Israele, ecco cosa deve fare Netanyahu: fermarsi. Così il premier rischia di alienarsi il mondo intero

Dopo l'attacco del 7 ottobre, il leader israeliano va avanti con le reazioni di guerra e le cannonate alle basi Unifil. Anche il governo italiano ha preso le distanze, prima con Crosetto e poi con la stessa presidente Meloni

Soldati Israele Libano

Benjamin Netanyahu ha gettato l’ennesima maschera della sua carriera di tragico bugiardo. Dopo cinque giorni di cannonate dei panzer Merkava alle basi Unifil, e di incursioni al loro interno per demolire le strutture, violazioni sistematiche e gravissime di ogni regola e ogni accordo internazionale malamente giustificate col fatto che gli Hezbollah, nascosti all’ombra dei presidi Onu, prendevano di mira i soldati con la Stella di David, lo ha detto chiaro e tondo: i peacekeeper se ne devono andare, Israele non può più garantire per la loro sicurezza, come dimostra sparando loro addosso.

I caschi blu feriti sono già una quindicina. Del resto, la motivazione è la stessa con cui, da un anno, Israele fa spostare senza sosta due milioni e mezzo di palestinesi da un angolo all’altro della Striscia di Gaza, colpendo subito dopo le zone abitate, ormai solo macerie, dove, insieme a tutti quelli che non hanno potuto allontanarsi in tempo, si nascondono quelli di Hamas. Quanti siano, i miliziani tra le 42 mila vittime e i 95 mila feriti di questi bombardamenti a tappeto, non si saprà mai.

Giudizi preventivi

Non di meno, è difficile che possano esserlo i bambini – 21 mila tra uccisi e dispersi, il triplo quelli con gravi lesioni, secondo la maggior parte delle stime – se non si condivide il giudizio preventivo di alcune frange ultraortodosse di kibbutzhin, per i quali ogni neonato palestinese è un futuro terrorista.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu

 

Ora, ritornando al nord, il mandato della United Nations Interim Force in Lebanon, istituita nel 1978 da Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e sottoscritto anche da Tel Aviv, è proprio quello di garantire il rispetto del confine e degli abitanti tra Libano e Israele, quindi di interporsi (Interim) tra i contendenti che si fronteggiano a poca distanza. In altre parole, il compito del contingente è proprio la ragione per cui, secondo gli assurdi diktat di Bibi, l’Onu dovrebbe smantellare i campi.

Ovviamente, Netanyahu, che nemmeno per un secondo – giusta l’accusa di gran parte dei familiari – ha mai pensato  seriamente di salvare gli ostaggi israeliani di Hamas, può mai darsi la minima pena per l’incolumità dei caschi blu. Ciò che gli sta a cuore, come indica l’accecamento delle telecamere delle postazioni Onu prima dell’ultimatum di sgombero, è togliersi di torno eventuali testimoni di quel che Tsahal, l’esercito, sta per fare.

Perché è chiaro che il primo ministro israeliano, che ormai molti anche in Europa cominciamo a ritenere meritevole non meno di Putin del bando internazionale e di sanzioni economiche per crimini contro l’umanità, non intende fermarsi davanti a nulla e a nessuno.

Un groviglio geopolitico

E allora, mentre la barbarie di chi guida la politica d’Israele supera il livello di guardia e sembra voler dichiarare guerra al mondo, l’Occidente, che ha sempre protetto Tel Aviv e, continua ad armarlo, come ammoniscono Emmanuel Macron e Pedro Sanchez, lasciando Giorgia Meloni ai soliti equilibrismi italiani, dovrebbe riflettere.

Guardare con occhio più critico all’ambiguo confine tra senso di colpa, tolleranza e complicità, che dai tempi di Theodor Herzl, fondatore nel 1897 del moderno sionismo, a quel tempo di ispirazione socialista, ha sempre fatto da sfondo ai nostri rapporti con il nazionalismo ebraico, creando il più inestricabile groviglio geopolitico di sempre.

Dovremmo chiederci, prima di tutto, visto che mai come in politica la forma è sostanza, se non sia il caso di dire basta alle ipocrite cautele linguistiche con le quali trattiamo la crescente irresponsabilità di Tel Aviv, che non fa mistero di voler tagliare i ponti con chi non sottoscrive alla virgola ciò che fa; di ritenere a priori che “Netanyahu è una cosa e la popolazione un’altra”; di pensare che l’Idf non sia d’accordo sul conflitto perché centoventi riservisti, inorriditi per quel che si chiede loro di fare, minacciano di ammutinarsi.

Libano Unifil Israele

Il ministro della Difesa Guido Crosetto durante la conferenza stampa sul coinvolgimento del contingente Unifil in Libano

 

Le evidenze quotidiane dimostrano il contrario. La sfacciata ostinazione con cui Bibi sta sfigurando l’immagine del suo paese, pur di rimandare l’appuntamento con i tribunali di casa per le malefatte passate, non può più fare velo alla sostanziale inerzia della società israeliana nel subire una nemesi che la sta trasformando da capro espiatorio in uno dei tanti aguzzini della Storia.

Il piano di Netanyahu

Se Israele è davvero un paese democratico, come pretende di essere allorché scaglia su chi ne dubita l’anatema, per causa sua sempre più vuoto, di antisemitismo, allora i ‘no’ alle strategie criminali di Bibi devono fermarlo. Se non ci riescono, è perché i suoi contestatori possono anche far rumore e colore in piazza per mesi, ma restano comunque irrilevanti.

In realtà la maggioranza degli israeliani, anche senza essere invasati religiosi, forse illusi dallo strapotere tecnologico e d’intelligence esibito nella vicenda dei cerca-persone esplosivi, preferisce chiudere gli occhi davanti alle deliberate brutalità commesse dai militari a Gaza, in Cisgiordania e in Libano.

Lo fa ben sapendo che per mezzo di quella che appare una spropositata ritorsione contro i civili per la strage perpetrata un anno fa dai terroristi di Hamas, il callido Bibi ha in mente, anche per salvarsi, di portare a termine un piano a lungo accarezzato, come, va ribadito, conferma l’assoluta indifferenza per la sorte degli ostaggi del 7 ottobre.

La mappa della Striscia di Gaza e di Israele

La mappa della Striscia di Gaza e di Israele

 

Un progetto che adesso Netanyahu intravede realizzabile, approfittando con rapido cinismo della crisi internazionale, tra il vuoto elettorale americano, la guerra in Ucraina, e il confronto sempre più profondo tra gli Usa, l’Asia, e un’Europa costretta a balbettare più del solito da Orban e dai suoi accoliti sovranisti, lesti a soccorrere qualsiasi autocrate, e con ciò a riconoscerlo come tale.

In ogni caso, il vero obiettivo di Benjamin Netanyahu, come d’altronde hanno vantato con orgoglio i suoi ministri zeloti Ben-Gvir e Smodrich, è annientare non solo Hamas, ma tutti i palestinesi come popolo, allontanandoli per sempre da Gaza e dalla Cisgiordania. Non solo, ma già che ci sono, con la scusa di colpire a morte Hezbollah, liberare anche parte del Paese dei Cedri dai suoi legittimi abitanti, riunificando dentro un solo confine, territoriale e confessionale, i mitici Regni di Giuda e di Israele.

Ridisegnare i confini

A parti invertite, è la stessa soluzione, una Palestina libera dal Giordano al Mediterraneo, propugnata dai terroristi di Hamas e di Hezbollah e dai paesi islamici come l’Iran che li armano per farsi spazio nella mai come oggi complicata e instabile geopolitica della regione.

Quanto la cosiddetta strategia del governo israeliano possa contribuire a un nuovo equilibrio, o sia, invece, un furioso gioco al tanto peggio tanto meglio, alimentato dalla confusa velleità di ridisegnare a proprio vantaggio i confini, contando sull’improbabile acquiescenza di quella parte del mondo arabo legata ai tenui fili degli accordi di Abramo e all’opportunità di liquidare la potenza iraniana, lo vedremo molto presto.

Hamas

Un miliziano di Hamas nel turno di guardia

 

Sia chiaro, nelle manifestazioni di crescente dissenso che fanno da contrappunto alla volontà di Israele di sottrarsi al  giudizio della comunità internazionale, c’è un vizio molto grave, di forma e di sostanza.

La necessità del dissenso

Perché confondere ebrei e israeliani; attribuire ai primi i misfatti di una nazione di cui non sono cittadini; supporre che gli uni e gli altri siano sempre d’accordo, tutti sionisti, tutti estremisti, come gli agghiaccianti coloni della Cisgiordania, che immersi nella realtà alterata delle loro allucinazioni religiose, vanno a caccia di palestinesi agitando la Bibbia come un testo di Storia; ripetere nelle nostre strade gli slogan dei terroristi di Hamas, rafforzando le promesse di reciproco sterminio e azzerando le chances per l’unica possibile soluzione, quella dei due Stati per due popoli.

Ebbene, tutto questo è una plateale dimostrazione di ignoranza da parte di chi vorrebbe difendere le parti più deboli e le ragioni dell’umanità e della logica, in questo conflitto apparentemente privo di logica e ragioni.

Ed è anche molto probabile che tale atteggiamento presenti i tratti del solito, inossidabile antisemitismo. Però, a questo punto, per chiarire almeno un po’ le cose, sarebbe davvero auspicabile che tutti gli ebrei della diaspora che non concordano con lo stolto comportamento di Tel Aviv, e in particolare quelli europei, titolari di una lunga tradizione di laicità culturale, trovassero il coraggio di prendere una posizione di condanna molto più netta e lo dicessero apertamente, magari anche scendendo in strada, senza lasciare il peso del dissenso a tanti dei loro intellettuali che in questi mesi parlano con lucidità e coraggio del suicidio di Israele.

Perché una nazione può anche dichiararsi eletta da Geova, ma questo non esclude il rischio che anche Geova, come ogni Dio, possa rendere dementi coloro che vuole disperdere.

 

Maurizio MenicucciGiornalista- Autore di documentary e reportage, anche televisivi

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