Carcere e suicidi: una soluzione va trovata!

Un’analisi del fenomeno fatta da un alto magistrato, anche sulla base della sua esperienza di giudice

Quando, lo scorso 24 maggio, è andato in scena, a Taviano (Lecce), lo spettacolo “Storie sbagliate” – una dolente riflessione sul sistema punitivo e carcerario in Italia, rappresentata dalla Compagnia TEMENOS-Recinti teatrali – una slide indicava agli spettatori il numero di suicidi in carcere dall’inizio dell’anno: 34.

Oggi, a distanza di un mese e mezzo, quel numero è lievitato a 55, ma per altri 15 detenuti, morti anch’essi in carcere, non si esclude l’ipotesi suicidiaria. A questi vanno aggiunti i non pochi agenti di Polizia penitenziaria che si tolgono la vita, l’ultimo appena qualche giorno fa: aveva 36 anni.

Tutto ciò ha fatto dire a Dacia Maraini (Corriere della Sera del 10 luglio), certo provocatoriamente, che in Italia esiste la pena di morte. Senza processo e senza condanne, e senza che, ovviamente, sia prevista dal codice penale. Perché – scrive Maraini – “quando un fenomeno si ripete così spesso, non possiamo più parlare di un caso di depressione, di un momento di follia, di un innamorato deluso, di un drogato in overdose”; quando, in così breve lasso di tempo, si contano così tanti suicidi (ricordando che l’anno scorso erano stati 80, sempre tanti comunque), si è obbligati a parlare “di un sistema che non funziona e va corretto, al più presto, perché non si può giocare con la vita delle persone”.

Roberto Tanisi

Paradossale, poi, che ciò accada nel Paese di Beccaria, che già nel settecento ebbe a sostenere che la pena non può consistere in una sorta di vendetta sociale. Peraltro, anche il filosofo del diritto Giorgio Del Vecchio, nei primi anni del secolo scorso, acutamente scriveva: “Chiunque consideri senza preconcetti, nella tragica realtà, la serie delle aberrazioni succedutesi… durante i secoli, deve confessare che la storia delle pene, in molte sue pagine, non è meno disonorevole per l’umanità di quella dei delitti”.

Per circa 43 anni ho svolto la professione di magistrato, prevalentemente nel settore penale. Sono stato Presidente della Corte d’Assise e della Corte d’Appello, se dovessi indicare il numero delle persone condannate, non saprei farlo. Ma sempre, in tutti questi anni, mi sono posto il problema della pena, della sua adeguatezza, della sua esecuzione, della sua funzione rieducativa e socialmente recuperatoria, secondo quanto previsto dalla Costituzione. Concludendo, amaramente, che questa funzione – la più importante forse – risulta largamente disattesa. Anche perché proprio questa funzione – la funzione rieducativa – è quella che, probabilmente, l’opinione pubblica ritiene la più utopistica: non è un caso se, coerentemente con il populismo penale che imperversa da anni, quella di “buttare la chiave” e disinteressarsi di chi vi è rinchiuso dentro sia una delle espressioni più diffuse.

Ma chi la pronuncia – c’è da giurarci – non è mai entrato in un carcere. Non ha visto gli spazi ristretti in cui i detenuti sono costretti a vivere, talvolta in celle con finestre prive di vetri, da cui entra un forte gelo d’inverno ed un caldo soffocante d’estate. Purtroppo, in molte realtà, il carcere è una vera e propria discarica sociale, in cui vivono soprattutto quelli che un grande avvocato definì “gli avanzi della giustizia”: delinquenti di strada, stranieri, autori di furti e piccole rapine, spacciatori e tossicodipendenti, prostitute, condannati in via definitiva per cumulo di pena che, durante la fase delle indagini, in carcere, forse, non sono neppure entrati. Difficilmente vi si incontrano condannati definitivi per fatti di bancarotta, corruzione, gravi violazioni finanziarie. La rapina, anche di pochi euro, è, di fatto, considerata più grave delle “rapine eleganti” commesse dai signori della Finanza.

Ovviamente, non intendo affermare che chi delinque debba essere giustificato e restare impunito: non bisogna mai dimenticare le vittime del reato e resta un punto fermo che la pena debba trovare esecuzione. Ma, un punto altrettanto fermo è anche il disposto di cui all’art. 27 della Costituzione, che impone la funzione rieducativa della pena. Anche perché – come è stato scritto in una recente pubblicazione – “la società più sicura non è quella che rinchiude più persone, ma quella che le fa uscire migliori di come sono entrate”. E dalle nostre carceri ciò non accade, o accade molto raramente.

Non è certo un caso se l’Italia ha subito diverse condanne dalla Corte EDU di Strasburgo (ricordo, fra le altre, la Sentenza Torregiani), a causa del sovraffollamento carcerario. E non è da escludere che ciò abbia a ripetersi. Luigi Manconi – e, prima ancora, il giudice Dino Petralia – ha proposto come soluzione drastica e immediata, quella dell’amnistia e indulto. Da molti anni non se ne adotta una (l’ultimo indulto, senza amnistia, è del 2006), anche per i numeri che necessitano in Parlamento, ma allo stato delle cose sembra essere la sola misura che possa scongiurare una nuova condanna in sede europea e restituire dignità a chi è detenuto.

Nei giorni scorsi è stato varato il D.L. n. 92/24, contenente “misure urgenti in materia penitenziaria”. Si tratta dell’ennesimo “pannicello caldo” che – scrive un magistrato di sorveglianza di Lecce (Il dubbio del 10 luglio) – difficilmente avrà un effetto deflattivo (almeno nell’immediato) e, dunque, le carceri resteranno sovraffollate come adesso (oltre diecimila detenuti in più rispetto al massimo consentito).

Non solo, ma appena qualche giorno fa, in Commissione giustizia è stata approvata una norma che prevede il carcere anche per le donne incinte o madri di bambini piccoli, contraddicendo addirittura il codice Rocco che, già nel 1930, per casi del genere prevedeva il differimento della pena. L’approvazione di tale norma ha fatto gongolare il leader della Lega: “Le donne incinte o con figli minori di un anno che si macchiano di reati che lo prevedono andranno in carcere. Una misura voluta dalla Lega contro quelle vigliacche borseggiatrici e ladre…”, quasi che le madri e donne incinte detenute siano tutte – e solo – borseggiatrici e ladre. Sfugge al nostro Legislatore che nella maggior parte degli Stati la detenzione di queste donne avviene in istituti appositi o in case protette, come, del resto, a determinate condizioni, prevede anche l’art. 47-ter del nostro Ordinamento penitenziario.

Con la nuova disposizione, quello che nel codice Rocco era un obbligo diventa una facoltà, rimessa alla valutazione del giudice. Un modo come un altro per scaricare sulla magistratura responsabilità che la politica non vuole assumersi. Perché è facile ipotizzare che se il giudice deciderà per la detenzione inframuraria, sarà accusato di poca o nulla umanità per avere disposto che una donna ed un bambino piccolo siano reclusi in un ambiente scomodo e sovraffollato, mentre se – come è probabile – deciderà per la non detenzione, verrà accusato di lassismo alla prima borseggiatrice incinta o con bimbo che sarà colta in flagranza di reato.

Una tendenza, quella della nostra legislazione degli ultimi anni (il new deal della giustizia penale, come l’ha definito qualcuno), che si accanisce contro la criminalità comune e di strada (dai rave party alle forme di resistenza passiva, per finire agli aumenti di pena generalizzati per queste tipologie di reati), ma è incredibilmente benevola con i “colletti bianchi”: con la scusa della “paura della firma” (chi scrive, da Capo dell’Ufficio, di firme ne ha apposte a migliaia nel corso degli ultimi cinque anni, con grosse assunzioni di responsabilità) è stato abolito l’abuso d’ufficio – una vera amnistia mascherata, ma limitata a questa sola tipologia di reato – e ridefinito in modo più restrittivo il traffico di influenze, sicché indagare e perseguire i reati contro la pubblica amministrazione (anche corruzione e concussione, dei quali spesso l’abuso d’ufficio è una “reato-spia”) sarà oggi molto più difficile. Per una giustizia sempre più classista, che ci allontana dall’Europa e dalle altre democrazie occidentali.

 

 

Roberto Tanisi Magistrato. Già presidente del Tribunale di Lecce e della Corte d’Appello

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