Una premessa doverosa per dare a Cesare quel ch’è di Cesare. Furono Aldo Canovari e pochi altri (quorum ego) della “Liberilibri” ad agitare, nel secolo scorso, il tema dell’estrazione a sorte dei magistrati del Consiglio superiore della magistratura (Csm). Silvio Berlusconi insistette piuttosto sulla separazione delle carriere tra magistrati accusatori e magistrati giudicanti. Ora, con il Governo Meloni e il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che fu amico di Canovari e, a riguardo, suo ‘sodale’ in spirito, la riforma della magistratura (non della Giustizia, per favore!) improntata ai due suddetti capisaldi ha assunto la veste di disegno di legge costituzionale all’esame del Parlamento.
Forse siamo all’epilogo dell’annosa aspirazione dell’Italia liberale ad una ‘giustizia giusta’, un’espressione soltanto italiana che racchiude in positivo tutta la carica che in negativo il popolo percepisce nel concreto esercizio della giurisdizione.
Dalle opinioni dei politici dissenzienti, dalle riserve esplicite dei magistrati (la magistratura associata risulta meno critica che contrapposta), dalle aspettative dichiarate dai favorevoli, deduco che sembrano sussistere cose o non dette o non comprese.
Ma non c’entrano soltanto le diffuse carenze del sentimento illuministico della giustizia, intesa come processo penale, oppure gli effetti politici e giuridici che necessariamente conseguono all’impostazione illiberale dell’ordine giudiziario.
Da Machiavelli alla regola del silenzio
C’entra soprattutto l’uso machiavellico degli argomenti portati nella disputa, branditi talvolta come corpi contundenti. E c’entrano pure il tacerne ad arte i contrari oppure ahimè l’ignorarne del tutto i fondamentali.
Sull’estrazione a sorte dei magistrati del Csm, il Governo deflette dall’indirizzo di Canovari, favorevole al puro metodo stocastico. I denigratori del sorteggio nella selezione dei magistrati per il Csm non oppongono argomenti, bensì una umoristica petizione di principio: il sorteggio sceglie a caso i magistrati (sic!).
A tali denigratori, se fossi perfido quanto loro interessati, potrei ribattere che, parlando in generale, i magistrati appaiono aspri avversari del sorteggio perché non è manipolabile come le elezioni.
Come propugnatore, da lustri, dell’estrazione a sorte, ho immaginato per i magistrati un metodo casuale (già adoperato dalla democrazia di Atene e dalla repubblica di Venezia per le cariche politiche!), cioè un sorta di urna del lotto dalla quale estrarre i nomi per il Csm non già tra tutti i magistrati in servizio, ma tra quelli che, avendo superata una certa anzianità di servizio, per esempio quattro anni, chiedano di essere inseriti nella lista degli estraibili; ed inoltre che ai sorteggiati non spetti alcuna indennità aggiuntiva allo stipendio se non il rimborso spese, così da sottrarli alle lusinghe del tornaconto economico.
L’estrazione a sorte mi sembrava allora, come oggi, il modo drastico per stroncare o almeno ridurre quel riprovevole traffico correntizio, deprecato non solo dall’opinione pubblica ma denunciato in varie sedi dagli stessi più sensibili magistrati.
Ero convinto allora, come oggi, che un sistema del genere, pur sommariamente delineato, taglierebbe le unghie agli ambiziosi maneggioni (l’opposto di veri giudici!) che acconciano le “elezioni” del Csm a comodo loro, e separerebbe alquanto la politica dalla magistratura, in senso specifico e in senso generale.
“Una colossale sciocchezza”, parole loro, non è quindi l’estrazione a sorte ma rigettarla perché spiace a chiassosi magistrati, a corrivi accademici, a politici compiacenti.
La separazione delle carriere
Quanto alla separazione delle carriere tra giudici e procuratori, la ragione precipua per la quale sono favorevole non solo alla separazione delle carriere, ma pure alla ‘laicizzazione’ del pubblico ministero, sta esattamente nel fatto che, allo stato delle cose, il pubblico ministero italiano appare una sorta di ‘promotore di giustizia’ anziché un ‘avvocato dell’accusa’ ed agisce come se fosse tenuto istituzionalmente alla ‘ricerca della verità’ anziché ‘semplicemente delle prove’ a carico dell’indagato.
Molti, a cominciare dai magistrati, dimenticano che la ‘ricerca della verità’ è compito di tre categorie umane: i filosofi, gli scienziati, i religiosi. Non dei magistrati, sia che inquisiscano sia che giudichino. Non solo non riesco a intravedere o ricavare nella Costituzione un principio o una norma che abbia posto sulle spalle dei magistrati un tale insopportabile peso, ma sono portato a credere che sia impossibile caricarglielo addosso persino in astratto.
Devo aggiungere che l’immane compito di ‘ricercare la verità’ fa il paio con un’altra credenza circolante nell’associazionismo della magistratura, cioè che ad essa spetti un ‘generale controllo di legalità’.
In un sistema libero e democratico, sotto l’imperio del diritto, il ‘controllo generale della legalità’ risiede nel sistema stesso, altrimenti detto ‘Stato di diritto’,mentre i magistrati verificano la legalità dei casi di specie.
Le due espressioni ‘ricerca della verità’ e ‘controllo generale di legalità’ sono correlate.
Evidenziano una concezione inaccettabile della giustizia e della giurisdizione, ispirata a una sorta di ‘teurgia giudiziaria’, e portano a concludere che la separazione delle carriere sia indispensabile per tentare un bilanciamento della posizione delle parti nel processo penale, nel quale l’indagato e l’imputato devono difendersi non solo dall’accusa ma dallo stesso accusatore, il quale, essendo un magistrato con la toga, non sta alla pari nel processo ma ne costituisce un protagonista dal rango incombente di per sé. Superior stabat lupus…
‘Semplicemente le prove a carico dell’indagato’, vi insisto, costituiscono l’onere specifico della pubblica accusa, che non dovrebbe avere autorità, formale e sostanziale, oltre il potere legale di ricercarle e allegarle, se parliamo di quel ‘giusto processo’ tardivamente iscritto nella Costituzione con involontaria ironia, se non altro perché sembra l’unica Carta al mondo che prescriva la ‘giustizia giusta’ temendone forse l’ingiusta.
Il rischio del grande inquisitore
Secondo una parte della politica e della magistratura, con le carriere separate il pubblico ministero rischierebbe di trasformarsi in un ‘superpoliziotto’ oppure in un ‘grande inquisitore’.
A me sembra che troppe volte lo vede già così oggigiorno la maggioranza dei cittadini. E non solo. Infatti, fu un deputato (pure magistrato!) che nel 1994, al momento di massimo splendore dell’inquisizione giudiziaria e di massima vergogna del Parlamento, dichiarò in Assemblea che “il ruolo del pubblico ministero va divenendo imperiale e difficilmente contrastabile all’interno della realtà giurisdizionale”.
Senza la toga di magistrato, il pubblico ministero non avrebbe potuto assumere, seppure per abuso, un ‘potere imperiale’. Contro chi insorgeva quel deputato-magistrato?
Contro un procuratore della Repubblica che aveva manifestato questo sprezzante e agghiacciante pensiero, coerente con “Mani pulite” a cui era riferito: “Non è vero che gl’imputati venivano scarcerati quando parlavano, bensì rimanevano dentro fino a quando non parlavano”.
Questo punto di vista sulla ‘separazione delle carriere’ e sulla ‘laicizzazione’ della pubblica accusa imporrebbe di completare il sistema costituzionale con l’adozione dello ‘habeas corpus’ e della ‘libertà su cauzione’ alla maniera anglosassone, senza i quali il processo accusatorio risulta una bizzarria giuridica. Ma molti preconcetti, specifici del carattere nazionale e dell’ordinamento italiano, non solo del Governo e della maggioranza, vi si oppongono al momento storico.
Piante incompatibili
Tuttavia, la riforma della magistratura all’esame del Parlamento somiglia ad un innesto tra piante incompatibili: sul pero puoi innestare un melo, non una quercia, che nasce dalla ghianda. E neppure il contrario.
L’intenzione, talvolta improvvidamente dichiarata, sarebbe di completare la ‘riforma Vassalli’ del processo penale risalente al 1989 e la riforma costituzionale del 1999 sul ‘giusto processo’. Questo completamento è però improbabile, nell’intenzione e nei risultati, perché innestando un melo su un pero o viceversa ottieni sempre un melo o viceversa un pero.
Ciò per dire che la riforma della magistratura, come presentata e/o approvata, resterà una pomacea. Non diverrà quercia.
Nel procedimento penale anglosassone ‘il giudice non è coinvolto nell’azione penale o nell’acquisizione delle prove e nel processo con giuria pronuncia la sentenza (la pena) basandosi sul verdetto dei giurati’ (Stefano Salmasi, “Dizionario di istituzioni e civiltà inglesi e americane”, Zanichelli, 2000, pag. 191).
Il giudice anglosassone è profondamente diverso.
La sua complessiva posizione è irreconciliabile con la posizione del giudice italiano. Adoperando una formula intuitivamente comprensibile, specie dagli italiani calciofili, il giudice anglosassone possiamo definirlo ‘arbitro della procedura’, l’unico che in udienza veste la toga del magistrato, mentre il procuratore e il difensore vi stanno di fronte da ‘laici’ e ‘giocano’ assolutamente alla pari, con diritti e doveri regolati dal giudice, anche visivamente separato e sovrastante.
La riforma della magistratura, come delineata dal Governo, non rischia forse di innalzare e fortificare la posizione ordinamentale dei procuratori? E di farne una casta chiusa, autoreferenziale, con il mantenerli al rango di magistrati in toga e il dotarli in più di un autogoverno separato, un secondo Csm solo per loro, nuovo di zecca?
Tale impostazione, che appare contraddittoria con la ‘mens legislatoris’ e incoerente con la ‘ratio iuris’, svela una soverchia condiscendenza verso le pretese della magistratura ed è tristemente diretta a schivare le punte più acuminate della sua conclamata avversione.
In Italia la partecipazione del popolo all’esercizio della giurisdizione avviene nelle corti d’assise, dove, a quanto è dato di sapere a causa della segretezza della camera di consiglio, risulterebbe preponderante il peso dei ‘due’ magistrati che ne fanno parte (il presidente e il giudice a latere) anziché dei ‘sei’ giudici popolari che pare finiscano per andare a rimorchio dei giudici togati piuttosto che determinarne le sentenze.
Dodici cittadini
Nel sistema anglosassone la giuria deve essere composta di ‘dodici’ cittadini e il verdetto di ‘colpevole’ o di ‘non colpevole’ deve essere adottato all’unanimità perché si abbia una condanna o un’assoluzione (in Italia il giudice, se collegiale, decide a maggioranza). Il processo nella corte d’assise italiana, competente solo per crimini gravissimi, non realizzaquel ‘trial by jury’ del mondo anglosassone, che nella Carta degli Stati Uniti è sancito addirittura dagli Emendamenti VI e VII come diritto costituzionale degli individui per tutti i reati.
Insomma, mancando la giuria (“Merriam-Webster’s Dictionary of law”: ‘jury trial, a trial in wich a jury serves as the trier of fact’, “il processocon giuria è un processo nel quale una giuria funge da giudice di (del) fatto”) una corte d’assise non può essere assimilata al giudice anglosassone ‘arbitro della procedura’.
La corte d’assise giudica tanto in fatto quanto in diritto e la sua decisione costituisce al tempo stesso un verdetto e una sentenza.
La giustizia penale anglosassone viene sostanzialmente amministrata ‘dal popolo’, mentre la giustizia penale italiana è amministrata da magistrati ‘in nome del popolo’.
Pertanto mi sento di affermare che la riforma della magistratura secondo il disegno governativo darà dei frutti, ma non tutti buoni né tutti quelliauspicabili o attesi. Inoltre, la preconcetta opposizione della magistratura troverà patroni nelle Camere, che saranno costrette ad assecondarla in qualche modo per svellerne il potere di veto, decisivo ofrenante, fattualmente esercitato da troppi decenni.