Ferrando Mantovani, grande giurista, esperto di diritto penale e criminologia, scriveva anni fa: “La morte resta e resterà sempre – nonostante le generose conquiste e gli ingannevoli miti della scienza – l’inevitabile prezzo della vita e nell’imparare a morire sta, forse, il segreto per imparare a vivere”. Mi pare una riflessione calzante le volte in cui si tenti di affrontare la tematica relativa al c.d. “fine-vita”, che recentemente, dopo la mancata approvazione di una legge regionale in Veneto, è tornata prepotentemente alla ribalta, evidenziando, una volta di più, l’incapacità del nostro Legislatore di affrontare ex professo le grandi questioni che riguardano i diritti civili, ad onta – in questo caso – di specifiche sollecitazioni provenienti dalla Corte Costituzionale.
Un tema, questo della regolamentazione giuridica del fine-vita, ancora particolarmente divisivo, come dimostrano le diverse posizioni espresse recentemente anche su Beemagazine e come solitamente accade quando si affrontano questioni in materia di bioetica: parola di uso relativamente recente, con la quale si indica quella parte dell’«etica»che ha per oggetto i comportamenti umani riguardo alla vita. Una definizione – se vogliamo – piuttosto generica se non semplicistica, anche a considerare solo le implicazioni di ordine giuridico che vi sono connesse, non essendovi un solo aspetto – si tratti dell’aborto, dell’eutanasia, della fecondazione assistita o della clonazione – che non presenti, appunto, implicazioni etiche ma anche giuridiche (tanto che qualcuno ha parlato di “biodiritto”).
Con specifico riguardo, poi, alla situazione italiana, occorre sottolineare che il discorso di tipo etico o filosofico o teologico-morale ha avuto spesso una netta prevalenza rispetto a quello giuridico, probabilmente a causa del particolare peso che da noi hanno avuto ed hanno le posizioni cattoliche, cui si è contrapposta la “bioetica laica”, atteggiandosi, sostanzialmente, come contraltare rispetto alle posizioni cattoliche: un “duello” che, nel corso degli anni, non ha prodotto nulla di positivo.
Scriveva Montaigne: “La vita è un movimento ineguale, irregolare e multiforme”. Questa sua intima natura fa sì che la vita appaia come irriducibile ad un carattere che è, invece, proprio del diritto: il dover essere eguale, regolare, uniforme. Da qui, da questo antico ed ineliminabile conflitto, nascono le difficoltà che registriamo oggi, ancor più che nel passato, perché l’innovazione scientifica ed il progresso tecnologico hanno fatto progressivamente venir meno le barriere che le leggi naturali ponevano alla scelta di nascere o di morire (si pensi, per esempio, con riferimento alla vita, alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, fino alla possibile clonazione, ovvero, con riferimento alla morte, ai sofisticati macchinari che possono prolungare l’esistenza di chi, appena l’altro ieri, sarebbe stato considerato inesorabilmente morto).
Ecco allora che – secondo taluni – la strumentazione giuridica, costruita in un altro clima e per altri obiettivi (il nostro codice civile del 1942, quello penale addirittura del 1930) dovrebbe essere profondamente rimeditata, così da disciplinare compiutamente situazioni “nuove” ed impedire, in tal modo, che la decisione resti affidata pressoché alla discrezionalità del Giudice. Ciò che, in parte è stato fatto con la legge n. 219/17 (Norme sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento), volgarmente conosciuta come legge sul testamento biologico. Una legge che si salda con la tematica, articolata e complessa, dell’eutanasia, ma che, enunciando quale suo scopo dichiarato quello di tutelare il diritto “alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione” della persona (art. 1, comma 1°), omette di affrontare ex professo alcuni degli aspetti propri dell’eutanasia pietosa consensuale, sia attiva che passiva.
Va detto, peraltro, a proposito della enunciazione di principio contenuta nella legge n. 219/17, che il diritto alla vita e alla salute sono garantiti dalla Costituzione, dalla Convenzione EDU e dalla Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea; il diritto alla “dignità” è enucleabile agevolmente da diverse disposizioni della Costituzione (la quale, se vogliamo, è un inno alla dignità umana: artt. 2, 3, 36, 41, solo per citarne alcuni) ed è contenuto nell’art. 1 della Carta dei diritti dell’Unione europea; il diritto all’autodeterminazione non compare espressamente nelle due citate Corte fondamentali ma, anch’esso è agevolmente enucleabile dai diritti di libertà contenuti nella nostra Costituzione.
Con specifico riferimento alla “dignità” e, segnatamente, al diritto a “morire con dignità” esiste poi – e merita di essere sottolineata – un’ampia giurisprudenza della Corte E.D.U., la quale ha riconosciuto il diritto della persona di decidere come e quando morire, individuando la sua sedes materiae nell’art. 8 della Convenzione. Si segnalano, sul punto, numerose pronunce, a cominciare dalla sentenza Pretty/Regno Unito del 29.4.02, con cui la Corte di Strasburgo ebbe ad enunciare per la prima volta il diritto di ciascuno di autodeterminarsi sulla base del disposto di cui all’art. 8 della Convenzione, affermando la sacralità del diritto alla vita, ma ribadendone la relatività, perché la sua ipotizzata assolutezza sarebbe di ostacolo al bilanciamento con altri diritti del pari fondamentali.
A questa, altre ne sono seguite: la Sentenza Haas/Svizzera del 20.1.11, grosso modo analoga alla Sentenza Pretty; la sentenza Lambert/Francia del 5.6.15 che ha ritenuto legittima l’interruzione o il rifiuto di trattamenti sanitari vitali, enunciando il ruolo primario della volontà individuale, qualunque sia la modalità, espressa o tacita, con cui questa è manifestata; la sentenza 27.6.17 nel caso Gand/Regno Unitoche ha autorizzato la sospensione di cure vitali somministrate ad un minore di 10 mesi, facendo appello alla garanzia di una morte dignitosa dello stesso, malgrado, addirittura, la volontà contraria dei genitori. Una storia analoga a quella della piccola Indi Gregory, affetta da gravissima ed inguaribile malattia e per la quale i giudici inglesi, lo scorso mese di novembre, per evitarle ulteriori sofferenze, avevano disposto il distacco dai macchinari che la tenevano in vita.
La legge n. 219/17 sul “testamento biologico”, al di là delle forti contrapposizioni che si sono registrate all’indomani della sua promulgazione, stando all’interpretazione prevalente, ha lasciato insoluto il problema dell’eutanasia pietosa consensuale. Com’è noto si definisce eutanasia pietosa quella posta in essere, appunto, per un sentimento di pietà nei confronti del particolare stato in cui versa la vittima, ha carattere strettamente individuale e può essere consensuale e non consensuale a seconda che il soggetto abbia espresso o meno specifica richiesta in merito. Essa abbraccia l’eutanasia pietosa passiva (detta anche para-eutanasia), che consiste nella mera omissione o interruzione del trattamento terapeutico, e l’eutanasia pietosa attiva, che consiste nel cagionare la morte del paziente mediante, appunto, un comportamento attivo.
Per esperienza storica acquisita l’ambito dell’eutanasia pietosa, negli ultimi decenni, ha subito i diversi Paesi europei una continua dilatazione, per cui, dalle originarie ipotesi della morte naturale resa indolore da sostanze antidolorifiche atte a lenire le sofferenze del paziente, si è passati all’eutanasia passiva nei casi di inefficacia delle cure rispetto ad un paziente incurabile ed in stato terminale, infine all’eutanasia attiva, non solo nei confronti di persona affetta da male incurabile e prossima alla morte, ma anche di persona colpita da malattia inguaribile, pur non presentandosi la morte a breve scadenza (si pensi al caso di Lucio Magri, per lunghi anni parlamentare, che nel novembre 2011, depresso per la morte della moglie – e forse per una sua grave patologia – si recò in Svizzera dove chiese ad un medico di aiutarlo a morire).
Tuttavia nel nostro sistema penale, governato da un codice del 1930, tale forma di eutanasia è da considerarsi illecita, poiché contrasta col principio della tutela della vita e supera i limiti della disponibilità del proprio corpo attraverso il consenso. Essa può integrare, infatti, l’ipotesi di cui all’art. 579 c.p. denominata “omicidio del consenziente”, ovvero quella di cui all’art. 580 (istigazione o aiuto al suicidio). Si ritiene, infatti, che un ordinamento personalistico come quello delineato dal nostro codice penale, pur non potendo prescindere dal principio del consenso del soggetto, collocato al centro dell’attività medico-chirurgica, quale scelta ideologica di fondo sul modo di concepire il rapporto medico-paziente, tuttavia non consente che il consenso possa tradursi in una sorta di utilitarismo individualistico-edonistico e rendere lecito un intervento reputato comunque illecito, in quanto supera i limiti della salvaguardia della vita, della salute e dell’integrità fisica.. E ciò a prescindere dal movente altruistico della compassione, dalla situazione di insopportabilità delle sofferenze fisiche del malato per la constatata impotenza dei mezzi antidolorifici, dall’imminenza della morte.
Peraltro, il particolare rigore sanzionatorio della disciplina penale spiega la tendenza dei giudici, proprio per evitare sanzioni eccessive, a disapplicare talvolta in parte la legge, ravvisando consensi validi, ignorando aggravanti, rinvenendo circostanze attenuanti, immaginando situazioni di parziale infermità mentale, o escogitando soluzioni giuridiche piuttosto singolari (come accaduto anni fa in un caso deciso dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano).
Il già ricordato principio personalistico rileva ancor più con riferimento all’eutanasia passiva non consensuale, in quanto, avendo il paziente espresso la volontà di essere curato o non avendo espresso una volontà in senso contrario, permane l’obbligo giuridico del medico di continuare il trattamento, anche se la malattia è incurabile, la morte imminente ed il trattamento può solo dilazionare e per breve periodo l’esito finale. Sul punto, tuttavia, deve registrarsi un dibattito, sempre più acceso fra gli scienziati e gli economisti, su una domanda – se vogliamo brutale e che ferisce la nostra sensibilità etica – ma che sempre più frequentemente viene posta: è possibile che le cure per i malati terminali vengano influenzate da considerazioni di spesa?
In altri termini: i vincoli di bilancio che, soprattutto in tempi di crisi come l’attuale, costringono gli Stati a confrontarsi addirittura con ipotesi di default (fallimento) sino a ieri impensabili, possono arrivare sino al punto da intaccare quello che fino ad oggi è considerato un diritto inviolabile, ossia il diritto alla salute? Il problema, per fortuna, non riguarda l’Italia, ma è stato posto negli USA, dove le cure per i malati terminali pesano enormemente sulla spesa sanitaria che assorbe il 17 % del PIL e dove la salute tende ad essere considerata più come una specie di responsabilità individuale che come diritto. Sul New York Times, David Brooks, intellettuale della destra moderata, anni fa ha scritto senza mezzi termini: “Il baratro economico nel quale siamo caduti dipende da molti fattori, ma fra questi c’è anche la nostra incapacità di confrontarci col problema della fine dell’esistenza”. La vita è sacra – scrive Brooks – ma “ha senso spingere il Paese verso la bancarotta per allungarla solo di un soffio?”. Problemi analoghi sono stati posti anche da 37 oncologi inglesi, secondo i quali le cure anticancro prestate ai malati terminali nelle ultime settimane di vita hanno costi spaventosi e spesso sono contrarie alla stessa volontà dei pazienti o dei familiari, sicché andrebbero interrotte, per evitare di incorrere in “una crisi inimmaginabile”.
Diverso il caso dell’eutanasia passiva consensuale o volontaria, per la quale il problema giuridico va risolto in base ai principi operanti in materia di omissione. Pertanto, ai sensi dell’art. 40, comma 2°, c.p., sussiste responsabilità del medico se ed in quanto sussista per il medesimo l’obbligo giuridico di praticare o continuare le cure. Detta così sembra una questione di facile soluzione, mentre così non è. perché proprio su questo punto si innescano le problematiche più complesse e più eticamente sensibili. Per esempio: quando l’intervento del medico è doveroso e quando, invece, si realizza l’ipotesi del c.d. accanimento terapeutico? Ed ancora: esiste per il paziente un diritto di rifiutare le cure, con la conseguenza che quella che viene definita eutanasia passiva consensuale sia considerata lecita non in base ad un potere del medico di lasciar morire, ma in base ad un diritto del soggetto di non curarsi e di lasciarsi morire?
Sul problema dell’accanimento terapeutico sembrerebbe esserci accordo, in linea teorica, fra laici e cattolici, nel senso che tale accanimento andrebbe evitato. Non così, invece, quando ci si accinge a dare un contenuto alla espressione “accanimento terapeutico”. Perché, poi, la necessità, da tutti avvertita, di evitarlo si salda col secondo dei problemi evidenziati, ossia col diritto del paziente di rifiutare le cure e, dunque, di lasciarsi morire. In particolare: rientrano nel concetto di “accanimento terapeutico” oltre alle normali manovre rianimatorie, anche quei trattamenti che qualcuno definisce come “minimali”, perché destinati a mantenere in vita la persona, come, per esempio alimentazione a mezzo di sondino naso-gastrico, ventilazione forzata, idratazione, trasfusioni di sangue, ecc.? E come si atteggia, rispetto ad essi la volontà del paziente?
Secondo la posizione “cattolica” questi trattamenti (soprattutto alimentazione, idratazione e ventilazione) sarebbero fuori dal concetto di accanimento terapeutico ed il paziente non avrebbe il diritto di rifiutarli, perché interromperne la somministrazione significherebbe, in pratica, voler porre fine ai giorni del paziente.
Secondo la posizione “laica”, invece, sussiste il diritto del paziente di rifiutare, in modo consapevole, libero e informato, di sottoporsi a terapie mediche, soprattutto se invasive, comprese alimentazione, idratazione e ventilazione forzate. Una legge che prevedesse il contrario sarebbe, per i “laici”, in contrasto con i principi Costituzionali e di diritto internazionale, primi fra tutti quello della Convenzione E.D.U. e della c.d. “Convenzione di Oviedo” del Consiglio d’Europa del 1997 (tuttora non ratificata dallo Stato italiano, la quale, all’art. 9 prescrive, appunto, che quando le persone abbiano previamente espresso i loro desideri, tali desideri debbono essere tenuti in considerazione).
Sul punto, tuttavia, vanno richiamate, ancora una volta, importanti sentenze, che hanno stabilito dei principi di diritto, poi, in qualche misura rifluiti nella già richiamata legge n. 219/17.
Qualcuno ricorderà il caso Englaro.
Eluana Englaro era una giovane donna rimasta in stato vegetativo persistente per oltre 17 anni, a causa di un sinistro stradale. Il padre, tutore della figlia, intraprese una battaglia giudiziaria per interrompere tale vita vegetativa, in attuazione della volontà della donna, che aveva sempre espresso la sua contrarietà a situazioni di questo genere. Ne derivò un iter giudiziario snodatosi per circa dieci anni, attraverso dieci differenti giudizi, che si concluse con la Sentenza della Cassazione 16.10.07, n. 21748, in cui la Suprema Corte, profondamente innovando il nostro diritto vivente, in accoglimento del ricorso, ebbe a fissare i seguenti punti fermi:
- “In situazioni, ove sono in gioco il diritto alla salute o il diritto alla vita, o più in generale, assume rilievo critico il rapporto tra medico e paziente, il fondamento di ogni soluzione giuridica transita attraverso il riconoscimento di una regola, presidiata da norme di rango costituzionale (in particolare gli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost.), che colloca al primo posto la libertà di autodeterminazione terapeutica”;
- Pertanto, “è la prestazione del consenso informato del malato, il quale ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità o modalità di erogazione del trattamento medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla in tutte le fasi della vita, e anche in quella terminale, a costituire, di norma, fattore di legittimazione e fondamento del trattamento sanitario”;
- “Il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione terapeutica non può essere negato nemmeno nel caso in cui il soggetto adulto non sia più in grado di manifestare la propria volontà a causa del suo stato di totale incapacità”, con la conseguenza che, in tal caso, “al posto dell’incapace è autorizzato ad esprimere tale scelta il suo legale rappresentante (tutore o amministratore di sostegno), che potrà chiedere anche l’interruzione dei trattamenti, che tengano artificialmente in vita il rappresentato”;
- “Tuttavia, questo potere-dovere, che fa capo al rappresentante legale dell’incapace, non è incondizionato, ma soffre di limiti connaturati al fatto che la salute è un diritto personalissimo di chiunque, anche dell’incapace, e che la libertà di rifiutare le cure presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive, che per ciò stesso devono essere pur sempre riferibili al soggetto-malato, anche se incapace”; fermo restando, in ogni caso, che la scelta deve aver riguardo al “migliore interesse (best interest) del rappresentato”.
E dunque, calando nel caso concreto questi principi, la Corte statuì il seguente principio:
“Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico, che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, accertata come irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici, riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni, ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita”.
Purtroppo questa decisione, certamente difficile e sofferta, ma rispettosa dei principi Costituzionali, anche di rilievo sovranazionale, ebbe a generare (anche a causa di un bipolarismo politico esasperato), effetti devastanti, travalicando gli ambiti giuridici che le erano propri, estendendosi anche in quelli di ordine etico, filosofico e religioso e producendo non una discussione pacata, ma una diatriba particolarmente accesa se non violenta, conclusasi con la presentazione di un disegno di legge che, se approvato, avrebbe prodotto una legge con ogni probabilità incostituzionale, posto che, all’art. 3, con riferimento al contenuto e ai limiti della dichiarazione, si escludeva che alimentazione e idratazione forzate potessero costituire oggetto di Dichiarazione Anticipata di Trattamento in quanto le stesse non sarebbero “terapie mediche” ma “forme di sostegno vitale”.
Per fortuna, calmatisi gli animi, nel 2017 venne approvata la legge n. 219 sul testamento biologico che, come detto, ha ripreso molti dei principi fissati nella Sentenza Englaro.
È rimasto, tuttavia, il gap normativo con riferimento all’ipotesi di eutanasia consensuale attiva. Anche qui va richiamato un altro caso giudiziario che ha destato molto scalpore: il “caso Cappato”, dal nome di Marco Cappato, esponente del Partito Radicale e segretario dell’Associazione Luca Coscioni, imputato del delitto di istigazione al suicidio, per avere accompagnato in Svizzera Fabiano Antoniani – meglio noto con lo pseudonimo di Dj Fabo – ove questi, costretto da un incidente ad una forma di vita vegetale, aveva chiesto di essere aiutato a porre fine ai suoi giorni.
È proprio in riferimento a tale vicenda che la Corte Costituzionale, sollecitata dalla Corte d’Assise di Milano, ha emesso la sentenza n. 242/19, con la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., che punisce il delitto di aiuto al suicidio, “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione – agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile…”.
In conseguenza di tale pronuncia la Corte d’Assise di Milano ha, poi, assolto Marco Cappato dall’imputazione ascrittagli per insussistenza del fatto.
Nel giudizio di costituzionalità definito dalla sentenza in parola, la Consulta ha anche adottato una iniziativa senza precedenti: quella di sospendere il giudizio e dare un anno di tempo al parlamento per legiferare in materia. Inutile dire che tale termine è scaduto inutilmente, dal momento che solo la Camera – a tardivamente – è riuscita ad approvare una modifica della normativa sul c.d. testamento biologico, ricomprendendovi situazioni quale quella di DJ Fabo e, dunque, escludendo la punibilità del medico o di altri correi nell’ipotesi di morte volontaria medicalmente assistita.
Ne è riprova il caso di Elena (il cognome non è noto), malata terminale di cancro, che nel mese di Agosto 2022, è stata costretta a recarsi in Svizzera per porre fine alle sue sofferenze. Commovente il suo ultimo messaggio, videoregistrato, col quale la donna, nel congedarsi dal mondo, ha espresso il suo dolore per essere stata costretta a morire da sola, in una clinica, e non a casa sua: “Ero a un bivio: tra l’inferno e la Svizzera ho scelto Basilea. Certo avrei preferito porre fine alla vita nel mio letto, con accanto i miei familiari, e non sola”.
Tuttavia, qualcosa sembra stia cambiando anche in Italia. Il 12 Dicembre 2023, per la prima volta, una donna ha potuto ricorrere al suicidio assistito, nella propria casa ed a cura della ASL competente. In assenza di una normativa specifica, Anna (nome di fantasia) ha fatto ricorso al Giudice civile chiedendo che con provvedimento d’urgenza, verificata la sussistenza di tutte le condizioni indicate nella già citata Sentenza della Corte Costituzionale, ordinasse alla ASL ad applicare tale sentenza ed a venire incontro al desiderio manifestato dalla signora (gravemente affetta da sclerosi ultima ed in condizioni di vita ormai ritenute intollerabili). Così è avvenuto e per effetto di tale provvedimento l’ASL ha messo a disposizione della signora Anna il macchinario ed il farmaco necessari, consentendo alla signora, con le poche forze che le erano rimaste, di premere il pulsante che le ha tolto la vita. Prima di morire ha lasciato questo messaggio: “Ho amato la vita con tutta me stessa, i miei cari e con la stessa intensità ho resistito in un corpo non più mio. Ho però deciso di porre fine alle sofferenze che provo perché ormai sono davvero intollerabili. Ringrazio chi mi ha aiutata… Ora sono finalmente libera…”.
Ancora una volta, tuttavia, di fronte ad un Legislatore inadempiente, è toccato ad un giudice intervenire per garantire un diritto, espressione del più ampio principio di libertà contenuto in Costituzione e riconosciuto dalla Consulta con la sentenza n. 242/19.
Appare, pertanto, necessaria, una volta di più, una legge che definisca non solo gli obblighi del medico e della struttura sanitaria nella delicatissima fase dell’aiuto a morire, ma anche preveda, al contempo, la possibilità per il medico del ricorso all’obiezione di coscienza. E deve trattarsi di una legge nazionale, così da evitare una normativa “arcobaleno” fra le varie regioni italiane.
Tutte queste vicende dimostrano, in conclusione, che il diritto alla vita non può esaurirsi nella mera tutela della vita biologica, sino al punto, estremo, da snaturarsi in una sorta di “dovere” di vivere. Perché può accadere – come scriveva Leonardo Sciascia nel suo romanzo “Una storia semplice” – che “ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza”. Ed in tal caso, quando la persona è “priva di morte ed orfana di vita”, secondo la nostra Costituzione e le Carte fondamentali Europee, spetta solo a lei la decisione estrema.
Roberto Tanisi – Già presidente del Tribunale di Lecce e della Corte d’Appello