Una terra d’incontro, il Kurdistan

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In tempi di migrazioni e di rifugiati che rappresentano il problema più grave del presente decennio e forse del futuro, non posso non pensare che la nobiltà d’animo di un popolo si coglie in modo inequivocabile dal senso di ospitalità e di aiuto che esso offre in condizioni di altrui necessità.

Le migrazioni rappresentano un fenomeno antichissimo; anzi è esistito da sempre. Le cause sono numerose, ma quelle più drammatiche sono originate dalle guerre, dagli odi politici, tribali, dalle persecuzioni, dalle catastrofi naturali e dalla fame.  Ne fui testimone negli anni scorsi allorché mi recai nel Kurdistan iracheno, quando l’Isis imperversava nella Piana di Ninive. Nell’agosto 2014, e poi nel marzo 2015, mi ero recato a portare vicinanza e una parola di sostegno alle decine di migliaia di profughi fuggiti dai propri villaggi e dalle proprie case, nell’indigenza più assoluta, per sottrarsi alle atroci violenze dei membri del cosiddetto Stato Islamico.

Al tempo stesso, avevo potuto vedere il senso di ospitalità del popolo kurdo, che da Arbil, a Sulaymania, da Dehoc a Zakho, aveva dato accoglienza a cristiani, yazidi, musulmani e ad altre piccole minoranze sradicate dalla propria terra.  La leadership del Kurdistan iracheno era stata sensibile al grido di dolore che si levava dalle tante vittime.

Il Kurdistan iracheno è un territorio di antiche culture; le sue pianure, colline, fiumi e montagne sono state da sempre oggetto di mire espansionistiche di persiani, macedoni, romani, arabi, mongoli e ottomani per via della fertilità delle sue terre, comprese tra il Fesh Khabur (al confine settentrionale tra Iraq, Siria e Turchia,) l’Eufrate a ovest, il Tigri che taglia al centro il territorio, il Grande Zab, che lo percorre più a oriente.  Per la sua bellezza Saddam Hussein si era fatto costruire alcune lussuose dimore.

In questa grande area sono vissute consistenti comunità ebraiche, assire e partiche; poi i cristiani della Chiesa assiro-caldea, ma anche siriaci e armeni; la tradizione volle che il Vangelo fosse stato portato dall’Apostolo Tommaso e dai suoi discepoli, Addai, Aggai e Mari; i monaci sparsero poi per secoli il cristianesimo nell’Asia Centrale, nel Golfo Persico, in India e persino in Cina, prima di essere quasi spento dall’Islam.

Marco Polo visitò Mosul nel corso del suo itinerario verso la Cina; il nobile romano Pietro Della Valle (1586-1652) visitò il Kurdistan nel 1616 scendendo, in quella torrida estate, fino nella più profonda Mesopotamia, Bagdad.

Per alcuni secoli (XVII, XVIII e XIX) il territorio era stato oggetto di attenzione missionaria di vari ordini religiosi latini (cappuccini, carmelitani, gesuiti); i domenicani italiani della Provincia toscana vi lavorarono per un secolo (1748-1857), marcando significativamente la vita religiosa.  A Zakho, il viaggiatore può ancora oggi visitare la tomba del domenicano Leopoldo Soldini, veneziano, dove una lapide testimonia la memoria e l’affetto che seppe suscitare la sua opera umanitaria (era medico) e pastorale (+1779).

Ancora oggi una diceria racconta che la notte suole passare per consolare gli afflitti, come soleva fare una volta.  Egli fu contemporaneo del confratello Maurizio Garzoni (1734-1804), torinese, Prefetto della locale Missione domenicana; a lui si deve la prima grammatica, con dizionario (di 4.600 parole) italo-kurdo, stampati nel 1787 dalla Congregazione di Propaganda Fide (Grammatica e vocabolario della lingua kurda composti dal P. Maurizio Garzoni de’ Predicatori ex-missionario apostolico, Roma MDCCLXXXVII).

Si tratta di un’opera fondamentale, perché contribuì a far conoscere l’originalità della lingua kurda su base scientifica.  A lui si deve anche una Nota sugli Yazidi, con la quale informava sulla presenza di questa minoranza e le caratteristiche di questo popolo.  Toccò invece ad un altro domenicano italiano, il padre Giuseppe Campanile (1766-1835), scrivere la prima Storia della Regione del Kurdistan e delle sette religiose ivi esistenti, pubblicata a Napoli nel 1818; un’opera che permise di conoscere gli aspetti più significativi della presenza e della convivenza di quel mosaico umano e religioso che da sempre aveva caratterizzato quella terra.

Papa Benedetto XIV, Prospero Lambertini, (1740-1758), che verso i cristiani del Vicino Oriente mostrava uno spirito aperto, aveva accolto l’invito di un prete caldeo per l’invio di padri domenicani nella sua terra; così nel 1748 arrivarono i frati Francesco Turriani e Domenico Codeleoncini, che nel 1750 aprirono la missione di Mosul e del Kurdistan.  Ad essi, poi, si unirono i padri Leandro di Santa Cecilia, Giuseppe Campanile e Domenico Lanza, il quale ci diede un importate resoconto storico dei suoi viaggi (dal 1753 al 1771).  Nel 1859 la Missione domenicana passò ai padri di Lione per oltre un secolo, lasciando come eredità uno straordinario lavoro religioso, sociale, culturale ed educativo.

La storia del Kurdistan, che è sempre stata una terra d’incontro, è fatta di fili che s’intrecciano; alcuni sono ben evidenti, altri meno, ma tutti sottostanno ad un disegno che gradualmente si evidenzia e che celebra momenti alti, a volte drammatici o semplici della vita dei suoi popoli.  Mi viene da pensare quasi plasticamente ai suoi classici kilim; un manufatto bello esteticamente, un intreccio di fili e di colori, come la vita, le sofferenze, le religioni e le culture di questa terra che oggi cerca la sua strada di convivenza nel travagliato Vicino Oriente.

 

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