Come incidere realmente nel rapporto tra cittadini, partiti e istituzioni

Occorre attuare fino in fondo l’art 49 della Costituzione sulla democraticità interna dei partiti. Quattro proposte per rimettere in movimento la funzionalità democratica del sistema

Il senso della Prima Repubblica, di cui più di qualcuno in questa fase – come recentemente da queste colonne, in una bella intervista l’ex premier Massimo D’Alema ha evidenziato gli aspetti positivi – è, in qualche modo, incastonato in uno splendido libro da Pietro Scoppola: La Repubblica dei Partiti.

I partiti, che ovviamente presentavano vizi oltre che virtù, erano uno strumento fondamentale per la rappresentanza politica, e svolgevano una funzione ben più larga di quella che ad essi riserva con poche ma incisive parole l’unica norma ad essi riferita dalla Costituzione, l’articolo 49, di “concorrere a determinare la politica nazionale”. In quella sobria, plastica ed efficace norma (come avviene in larghissima parte per la nostra carta costituzionale, che presenta un linguaggio ben più elegante, sobrio e significativo di quello della legislazione successiva, in particolare di quella degli ultimi anni) si stabilisce, però, che i partiti lo devono fare “con metodo democratico”. 

Con ciò ci si riferisce soprattutto alla vita interna dei partiti. Quegli stessi per i quali si è ampiamente perso, oggi, il metodo democratico interno. Non solo, ma è come se i partiti, sprofondando a mano a mano nella vasca di una cosiddetta seconda Repubblica, in cui la plastica e significativa norma costituzionale sembra essersi dispersa, si siano ristretti molto di più di una coperta di lana caduta in acque un po’ limacciose.

I partiti erano stati una fondamentale “agenzia” di formazione e di educazione politica per i cittadini. O di “educazione delle masse”, come si usava dire soprattutto a sinistra, e una sorta di ascensori distribuiti sul territorio per il funzionamento della vita democratica.

Certo, presentavano questi aspetti fondamentali e positivi, per certi versi analoghi a quelli che avvenivano e in parte a ciò che avviene oggi in altre grandi democrazie europee. Ma presentavano anche qualche vizio. Fu Giuseppe Maranini, grande professore del Cesare Alfieri di Firenze, a definire per primo negli anni ‘60 il concetto di Partitocrazia. E abbiamo avuto non poca partitocrazia invadente, nelle amministrazioni, negli enti pubblici ecc. Una partitocrazia che funzionava soprattutto grazie al congegno, definito con una parola plastica per primo da Alberto Ronchey: quello della lottizzazione.

Alberto Ronchey

Il problema è, però, che oggi abbiamo una sorta di “partitocrazia senza partiti”, perché si continuano ad occupare postazioni nell’amministrazione e negli enti pubblici (al centro come in periferia), per l’appunto, col congegno mai venuto meno della lottizzazione. Purtroppo la parola più fortunata tra le varie inventate da un grande giornalista e direttore quale fu Alberto Ronchey.

Non solo Rai docet, ma buona parte del sistema pubblico docet. Il fatto è che i partiti sono un po’ liquidi, gassosi, il numero degli iscritti si è ridotto fino a dieci volte rispetto a quanto avveniva nella Prima Repubblica. Ma soprattutto abbiamo la capocrazia, un concetto che avevo colto e utilizzato già prima che uscisse il bel libro, con questo titolo, di Michele Ainis. È tutto un fiorire di cape, di capi e di capetti, e soprattutto è un fiorire di cerchi magici, che ogni capo, capa o capetto ha intorno.

Questo insieme di fenomeni ha inciso non poco nella vita democratica e nello stesso rapporto fra politica e media. Ad esempio, oggi, sembra che la priorità riformatrice in campo politico-istituzionale debba essere il combinato disposto tra elezione diretta del premier e autonomia differenziata. Mentre, invece, se si leggono i veri vizi del nostro sistema politico-istituzionale probabilmente le priorità dovrebbero essere altre. 

Ben pochi considerano che, in questo Paese, quei delicati congegni che regolano l’ascensore della democrazia si sono in qualche modo inceppati. 

Da intelligente conoscitrice del polso dell’opinione pubblica, Giorgia Meloni non a caso all’evento sul premierato alla Camera dei Deputati, ha spezzato una lancia a favore dell’introduzione delle preferenze anche per le elezioni al Parlamento. Il fatto che i parlamentari, in larga parte, non abbiano alcun vero radicamento tra i cittadini, in quanto sostanzialmente nominati, è un fenomeno che come minimo ha generato disincanto e distacco tra gli elettori. I quali, però, non si sono fatti abbacinare dal poter dare una preferenza, invece, nel caso delle elezioni europee.

Giorgia Meloni

Ma a generare questo distacco, disincanto, demotivazione c’è anche il fatto che buona parte dei partiti, ormai, per un verso come già evidenziato sono liquidi o gassosi, per altro verso sono, appunto, organizzazioni ben poco democratiche. Mi sembra, infatti, che nell’Italia dei troppi capi e cape a tutti i livelli territoriali, la vita democratica interna di molti partiti latiti. E quindi quello stesso cittadino, che non si sente rappresentato in Parlamento, ben pochi spazi, corridoi e spiragli trova se prova ad avvicinarsi ad un partito.

In un quadro di partiti senza territorio e parlamentari “senza veri elettori”, chiaramente, trovano più spazio le lobbies. Basta leggere le inchieste propinateci dai giornali nelle ultime settimane, a Bari come a Genova.

Se poi con fine intelligenza, per un verso il ridicolo tam-tam dell’anti politica dei Cinque Stelle dell’uno vale uno in salsa grillina, per altro verso i governi a guida PD negli anni scorsi hanno contribuito ad abolire il finanziamento pubblico dei partiti, è chiaro che alle lobbies si apre più spazio.

Basta dare un’occhiata a quanto le cronache dicono da Genova, e non solo. Però certe inchieste propinate in salsa mediatica, un po’ troppi atti inquisitori soffiati a giornalisti di comodo, possono depistare dalla realtà dei fatti, mentre il garantismo non deve venire mai meno. Certo, se uno legge, però, le cronache su Genova, come minimo dice “Ucci ucci, sento odor di lobbyucci”, ed è chiaro che le lobbies impazzano meglio se siamo l’unico tra i grandi paesi occidentali che non prevede una disciplina del lobbying. Una normativa da tempo in fieri, che però poi, da vario tempo, regolarmente verso fine legislatura, sfuma come certi fiori primaverili.

In queste condizioni è ovvio che, in qualche modo, l’ascensore della democrazia si sia inceppato come e forse più dell’ascensore sociale per le ragazze e i ragazzi del Mezzogiorno. Senza dilungarsi ulteriormente su possibili ulteriori analisi e diagnosi, è il caso di cercare di individuare una terapia.

La terapia, a questo punto, non sembrerebbe poi così difficile. Occorre, possibilmente presto, avviare una sorta di quadrilatero risanatore fatto di lati non difficili da individuare.

  • Restituzione dello scettro al principe-cittadino tramite la preferenza (o qualche altro sistema) nelle elezioni politiche.
  • Reintroduzione di una qualche forma di finanziamento controllato ai partiti.
  • “Statuto pubblico dei partiti” (o qualcosa di simile, come proposto già nelle scorse legislature, ad esempio da parlamentari come Pino Pisicchio o Luigi Compagna), che fissi anche precise regole per la democrazia interna.
  • Il quarto lato dovrebbe essere, appunto, quello di una regolamentazione attenta delle lobbies (un tentativo è in corso per l’ennesima volta presso la Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati).

Senza questo quadrilatero virtuoso, credo per vari aspetti prioritario alla tenaglia elezione diretta del premier-autonomia differenziata è chiaro che la nostra democrazia rimane, in qualche modo, inceppata.

 

Luigi TivelliGià Consigliere parlamentare e capo di Gabinetto, saggista. Presidente dell’Academy di politica e cultura Giovanni Spadolini

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