A che punto è la notte, cittadino?

«Sentinella, a che punto è la notte?». La sentinella risponde: «Viene la mattina, e viene anche la notte» (Isaia 21, 11-12)

La citazione è alta, forse troppo per uno scritto sbilenco come questo, ma forse non sta male in questi giorni che spingerebbero verso bilanci e spiritualità. Anzi va proprio bene perché parla di un’incertezza. È di Isaia, uno dei quattro maggiori profeti ebrei, che, a una domanda precisa dichiara la sua inadeguatezza. Ma lascia comunque una verità: non sa quando, ma la notte finirà, così come finisce il giorno.

Eduardo avrebbe detto, diversi secoli dopo “ha da passà ‘a nuttata”, nella Napoli Milionaria del 1945. Ma, se volete scivolare ancora di più nel pop, il concetto furoreggiò nelle inconsapevoli ugole degli italiani anni ’60 che ricantavano il ritornello de “il Mondo” di Jimmy Fontana: “la notte segue sempre il giorno ed il giorno verrà”.

Di che notte stiamo parlando dovrebbe essere chiaro: la notte della politica che annuncia nell’indistinto dello scuro che trionfa, qualcosa di fantasmatico che minaccia la democrazia. Agli appassionati cultori lasceremmo qualche indizio, cominciando dalla qualità delle classi politiche dirigenti- e non parliamo soltanto del caso Italia, che pure di suo è abbastanza eloquente- nelle liberaldemocrazie: c’è forse qualcuno che pensa davvero che circoli nel mondo occidentale qualcosa di paragonabile ai Kohl e alle Merkel, alle Thatcher o ai Blair, ai Giscard d’Estaing o ai Mitterrand o ai Barack Obama di qualche anno fa?

E che dire dell’incremento delle autocrazie- quando non si tratta di dittature schiettamente identificate- conclamate e no che ormai supera il 60% del mondo? E che dire del declino dei Parlamenti, sempre più inginocchiati ai governi, e dei Governi, sempre più prostrati alla finanza internazionale, e della stessa finanza internazionale, sempre più nelle mani degli Over The Top, i padroni dell’economia digitale ( e delle nostre vite digitali)? Ha da passà a nuttata!                               

E zoomando verso le cose nostre eternamente incastrate tra crisi globale e crisi endogena, che dire dell’Italia politica ipnotizzata dall’immediato e incapace di visione, ormai rassegnata al surf emozionale con le discese ardite e le risalite di partiti personali, ieri al quattro per cento e qualche annetto dopo nell’empireo del governo a godere dell’effetto bandwagon, per ritornare, magari dopo un poco, nel purgatorio dell’inconsistenza ? 

Siccome, però, il crinale umbratile è il terreno migliore di coltura per le articolesse di fine anno, noi devieremo subito il percorso. C’è, però, un’urgenza sopra a tutte le altre che riguarda la politica italiana e si chiama “questione giovanile”. Non solo nel senso eterno della disoccupazione che faceva fare a Tina Anselmi 46 anni fa la legge sull’occupazione giovanile (che peraltro funzionò, perché premiava l’imprenditoria giovanile e non l’assistenzialismo), ma nel senso della partecipazione alla politica.

È vero, è da molto tempo che abbiamo abbandonato l’idea di veder circolare tra le giovani generazioni passioni paragonabili al ’68 (e, in verità, anche di ascoltare musica rock decente come quella degli anni ’70). Ma una disaffezione così forte, così irrimediabile come quella che abbiamo visto nelle ultime politiche di settembre francamente sconforta. Se i padri hanno eluso le urne nella misura del 37%, i figli hanno raggiunto il 43.                                                              

Non ci sono stati approfondimenti più penetranti per la fascia di età compresa tra i 18 e i 25 anni, quella che ha votato per la prima volta per la Camera ed anche per il Senato, ma c’è da scommettere che il livello di disaffezione per i più giovani sarà ancora più intenso. Forse il lemma più giusto non è neanche disaffezione, che suppone un disamoramento dopo un rapporto, uno strappo, una delusione, insomma un sentimento.                                                                       

No: la parola giusta è indifferenza, apatia, con alfa privativa davanti a pathos, come di una consapevolezza acquisita dell’inutilità della partecipazione e della politica. E questo è il vero precipizio: un Paese senza entusiasmo giovanile, che affida il presente a un po’ di ceto politico nazionale cooptato da leggi elettorali ignobili, abbarbicati allo scranno fortunosamente conquistato come i naufraghi nella zattera della Medusa di Théodore Géricault. 

Un ceto vecchio, se non per anagrafe, sicuramente per mentalità, eletto da un corpo elettorale anziano, che peraltro non ha mai visto un elettore in faccia. A che punto è la notte, cittadino? 

Sappiamo che la nottata “ha da passà”, e che “la notte segue sempre il giorno” e viceversa, ma un aiutino per aiutare l’alba a venir fuori andrebbe escogitato. 

Forse cominciando dalle leggi elettorali. Chissà se, inceppando questa macchina folle del conformismo e dell’agglutinazione, non si rompa il fragile filo della nuova “indifferenza democratica” che blocca la politica nel nostro Paese a partire dai giovani. Buon anno a tutti.

 

Pino Pisicchio – Professore Ordinario di Diritto pubblico comparato. Già deputato in varie legislature, capogruppo, presidente dei Commissione e sottosegretario

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