Cultura

I fatti della Sapienza. I nemici di Voltaire

Il 25 ottobre scorso, il giorno in cui la Camera dei deputati ha conferito la fiducia al governo Meloni, un nutrito gruppo di studenti universitari di estrema sinistra ha avuto una bella pensata. Non potendone più del trantan quotidiano e del dolce far niente, si è dato appuntamento alla romana Sapienza al lodevole scopo di impedire agli studenti di Azione universitaria di tenere un dibattito debitamente autorizzato nella Facoltà di Scienze politiche. Gli ultrasinistri hanno però avuto il torto di non dare uno sguardo all’oroscopo. Pensavano di agire impunemente e invece si sono trovati di fronte forze dell’ordine per nulla intenzionate a permettere un oltraggio al diritto di riunione e alla libertà di manifestazione del pensiero garantiti per tutti da quella Costituzione che a manca viene considerata la più bella del mondo. Spesso e volentieri senza prendersi il disturbo di darle un’occhiata. Abituati ad averle tutte vinte tra le mura domestiche, questi sfaccendati figli di papà (ricordate Pier Paolo Pasolini?) pensavano di fare lo stesso fuori dal loro giardino. E così hanno tentato di superare il blocco della polizia ricevendo in qualche caso qualche pedagogica manganellata. Ma non prima, si badi bene, di mandare all’ospedale qualche tutore dell’ordine. A questo punto, pensando di salvare la faccia, hanno compiuto una mezza ritirata dialettica. Loro, poverini, non intendevano impedire a chicchessia i diritti previsti dalla Legge fondamentale della Repubblica. Ci mancherebbe. Si sarebbero accontentati di appendere all’esterno della Facoltà uno striscione di protesta per il fatto che nel nostro Belpaese c’è qualcuno che non la pensa esattamente come loro. È chiaro che questa pezza è peggiore del buco. Perché il ridicolo uccide.  La verità è che queste testoline vuote non possono concepire il dissenso. Sognano l’universo concentrazionario. Ma hanno fatto male i loro conti. Questi tardi epigoni del ’68 non sanno che

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Mondo

Putin, Pajetta e il fantasma di Togliatti

27 novembre 1947. Il ministro dell’Interno Mario Scelba rimuove il prefetto di Milano Ettore Troilo. Non si tratta di un Pinco Palla qualsiasi. Volontario nella Grande Guerra, avvocato, collaboratore di Giacomo Matteotti, partecipa alla difesa di Roma nel settembre 1943 e comanderà la brigata partigiana Maiella. Ma è l’ultimo prefetto di nomina politica. E Alcide De Gasperi, dopo lo sbarco dei socialcomunisti dal governo nel maggio del 1947, intende voltare pagina. Così la scelta cade su un prefetto di carriera: Vincenzo Ciotola, fino ad allora prefetto di Torino. Questa decisione scalda gli animi. Il vento del Nord spira ancora, ancorché non più come una volta. E per protesta si dimettono in massa il sindaco socialista di Milano Antonio Greppi, nominato dal Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia, e un buon numero di sindaci della provincia di Milano. Ma il peggio deve ancora arrivare. Dopo anni di carcere, Giancarlo Pajetta ha il fuoco nelle vene. E, senza pensarci su due volte, ha la bella pensata di occupare la prefettura di Milano alla testa di un manipolo di militanti comunisti armati fino ai denti. Raggiante per la bravata, telefona a Palmiro Togliatti e gli comunica l’evento. Il Migliore ascolta infastidito il compagno di partito. Dopo di che, se ne esce con questa sarcastica battuta: “Bravo, e adesso che te ne fai?”. Ma come, Togliatti ostenta la linea legalitaria del partito allo scopo di non impaurire i moderati, di vincere le elezioni del 18 aprile 1948 e di dare un calcio nel fondoschiena al “cancelliere” De Gasperi, e Pajetta che ti fa?  Gli rompe, con la sua impulsività, le uova nel paniere. La disgrazia di Putin è quella di non avere come suo consigliori, se non un Togliatti in carne ed ossa, almeno il suo fantasma. Altrimenti il Migliore si sarebbe così

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Mondo

Putin non vince la guerra e adesso perderà la pace

Il vecchio Otto von Bismarck la sapeva lunga. Sosteneva che non si raccontano tante frottole quante se ne dicono prima delle elezioni, durante la guerra e dopo una battuta di caccia. Proprio così.  Prima delle elezioni le fandonie sono tanto più grosse quanto più i sistemi elettorali indulgono al proporzionale integrale, come qualche bello spirito vorrebbe metterci sul gobbo. Dopo la battuta di caccia all’Ucraina, vedrete, Putin farà buon viso a cattivo gioco. Per non perdere completamente la faccia, canterà spudoratamente vittoria. Ben sapendo che ci sono anche le vittorie di Pirro. Ma, soprattutto, durante questa infame guerra il dittatore rinchiuso nel Cremlino spara panzane alle quali ormai crede soltanto lui. Putin non solo mente di continuo ma si fa anche prendere per il naso da quanti lo circondano. Ha creduto alla favola dei servizi segreti, che dovrebbe conoscere a menadito. Gli hanno fatto credere che si sarebbe pappato l’Ucraina senza colpo ferire. O giù di lì. Si è lasciato abbindolare dai suoi generali che gli avevano decantato l’esercito come un’invincibile armata. Mentre invece si è rivelato una copia della gioiosa macchina da guerra del povero Achille Occhetto. L’uomo che nelle elezioni politiche del 1994 perse tutte le penne e non ebbe più neppure gli occhi per piangere. Come gli esami per Eduardo, si può dire che gli autoinganni di Putin non finiscono mai. Come tutti i dittatori, ha perso il senso della realtà. La immagina secondo i propri desideri. Con il risultato che alle illusioni seguono immancabili le delusioni.  Credeva che Stati Uniti, Regno Unito e Comunità europea si sarebbero comportati come il premier britannico Arthur Neville Chamberlain, che a Monaco nel 1938 fece come le tre scimmiette: si tappò gli occhi per non vedere, le orecchie per non sentire, la bocca per non parlare. Dando così carta bianca

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Politica

Montecitorio, come mosche in bottiglia

Agli occhi di noi cittadini comuni la crema della crema dei 1009 grandi elettori dal 24 gennaio stipata a Montecitorio, vale a dire i capi partito, stanno dando una penosa impressione. Sembrano mosche in bottiglia che sbattono di qua e di là senza costrutto alla disperata ricerca di una via di uscita. Per quanti sforzi facciano, restano imbottigliati e cominciano a esser presi dal panico. Perché si sta avvicinando il 3 febbraio, data di scadenza di Sergio Mattarella, e ancora è buio pesto. Tutto si spiega, del resto. Perché tante sono le fratture che abbiamo davanti agli occhi. C’è la frattura tra le due coalizioni contrapposte, che hanno avviato un dialogo tra sordi. C’è la frattura all’interno di ciascuna coalizione. Da una parte Enrico Letta e Giuseppe Conte marciano tutt’altro che uniti. Dall’altra, a parte Silvio Berlusconi ricoverato in ospedale e in via di ripresa, Matteo Salvini e Giorgia Meloni si comportano come i polli di Renzo.  Come se tutto questo non bastasse, i capi partito debbono fare i conti con le correnti di partito. Al confronto dei Cinque Stelle, dove Conte e Di Maio non si guardano negli occhi ma nelle rispettive carotidi, il Pd assomiglia a una quadrata legione. Anche se, siamo giusti, il povero Letta ha le sue gatte da pelare. Ma se Atene piange, Sparta non ride. Perché Forza Italia è divisa a metà come un cocomero tra salviniani e antisalviniani. Matteo Salvini deve vedersela da un lato con Giorgetti e dall’altra con i presidenti delle regioni del Nord, che in casa loro fanno il bello e il cattivo tempo. Luca Zaia più di tutti. A destra solo Giorgia Meloni comanda a bacchetta il partito come un sovrano assoluto. Ma tra lei e Salvini è una continua guerra dei nervi per la primazia della coalizione. Con

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