivazione della scelta di Craxi, che taglia anche corto sul dilemma: esule o latitante?
Guardando alla semplicità della tomba, venne di pensare a tanti interventi parlamentari, che avevo seguito come cronista politico: alcuni anche drammatici come quello su Sigonella nel 1985, applaudito anche dall’opposizione comunista, o quello del 1993 sul finanziamento pubblico e la chiamata in correità di un’intera classe politica, invitata a parlare senza arroccarsi.
Pensai a tanti congressi socialisti, da Torino, a Rimini, a Palermo, a Verona, a certe barocche sovrastrutture sceniche di quelle assise, opera dell’architetto Filippo Panseca, come il tempio greco, che facevano assomigliare il palco congressuale a certe quinte teatrali di cartapesta. Una scelta che attirò su Craxi, che pensava di innovare anche certe liturgie congressuali, ironie, invidie, sarcasmi, accuse di grandeur, di megalomania e di spreco. Pensai alla canzone che durante certi congressi socialisti veniva fatta ascoltare negli intervalli o prima dell‘inizio dei lavori: “Viva l’Italia”, di Francesco De Gregori. Che poi trovò il modo di far sapere che non gradiva quest’uso della sua composizione nelle cerimonie socialiste. E dedicò a Craxi una canzone feroce: È solo il capobanda ma sembra un faraone… Si atteggia a Mitterrand ma è peggio di Nerone”.
Anni dopo, il cantautore dichiarò: “Se ripenso a Craxi, credo che intellettualmente fosse molto superiore a tanti politici di oggi”. Nel silenzio del piccolo cimitero mi vennero in mente, “accampate come di gitto” su uno schermo, direbbe il poeta, quelle e altre scene della vita di Craxi. Sotto quelle poche zolle di terra riposavano le spoglie di un personaggio che per un quindicennio aveva smosso le acque stagnanti della politica italiana, portando scompiglio e promesse, suscitando speranze di modernità e di innovazione, entusiasmi e avversioni tenaci. E scatenando rabbiose reazioni a sinistra da parte dei comunisti, che cavalcavano la diversità berlingueriana rispetto allo spregiudicato movimentismo socialista.
Si era battuto come un leone per sfuggire alla tenaglia Dc-Pci, si era speso con tutte le sue forze, e anche con qualche azzardo ideologico, per riequilibrare i rapporti di forza tra un Psi uscito semidistrutto dalle elezioni del 1976 e un Pci che si era gonfiato fino a sfiorare il sorpasso sulla Dc. Primum vivere, era stato il motto di Craxi, e voleva dire anzitutto crearsi uno spazio vitale tra Dc e Pci.
Lo si vide durante il rapimento di Moro, quando Craxi perseguì la cosiddetta via umanitaria per cercare di salvare la vita del presidente
della Dc, che pure non era il politico più vicino ai socialisti o che i socialisti sentissero più prossimo (preferendogli di volta in volta Forlani, Rumor e Andreotti). Forse anche era un debito sentimentale, se questa parola ha senso in politica.
Forse era un oggettivo debito storico, dato che era stato Moro a disegnare, nel solco di Giovanni Giolitti, e superando fortissime resistenze di settori del suo partito, una nuova politica di allargamento delle basi democratiche dello Stato, tramite un’alleanza con i socialisti per il centrosinistra negli Anni Sessanta. Craxi dialogava ed era amico personale di Mitterrand, di cui si proponeva di essere il modello italiano.
Era amico di Willy Brandt, Helmuth Schmidt, Yasser Arafat, dei capi dei movimenti di liberazione di parecchi angoli del mondo. Molti comunisti, come il personaggio evangelico Nicodemo, in segreto lo ammiravano, lo invidiavano, ma in pubblico lo attaccavano e lo detestavano. Anche mentre un socialista era finalmente alla guida del governo, per la prima volta nella storia italiana.
Berlinguer arrivò a dipingerlo come un pericolo per la democrazia.
Berlinguer e Craxi non erano fatti per intendersi
Ciò non impedì che, quando ormai Berlinguer non c’era più, i giovani rampanti alla guida del Pci-Pds si rivolgessero a Craxi perché li aiutasse a entrare nella Internazionale socialista. E Craxi li aiutò. Oggi Claudio Signorile afferma: facemmo un errore ad aiutarli, era troppo presto. Erano i tempi in cui – anche se per poco – si ipotizzò un unico partito socialista. Ma allievo e discepolo di Nenni, rimasto scottato dal suo errore fatale della scelta frontista del 1948 (in quelle elezioni il Psi perse in Parlamento il rango di primo partito della sinistra a vantaggio del Pci e mai più riuscì a ribaltare i rapporti), Craxi aveva imparato a diffidare dei comunisti, perlomeno a non farsi soverchie illusioni.
Perciò aveva lanciato anche lui le sue provocazioni, perfino sul terreno ideologico.
Come quando, protagonista Luciano Pellicani che ebbe un momento di gloria come “ideologo del Psi”, ritagliò una ipotetica “via di Proudhon”, disegnando un tipo di socialismo umanitario aggiornato. Un tentativo teorico che non ebbe molta fortuna né sviluppi apprezzabili
I fischi a Berlinguer a Verona
Non fu, questa trovata della via di Proudhon, l’unico terreno di scontro. I fischi a Berlinguer al congresso del Psi a Verona Al congresso di Verona, del 1984, Berlinguer fu sonoramente e clamorosamente fischiato. Uno choc per i militanti comunisti, come per i cattolici vedere fischiare il Papa. Erano i tempi dello scontro, già citato, sulla scala mobile. Nel discorso congressuale di replica, Craxi ebbe una occasione per stemperare il clima.
Non la colse.
Anzi disse: Se non mi sono associato ai fischi a Berlinguer, è stato solo perché non so fischiare. Aveva fegato Craxi, ma sapeva anche che non gliel’avrebbero perdonata. Non gliela perdonarono infatti. E così negli anni successivi le critiche, gli attacchi a Craxi, anche quando erano di tipo politico, avevano un retrogusto di astio e talora di disprezzo per la persona, oltre che per il segretario del
Partito socialista.
Tornando al piccolo cimitero cristiano in terra tunisina
Uscendo dal piccolo camposanto, andavo componendo mentalmente un pezzo memoriale da scrivere su Craxi. Avevo anche trovato il titolo: Dal piccolo cimitero di Hammamet si allungano le ombre di Craxi su un’Italia smarrita. Avevo in mente anche la chiave del pezzo da scrivere: vista da questo angolino di Tunisia, l’Italia ci appare, dantescamente, “l’aiuola che ci fa tanto feroci” (Paradiso, XXII, 151).
Seguiva la considerazione, sviluppata per gradi, che gli storici avrebbero saputo un giorno trovare “ciò che è vivo e ciò che è morto” della figura e della politica craxiana: le sue intuizioni politiche, la sua ansia di rinnovamento, le doti di statista messe in atto in varie occasioni (Sigonella, aggiornamento del Concordato con la Chiesa Cattolica e altre confessioni religiose).
E anche i suoi errori, il peso dato alla scalata al potere, l’aver a un certo punto smarrito la lucida percezione di dove stava andando l’Italia”.
Mario Nanni
(collaborazione di Sebastiano Filoni)