All’inferno e ritorno. Racconto di un abisso domestico L’inferno sono gli altri (Sartre). Ma ce lo possiamo costruire anche da soli

Il romanzo di Claudia Marin, Imperfezioni, editore Rubbettino

Molte possono essere le chiavi di lettura di questo bel romanzo di Claudia Marin, e diversi anche i “messaggi” che se ne possono trarre a lettura finita delle 238 pagine.

Per cominciare, ci soffermiamo su un punto su cui questo libro ci fa riflettere: la vita dà, dissemina, come Pollicino sulla strada, vari segnali, spie più o meno luminose, in qualche caso vere e proprie avvisaglie che dovrebbero far meditare sulle scelte esistenziali che si stanno per fare.  Ma capita che a queste avvisaglie non diamo il giusto peso, presi come siamo dalla intensità di una passione assorbente, che ci annebbia e ci deforma la realtà.

È che è capitato alla protagonista di questo romanzo, Azzurra: quasi alla vigilia delle nozze con un giovane che l’aveva rapita con gli sguardi, l’intensità degli occhi, le rose più rare e la bella presenza, ma che già la doveva allarmare per certi comportamenti dissociati, subisce un trattamento umiliante alla fine di una serata che doveva essere allegra. Il fidanzato non aveva gradito l’acconciatura della ragazza, che le lasciava scoperte le orecchie, e nel ristorante aveva di colpo tolto il fermaglio per scioglierle i capelli. Così, d’imperio. Poi nell’accompagnarla a casa, si chiude in un totale e immotivato mutismo, si ferma a pochi metri dall’abitazione della ragazza, chiude gli sportelli con la chiusura centralizzata e la lascia in auto per ore, di sera, al buio, mentre lui va a sorbire bevande in un bar a pochi passi.

Di più: prima di piantarla in asso in auto, la malmena con schiaffi e pugni, così senza motivo, solo per farle capire ‘’chi è che comanda’’.  Dopo di che il fidanzato ritorna, trova la ragazza disperata, sanguinante, avvilita, che alla fine si era addormentata. La sveglia e seraficamente le domanda: hai dormito bene? E derubrica questo gratuito atto di sopraffazione in uno scherzo.

Naturalmente la ragazza ha un moto di ribellione, piange, si dispera, si confida con i suoi genitori, si ripromette di mandare il matrimonio all’aria, e di darsi almeno qualche pausa d riflessone. Ma non accade niente di tutto questo. I due si sposano, e Azzurra si consegna a un marito che la sottopone a uno stillicidio di soprusi, sgarberie, dispetti, fino alla sopraffazione quotidiana. Le rimprovera ogni tipo di colpe, quasi sempre infondate: non guadagni, non vali niente, sei ridicola, sei schiava dei tuoi (i genitori alto borghesi, lui bancario e con un passato di irregolare a scuola).

Tutte queste osservazioni critiche, queste aggressioni, questi ripetuti atti di crudeltà mentale vengono sminuiti nel loro significato da chi li compie e ridotti al rango di ‘’imperfezioni’’ ( da cui il titolo del romanzo), mentre sono scene di un dominio quotidiano e pervasivo esercitato senza la minima sensibilità e comprensione umana.

Ad Andrea, così si chiama il protagonista, un piacione con l’anima da bullo, non vanno bene tante cose della moglie: le orecchie, il modo di camminare, di vestire, di parlare; se piange, è una bambina viziata dai genitori; arriva ad accusarla, ma senza motivo, di avere un amante, e convoca i genitori di lei per dirlo, sottoponendoli a un inutile stress, e lo fa per distruggere ai loro occhi l’immagine della figlia; arriva a guastarle il compleanno dopo aver organizzato la festa, impedendo ai genitori di lei di andare alla cena festosa, che non si farà.

Leggendo questo romanzo, peraltro scritto con una evidente sapienza psicologica e capacità descrittiva nella evoluzione delle sfumature delle emozioni, il lettore è preso da una doppia reazione, che lo spinge a domandare alla protagonista: ma perché non ti ribelli? Perché subisci?  E al protagonista: ma non ti vergogni di essere così scombinato, arrogante, aggressivo, e buffone, nel tenere la povera moglie sull’ottovolante di emozioni contrapposte, ma sempre accompagnate dal dileggio, dal disprezzo, dalla beffa?

Colpisce insomma, la protagonista, di cui l’autrice – attraverso una serie di scene scandite in tanti capitoletti con titoli che quasi sempre sono l’incipit del testo- descrive i comportamenti e le condizioni in cui si trova: una donna continuamente umiliata nella sua autostima, disorientata, colpevolizzata, remissiva, sottomessa, soggiogata, sempre giudicata, in una parola plagiata. Una donna sconfitta.

Quando l’amica psicologa, Elisa, le domanda se nel corso di questo inferno quotidiana durato oltre 10 anni avesse mai avuto voglia di scappare, Azzurra risponde: mai, forse solo per un attimo, Ma non sono scappata.

Difficile capire e accettare questa sottomissione cieca, questa specie di sindrome da prigioniera, senza alcuna forza di volontà, quasi vicina all’annientamento, nonostante i segni premonitori. La protagonista non è una sprovveduta, è una donna innamorata, forse irragionevolmente e anche infantilmente infatuata, preda di una fascinazione oscura e inspiegabile, subita da un uomo capace di atti di sadismo non solo mentale. E’ capace tuttavia di dire: ‘’Che Andrea fosse una persona difficile, mi era stato chiaro fin dall’inizio’’, ma – forse lasciando intendere – non fino a quel punto di aberrazione e di follia.

Non possiamo neanche ipotizzare, tra le motivazioni di questo comportamento, la presenza in certe donne innamorate di una Ingrid Bergman che dice, nel film con questo titolo, all’uomo che ama ‘’Io ti salverò’’.  No, perché Azzurra non ne avrebbe la forza, non ha proprio voce in capitolo, ha perfino paura di parlare, di obiettare per paura di irritare il marito.

 

 

Spesso invece di “salvare” l’altro si rimane dannati e sconfitti. Nel caso della protagonista il naufragio del matrimonio viene vissuto, prima che lei prenda anni dopo consapevolezza di sé, come un proprio scacco, come un suo senso di inadeguatezza: sensazioni che le erano entrate nell’anima a forza di sentirsele martellare di continuo dal marito oppressore.

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E così nel romanzo la vita di coppia diventa, nel dipanarsi delle giornate e delle situazioni, un inferno domestico, e anche un luogo di potere, del piccolo grande potere che il marito cerca di esercitare sulla partner, e guai a essere contraddetto, altrimenti scattano le rappresaglie

Perché non si è confidata da subito con i genitori? il padre, un medico primario, avrebbe forse avuto gli strumenti per capirla e per salvarla anzitempo. C’è un passaggio significativo in cui Azzurra spiega perché non lo fece: ancora una volta per un duplice senso di colpa: si sarebbe sentita in colpa verso Andrea trasgredendo il suo divieto di parlare ai suoi; e si sarebbe sentita in colpa con se stessa mostrando delle crepe nel castello dorato che aveva sperato fosse la sua vita.

Perché non si ribella – subito, presto – la protagonista? Perché, ella pensa, la via peggiore è la via di mezzo nel dilemma “dentro o fuori”. ” No. Io invece alle vie di mezzo sembravo aver sottoscritto un abbonamento da quando ancora andavo all’asilo’’.  Rompere tutto non se la sentiva, bloccata dal senso di colpa che avvertiva ormai cucito addosso come un vestito.

E l’amica psicologa le dice: “Tuo marito ti ha isolata dal mondo e tu lo hai lasciato fare”. “E tu hai ristretto il tuo orizzonte giorno per giorno. Ti sei lasciata sottomettere e mortificare un pezzo alla volta rinunciando a te stessa e a quello che volevi essere”

Senonché alla fine Azzurra, davanti a episodi impossibili da accettare – percosse, crudeltà mentale, essere tenuta per le braccia sospese fuori da una finestra, con il rischio di precipitare nel vuoto-  finalmente riesce a ribellarsi, e cerca di riappropriarsi la sua vita perduta, a coltivare la sua passione per il disegno e la pittura per la quale veniva derisa dal marito, che mai aveva trovato in lei qualcosa da elogiare, salvo in qualche barlume di comportamento dissociato.

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Azzurra inizia questo itinerario di auto-ritrovamento, di liberazione da un abisso durato fin troppo.        Grazie anche all’affetto dei suoi tre figli (peraltro il marito l’accusava di non saperli educare e di essere una pessima madre). Citando un pensiero di Paulo Coehlo, Azzurra dice: un bambino può sempre insegnare tre cose a un adulto: ad essere contento senza motivo; ad essere sempre occupato con qualche cosa; e a pretendere con ogni sua forza quello che desidera,

Alla fine riesce a liberarsi, ma come in un lungo flash back – travasatosi nella scrittura di mail mandate all’amica psicologa, oltre che nelle conversazioni a voce – rivede in un immaginario film i comportamenti del marito e la sua vita passata con lui, ma stavolta con la mente e la volontà di riscatto il suo sguardo è analitico e disincantato. E tuttavia – c’è un passaggio significativo in questo senso – in qualche momento arriva a trovare qualche attenuante in certi assurdi comportamenti del marito, che aveva un passato da ‘’scappato dalla scuola’’. Ma mentre formula questa attenuante, ella sente quasi un senso di colpa con se stessa per aver solo concepito il tentativo di giustificarlo.

Insomma la liberazione fa grandi passi, ma l’anima di Azzurra è piena di cicatrici, e in fondo, ma solo in fondo, si sente per un momento non dico un rimpianto o una nostalgia del marito aguzzino, ma il rimpianto e un senso di sconfitta per un sogno in cui aveva creduto, ciecamente creduto, ma – come dice l’autrice – era ‘’un sogno senza ali ’’. Un sogno schiantatosi, come un aereo, fin dal decollo.

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La paura, lo stato d’animo della protagonista, timorosa di dire, di sbagliare, di sentirsi tacciare di sprovveduta, di fallita, la paura di sentirsi sempre sotto esame, il divieto di frequentare persone sgradite al marito, di invitare perfino i genitori a una festa di compleanno, con l’aggravante di farglielo dire dalla moglie al telefono all’ultimo momento. Questa sensazione di paura era vissuta come ” un rito funebre interiore”. Dominata da “una forma di non azione che in certe circostanze porta alla paralisi”.

Sogno senza ali. Di bei giri di frase il romanzo ne regala più d’uno. Per esempio quest’altra: si “passava dall’inciviltà barbarica alle cerimonie stilnovistiche”: così la protagonista ancora fidanzata percepisce l’oscillazione continua e clamorosa degli atteggiamenti del futuro marito. E poi: “Nella cantina dell’anima”. C’è per la verità anche qualche scivolamento verso il barocchismo, qualche frase troppo ricercata: “Azzurra continuava a sentire quella sete di amore che le seviziava i margini dell’anima”. Ma quest’altra frase è molto efficace: Il “mio animo – parla la protagonista – al suo debutto assoluto sulla scena dell’autolesionismo, del crollo della soglia minima dell’indignazione e dell’orgoglio personale”. Ecco, in Azzurra questa soglia minima è quasi sempre rasoterra.

Ci sono metafore illuminanti. Come questa, per illustrare la delusione esistenziale di Azzurra, che vede svanire il suo sogno di vita: “Il rancore mi volava via dal cuore un pezzetto alla volta come uno sciame di farfalle leggere… Mi sentivo come una che pensava di aver vinto la lotteria e poi all’improvviso si accorge di aver acquistato un biglietto per l’inferno. Di sola andata”.

Per la verità, proprio all’improvviso, non si può dire, per quella osservazione che abbiamo fatto all’inizio sulle numerose e chiare avvisaglie che la protagonista aveva avuto dalla vita.

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Alla fine Azzurra, come se prendesse gusto, dal senso di liberazione che avverte, di riprendersi non solo la vita, ma anche e soprattutto la sua libertà di pensare, di riflettere, esprimere finalmente i propri pensieri senza essere continuamente contraddetta, mortificata, ridicolizzata dal marito ormai assente, diventa anche “filosofa”: e parla di “banalità del male”.

Può sembrare esagerata, ma in fondo non lo è, la formula, pensando al contesto e alla realtà tragica alla quale la applicò Hannah Arendt.  Lì la banalità del male era riferita all’annientamento – fisico – di milioni di ebrei.

 

Qui l’orizzonte è più ristretto, è quello domestico, si tratta dell’inferno di certi matrimoni, dove può esercitarsi una opera sottile, mitridatica, di avvelenamento dell’esistenza, di annientamento della personalità della donna. Una specie di femminicidio virtuale, a rate, ma che può uccidere l’anima e la dignità.

E così la protagonista riflette: “Che cosa c’è di più banale di una coppia infelice? Esausta di essere coppia, parola unica per due mondi incomunicabili, esausta di confrontare la vita desiderata con la vita reale. Leggiamo poi quest’altro illuminante passaggio: La protagonista “si domandava come avesse potuto sopravvivere per anni in quella condizione. Era arrivata perfino a percepirla come normale e in qualche modo inevitabile”.

Non è solo questione di sindrome ( di Stoccolma o semplicemente sindrome del prigioniero). C’è un pensiero di Pasternak nel Dottor Zivago: “L’uomo non libero ( in questo caso la donna NdR) finisce per idealizzare la propria schiavitù”.

Poi arriva il momento, il big bang della volontà, dell’intuizione: E così Azzurra “si accorse di aver dormito per lunghi anni, credendosi sveglia e vigile, in possesso solo di una bussola per navigare a vista”.

C’è tanta psicologia in questo romanzo, che merita ogni attenzione, e l’autrice Claudia Marin sembra tenere salda l’orchestrazione delle varie sfumature, e anche dei punti di svolta. Un altro esempio è questo passaggio: la protagonista riceve un biglietto da un corteggiatore misterioso conosciuto in spiaggia:”Aveva letto il foglio con la fretta di chi fruga in un cassetto altrui più che con la frenesia appagante di chi legge una lettera d’amore”.  E a proposito di belle frasi: Quel biglietto apparve alla protagonista “un fermo immagine della sua anima”.

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In conclusione: un libro di narrativa non è solo un’opera di intrattenimento. Questo è un libro profondo e dolente che racconta come l’infelicità umana, che può essere proteiforme (Tolstoj: le famiglie felici si somigliano tutte, quelle infelici lo sono ciascuna a suo modo), riesca a travestirsi facilmente con orpelli insinuanti e ingannatori  e quando la vittima si accorge di trovarsi invece in una trappola, a volte può essere tardi per rimediare. O è più faticoso e lacerante uscirne, come alla fine riesce a fare Azzurra. Ecco perché bisogna sapere cogliere i cosiddetti segnali premonitori che la vita può offrirci. Ma bisogna tener conto anche del fatto che, a differenza del postino, la vita può bussa sempre  due volte.

Mario NanniDirettore editoriale

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