Carlo Bartoli: lo spazio di libertà della professione si è ristretto Il giornalismo d’inchiesta è il vero panda che rischia l’estinzione

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Intervista al presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti

A parte l’equivoco della dichiarazione iniziale “non sarò il presidente di tutti” riferita dai giornalisti senza il contesto o incompleta: che tipo di presidente sarà?

In genere la fatidica frase – Sarò il presidente di tutti – la pronuncia chi ha intenzione di fare esattamente il contrario. L’ho detto chiaro e lo ripeto: non è tempo per falsi convenevoli o stucchevoli cerimonie. C’è da lavorare e tanto. E sono pronto e determinato a farlo insieme a tutti coloro che ne avranno voglia e intenzione.

Oltre ad alcune questioni diciamo così corporative, di categoria, di cui parleremo dopo, uno dei temi sempre aperti è lo spazio di libertà della professione giornalistica rispetto al potere, di qualsiasi tipo, politico ed economico: questo spazio si è allargato o si è ristretto?

Si è certamente ristretto. Da una parte ha inciso la crisi di modello economico tipica del sistema editoriale tradizionale; dall’altra l’aggressiva consapevolezza dei centri di potere di riuscire a condizionare i tempi, i modi e le forme dell’informazione, anche attraverso l’uso chirurgico dei social media.

Come si capovolge questa tendenza?

Per capovolgere questa tendenza occorre che l’opinione pubblica comprenda che la buona informazione va pagata e che si trovino le forme per finanziare il giornalismo d’inchiesta, che è il vero Panda che rischia l’estinzione.

Tra i politici e tra i cittadini c’è chi dice che l’ordine dei giornalisti va abolito. Lei cosa risponde?

Che l’apatia intellettuale e la scarsa consapevolezza dei problemi stimolano la produzione di risposte semplicistiche. Parliamo piuttosto delle ragioni che rendono poco efficace l’azione dell’Ordine. Siamo pronti al confronto.

Oggi si invoca una informazione di qualità. Senza voler esprimere giudizi sommari, la domanda è: ma sono veramente preparati i giornalisti oggi?

Fino a 20/30 anni fa, la gavetta nei giornali in genere non era solo un sistema per sfruttare forza lavoro a basso costo, ma anche un percorso teso a formare i futuri giornalisti. L’allargamento a dismisura delle competenze e delle incombenze, tipiche di altre figure professionali, a cui sono stati sottoposti i giornalisti e l’intensificazione indiscriminata dei carichi di lavoro e dei ritmi ha praticamente messo fuori gioco queste scuole empiriche di giornalismo. La legge del 1963, inoltre, non prevede un adeguato standard di istruzione per accedere alla professione e quindi è logico che, in termini generali, possa esserci una minor preparazione.

La professione oggi si esercita, in molti casi, con compensi che ledono la dignità del giornalista; dequalificazione, sfruttamento, scarsa remunerazione, articoli pagati pochi euro. Come risolvere questa deriva?

Il Parlamento e il governo non possono voltare la testa dall’altra parte. Per affrontare il tema occorre una legislazione stringente, ma anche una politica di sostegno all’innovazione in campo editoriale. Se l’informazione non genera ricchezza è un problema per tutti. Questo in generale. Per chi sfrutta senza ritegno e vergogna occorrono sanzioni certe e pesanti.

L’accesso alla professione. Chi chiama la categoria dei giornalisti una casta, critica la difficoltà degli accessi a questa professione. Ci sono le scuole, è vero, ma poi chi esce da queste scuole non trova lavoro. Come avvengono le assunzioni? Per segnalazioni, per cooptazione. Solo la Rai fa ogni tanto qualche concorso. Perché, di concerto con il sindacato, non fate una battaglia comune per aumentare le possibilità di accesso alle testate giornalistiche?

Il punto è quello di prima. Condizione preliminare è quella di ripristinare condizioni economiche e finanziarie che consentano al sistema editoriale di stare in equilibrio e di innovare. Si tratta di cambiare rotta sul fronte dell’erogazione delle risorse al sistema, per ora destinate esclusivamente a “rottamare” i giornalisti, e affrontando in maniera seria e risoluta, come si sta facendo in altri Paesi, il problema della tutela del copyright e del contrasto alle posizioni dominanti dei grandi player planetari. Chiediamoci cosa sarebbe oggi la Rai senza il canone.

I social: quali benefici e quali danni hanno portato o portano alla professione?

Siamo immersi in una dimensione dalla quale il giornalista non può fuggire, ma dalla quale non deve farsi schiacciare. I social possono essere uno strumento prezioso per i giornalisti, ma a patto di non essere utilizzati come discariche di link. Reperimento delle notizie e di testimonianze, verifica dei fatti, discussione con la community dei propri utenti: questo e altro possono essere i social. Non l’ambiente in cui inseguire l’ultima esternazione del politico di turno.

Una domanda sulle cose di casa, che però si collega con la preparazione professionale e culturale dei giornalisti: non crede che sia giunta l’ora di sbaraccare l’attuale esame di abilitazione professionale, che è rimasto lo stesso di 50 anni fa?

La necessità di un esame di Stato è legata all’assenza di un percorso accademico legato alla preparazione alla professione. L’attuale modalità di svolgimento delle prove di esame mostrano le rughe del tempo. Non si può andare avanti a colpetti di lifting, ma occorre anche fare i conti con una legge che rende difficile un’autentica innovazione.

Non le sembra che il confine tra giornalismo e pubblicità sia diventato
sempre più sottile, anche su testate un tempo prestigiose?

Personalmente penso che sia sempre stato sottile. Oggi, in qualche caso, diventa sfacciatamente sottile.

 

* Direttore editoriale

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