“L’ora che stiamo vivendo non consente indugi”

Diamo inizio, con questo dotto e analitico articolo d’ inquadramento, firmato dai Pietro Di Muccio de Quattro, a una serie di articoli e interviste sull’Europa, in vista delle elezioni che si terranno quest’anno. Sull’Europa sognata dai grandi europeisti, sull’Europa attuale, sulle sue criticità, sulle riforme necessarie, sulle nuove prospettive e sui nuovi orizzonti, in termini di ruolo più attivo nel contesto geopolitico mondiale

Allocuzione per gli Stati Uniti d’Europa

Gaetano Martino pronunciò, agli albori dell’unificazione europea, un potente discorso che, tuttavia, non viene ricordato quanto merita nella storia dell’europeismo (stessa sorte per il pensiero federalista di Luigi Einaudi, autentico antesignano degli Stati Uniti d’Europa).  La sua Allocuzione per l’elezione a presidente dell’Assemblea parlamentare europea, rivolta il 27 marzo 1962 ai rappresentanti delle tre Comunità europee che formarono l’embrione del Parlamento europeo, poi composto dai delegati dei Parlamenti nazionali ed infine elettivo, costituisce tuttora l’eloquente, magnifica, perorazione degli Stati Uniti d’Europa.

 

 

 

Abbiamo scelto come titolo l’incipit dell’Allocuzione non solo per il tratto profetico, la perdurante attualità, la vibrante esortazione, ma anche per onorare la memoria del grande europeista e dell’opera sua: “L’ora che stiamo vivendo non consente indugi; è l’ora delle decisioni. Essa riporta alla mente un’altra ora della storia, che fu il preludio del primo esperimento di una comunità politica di popoli desiderosi di unirsi per collaborare, nella concordia, ad opere di civile progresso. L’esperimento si svolse sul grande, libero suolo d’America e merita di essere da noi ricordato, non solo perché diede origine ad una delle più perfette e concrete costruzioni politiche di tutti i tempi, ma perché fu quella la prima volta in cui l’Europa riuscì ad unificarsi, sia pure su un territorio diverso e lontano dal proprio. Quale sarà la scelta dell’Europa? Dobbiamo credere che dopo millenni di slancio creativo, che l’hanno resa fucina spirituale dell’umanità e “memoria del mondo”, l’Europa rifiuti di scegliere il nuovo tempo? Dobbiamo credere che l’Europa, maestra di saggezza, chiuda gli occhi dinanzi alla presente realtà del cosmo politico, in cui solo alle grandi formazioni continentali si offrono le più ampie possibilità di vita e di sviluppo? Noi abbiamo fede nella risposta dell’Europa.”

Nello spirito della Conferenza di Messina (1955) e dei Trattati di Roma (1957) le istituzioni sovranazionali europee furono il seme da coltivare e sviluppare. Gli uomini che le concepirono e realizzarono avevano capito per primi che l’Europa non era più il centro della Terra. Il cuore del mondo batteva altrove. Se non trovassimo altri meriti, che invece esistono, per giudicare grande e nobile la passione dei più illustri europeisti, basterebbe questo solo a farceli amare e ricordare per sempre: quanto più percepirono che le principali correnti della vita, in ogni senso, abbandonavano l’Europa, tanto più fermamente credettero che agli Europei fosse concesso di salvarsi solo stringendosi intorno alla stessa essenziale identità ed alla comune millenaria civiltà. Le istituzioni europee comunitarie, via via ampliate e consolidate, furono il prodotto del moto centripeto verso l’unione che politici lungimiranti impressero ai popoli europei.

L’economia

Sotto il regno dell’euro, per un ventennio, l’Italia ha goduto di saggi d’interesse e d’inflazione mai registrati in passato. Ebbene, questa stabilità monetaria ideale, forse irripetibile, è stata sfruttata per il bene della nazione? La risposta è no, incontrovertibilmente. Infatti, nel 2002 il debito pubblico era 1368 miliardi di euro; nel 2023 il debito è salito a circa 2900 miliardi, il più alto della storia. Nel 2002 il rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo era 105%; nel 2023 il rapporto debito/Pil ha raggiunto circa il 140%. La classe dirigente della nazione ha dunque illuso gl’Italiani (che per parte loro desideravano essere illusi: vulgus vult decipi, ergo decipiatur! ai quali ha fatto credere che con l’euro avremmo miracolosamente risolto i nostri più gravi problemi senza dover soffrire per realizzare le profonde riforme strutturali invece comunque indispensabili. E le aspettiamo ancora, coltivando la speranza che la manna del Pnrr ne sazi l’annoso bisogno.

Non mancano parlamentari, appartenenti a differenti partiti, che persistono nell’altra illusione secondo cui la virtù finanziaria dell’Italia verrebbe ripristinata abbandonando l’euro e tornando alle svalutazioni competitive. Sicché l’euro, da àncora di salvezza che era quando lo abbracciammo entusiasti pagando pure una specifica imposta, sarebbe diventato con la crisi degli ultimi anni la màcina al collo che ci farebbe affogare. Domandiamoci in sincerità: perché nel 2012 abbiamo firmato il fiscal compact (il patto di bilancio!) con 24 Stati europei e modificato l’articolo 81 della nostra Costituzione (la Costituzione!) al fine di limitare drasticamente il ricorso all’indebitamento e assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese?

Non firmammo un trattato ed emendammo la Carta perché pensavamo di sbagliare, ma, seppure drammaticamente costretti, nella convinzione di far bene. Ne siamo pentiti? Sconfessiamo il malfatto. Ne siamo tuttora convinti? Rispettiamo il benfatto. Invece non facciamo né l’una cosa né l’altra, ma chiamiamo “austerità” la percentuale del deficit e del debito sul Pil inferiore alla percentuale desiderata, mentendo a noi stessi che questa percentuale sia indispensabile a conseguire la “crescita” necessaria per ridurre il debito. Accondiscendenza finanziaria, fiscalità occulta, manovra accomodante, quantitative easing, helicopter money, alti tassi d’interesse, tassi d’interesse a zero o perfino negativi sono sinonimi del medesimo fenomeno: interventi dell’autorità pubblica che, per il solo fatto di averne il potere, li presume salvifici a dispetto delle leggi immanenti dell’economia.

Tuttavia il potere politico, esercitato da esseri umani, le leggi economiche può forzarle e derogarle, giammai rimpiazzarle con altre funzionanti. Quelle politiche hanno significato, nella realtà effettuale, una categoria di interventi che, dichiarati e assunti singolarmente come straordinari, eccezionali, non convenzionaliuna tantum, hanno prodotto un’ordinaria catena ininterrotta di pseudo rimedi ai mali originati dalle pretenziose terapie somministrate per riparare i precedenti guasti causati a loro volta da passati governanti similmente benintenzionati. La materia prima della ricchezza nazionale non è la “moneta”, ma l’attività umana in competizione. Le istituzioni e i governi dell’Unione Europea operano ciclicamente come se ne fossero inconsapevoli. Inseguono le contingenze nella continua incertezza. Zigzag, saliscendi, yo-yo impressi all’economia come un gioco mutevole.

Se l’aver accumulato l’imponente debito pubblico ci ha ridotto nelle condizioni attuali, perché mai accollarci altri debiti dovrebbe trarcene fuori? Non l’uomo della strada, ma i governanti ardiscono di proporre (e fanno accettare!) più debito pubblico nella supposizione di compensare una riduzione dei tributi senza ridurre le spese. Se un persistente deficit di bilancio ed un crescente debito pubblico costituissero il segreto di una rapida crescita, l’Italia sarebbe la campionessa economica dell’Europa. Invece arranca in fondo alla classifica, nonostante la munificenza e la benevolenza dell’Ue, manifestatesi nell’acquistare il nostro debito, nel concederci altro credito, nel finanziarci a fondo perduto, sempre confidando nella nostra volontà di ripresa, nella nostra forza di resistenza, nella nostra capacità di resilienza e, soprattutto, nella nostra resipiscenza. Invece riluttiamo a rinsavire e ravvederci.

La verità è dunque incontrovertibile: fummo viziosi senza l’euro, siamo stati viziosi con l’euro. Perciò, invece di attribuire alla moneta difetti e qualità che non può avere di per sé, dovremmo ripudiare le cattive idee di politica economica che la governano e amministrare la finanza pubblica avvertiti della “alternativa di Hume”, il nostro Maestro di libertà, secondo cui “o la nazione distrugge il debito pubblico o il debito pubblico distrugge la nazione.”

La clausola della libertà preferita

L’Unione Europea permane incompiuta, in bilico tra implosione e federazione. Il tentativo di dotarsi di una vera Costituzione è abortito nel 2005 per il rifiuto di alcuni popoli di ratificare il Trattato costituzionale. Dare una Costituzione a tante e così diverse nazioni mediante un trattato formulato da una “Convenzione europea” di delegati a vario titolo anziché da un’assemblea costituente elettiva, è stato un grave errore di metodo e di merito. Il testo costituzionale, rimasto lettera morta, consta di 448 articoli, prolissi e confusi!

La nostra, che pure è catalogata tra le Costituzioni “lunghe”, ne ha 139. Quella americana ha 7 Articoli, sebbene con più Sezioni, e 25 Emendamenti (in realtà 27 perché l’emendamento sulla proibizione degli alcolici fu prima introdotto e poi abrogato), in genere di poche righe. Ai 448 articoli del Trattato costituzionale, la “Costituzione europea”, avremmo dovuto aggiungere i 54 articoli della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata solennemente nel vertice di Nizza del dicembre 2000, ma di dubbio valore giuridico vincolante che consenta ai cittadini europei di avvalersene direttamente in giudizio. Un castello di carta e di Carte.

Esistono tuttavia in Europa una sfera di libertà individuale e un numero di diritti personali che devono essere salvaguardati e tramandati. Purtroppo sono distribuiti in ordinamenti disomogenei difficili da integrare a causa di incompatibilità giuridiche e differenti tradizioni nazionali. Una Carta costituzionale del tipo tentato può rivelarsi inidonea allo scopo, mentre bisogna configurarne un nucleo come “Costituzione aperta”, capace di accrescere e rafforzare la libertà in tutti i suoi potenziali sviluppi, mantenendola al riparo del Legislativo e dell’Esecutivo mediante un ben definito “regolamento di confini”, che dovrebbe essere l’oggetto principale di una Costituzione vera e propria.

Dovremmo mirare a una disposizione costituzionale che inglobi automaticamente e dinamicamente il meglio che ciascuna nazione acquisisce come diritti, in grazia della libertà goduta dai suoi cittadini. Per ottenere questo straordinario risultato non serve una lunga Carta, forse controproducente. Basterebbe una disposizione, immediatamente azionabile in giudizio, che scateni la concorrenza tra leggi, istituti, soggetti, determinando la progressiva espansione della sfera protetta della libertà, e dei diritti conseguenti.

Per sintetizzarne il principale carattere, l’abbiamo definita “Clausola della libertà preferita”, così abbozzata: “Ogni cittadino di uno Stato dell’Unione Europea potrà invocare davanti a un giudice, senza restrizioni, nel proprio Stato e nei rimanenti Stati, i diritti più favorevoli riconosciuti da ciascun altro Stato ai suoi cittadini, nella stessa o analoga fattispecie.” La clausola dovrebbe essere inserita nelle Costituzioni degli Stati membri o da essi ratificata come trattato.

Quando, circa trent’anni fa, proponemmo questa “Clausola”, ne potevamo presagire gli embrionali svolgimenti giuridici effettivamente verificatisi solo in anni recenti nell’esperienza dei sistemi legali europei. Un fenomeno al quale è stato assegnato il nome, alquanto commerciale ma evocativo, di “turismo giudiziario” perché, con riguardo a poche particolari controversie, gli attori cercano d’incardinare la causa nel Paese comunitario dove esistono maggiori potenzialità e appare più facile ottenere ragione. D’altra parte, se l’Unione Europea è destinata a durare e perfezionarsi, la spinta ad uniformare parti crescenti delle legislazioni nazionali diventerà viepiù incoercibile per effetto del principio fondante della democrazia che solo il sistema libero soddisfa e che i Greci chiamarono “isonomia”, la quale racchiudeva tre significati coessenziali: stessa legge, stessa uguaglianza, stessa giustizia. A chi la nostra proposta sembrasse oggi oltranzistica, opporremmo la massima di Barry Goldwater nel discorso di accettazione della candidatura a presidente degli Stati Uniti nel 1964: “L’estremismo in difesa della libertà non è un vizio. La moderazione nella ricerca della giustizia non è una virtù.”

La politica

Francois de La Rochefoucauld affermò: “Chi si applica troppo alle piccole cose, di solito diventa incapace delle grandi”. Questa massima è molto giusta, parlando in generale degli uomini comuni. Ma può essere applicata all’Europa, ai suoi popoli e alle sue istituzioni? Qualcuno risponderebbe ch’è troppo ingenerosa; qualcun altro che è veritiera. Resta il fatto che un pericolo reale incombe sull’Europa. Il vero pericolo, brutalmente esposto, è l’assuefazione all’andazzo da intendenza, a considerare solo la borsa della spesa; l’abitudine al piccolo e al ristretto, quando non addirittura alla piccineria ed alla grettezza; l’inclinazione psicologica, che diventa politica governativa, a salvare il salvabile procedendo a piccoli passi.

L’Unione Europea può essere riguardata come una grande impresa politica, specie se consideriamo il punto di partenza: un’Europa devastata dalla follia del nazismo, del fascismo e del comunismo dietro la “cortina di ferro” (sistemi, non bisogna mai dimenticarlo, prodotti Doc del Vecchio Continente). Tuttavia l’Ue è percepita meno grande o addirittura piccola da popolazioni frustrate soprattutto dal non riuscire a scorgere il punto focale, il Dio in cui credere. Prosaicamente, sembra aver perso l’incanto originario. L’Unione mostra di essere angustiata, dietro il velo dell’ottimismo di maniera, da quel malessere politico che è stato suggestivamente definito “deficit democratico del sistema comunitario”.

L’Europa si chiama unione, ma resta una strana confederazione, non essendo diventata una vera federazione: questa è uno Stato il cui popolo e il cui territorio sono allo stesso tempo popolo e territorio degli Stati membri, i quali sono sottoposti, al pari degli individui, all’autorità federale; quella, invece, è un’unione di più Stati che non perdono la personalità internazionale, regolano i loro rapporti sulla base del diritto internazionale generale e del diritto internazionale particolare, che nasce da accordi per soddisfare interessi comuni anche mediante organi ad hoc.

Sebbene la parola federalismo (dal latino “foedus”, cioè “patto”) si basi sull’identico principio “unità nella diversità” ovvero “unità senza uniformità”, dà luogo dunque, in teoria e in pratica, a due specie di unioni di Stati. Nel 1848 la Confederazione svizzera si trasformò in Stato federale. Gli Stati Uniti d’America, costituitisi in confederazione nel 1778, pochi anni dopo, nel 1787, diventarono anch’essi uno Stato federale.  Ciò che l’Ue deve volere, adesso, è appunto la federazione: gli Stati Uniti d’Europa. L’unificazione federale dell’Europa è urgente, vantaggiosa, indispensabile. Ma per realizzarla dobbiamo abbandonare il vecchio modo di procedere, farla finita con il passato. Se già dall’inizio, da Messina in poi, non vollero “mettere il carro dell’unificazione politica davanti ai buoi dell’unione economica”, come disse Gaetano Martino nel 1957, bisogna riconoscere che quel traino, per quanto perfezionabile, è superato nei fatti e non basta più all’Europa. I tempi esigono ben altro.

Alla fine della guerra l’Europa si risollevò economicamente, ma dovette constatare che non era più la fucina della politica mondiale. Umiliata, non più soggetto ma oggetto della politica internazionale. Oggi, grande potenza economica, non può parlare da pari a pari con le potenze e superpotenze politiche, perché non ha una sola voce, come sarcasticamente notava Harry Kissinger: Quando voglio parlare con l’ Europa non so mai chi chiamare.”

Dobbiamo dunque cercare nella Storia esempi capaci di aiutarci a superare gli ostacoli formidabili che a simili imprese sempre frappongono contrastanti forze d’ogni genere. L’esperienza americana indica la strada giusta. Anch’essa mostra, quando l’Unione statunitense stava per compiersi, l’agricoltura, il commercio, l’industria in lotta per far valere interessi legittimi; i piccoli timorosi di difendersi dai grandi; gli attivi spingersi per farsi largo tra i pigri; il nuovo cercare di soppiantare il vecchio; la velocità scuotere la lentezza. Anch’essa rivela urti, contrasti, colpi e contraccolpi che accompagnarono la nascita della federazione. Tuttavia, recita il Preambolo della Costituzione americana, “Noi, popolo degli Stati Uniti, allo scopo di ancor più perfezionare la nostra Unione, di garantire la giustizia, di assicurare la tranquillità all’interno, di provvedere alla comune difesa, di promuovere il benessere generale e di salvaguardare per noi stessi e per i nostri posteri il dono della libertà, decretiamo e stabiliamo questa Costituzione degli Stati Uniti d’America”. L’Unione federale prevalse. Vinsero le ragioni della federazione contro quelle della confederazione: solide, inconfutabili, tangibili.

Nel classico commentario della Costituzione americana, Edward Corwin ha scritto: “Il Preambolo, a stretto rigore, non è una parte della Costituzione, ma una premessa. Considerato isolatamente non offre alcuna base per rivendicare né poteri (attribuzioni) dello Stato né diritti individuali. Non di meno serve a due importanti scopi: in primo luogo, indica la fonte dalla quale deriva la Costituzione, e quindi l’obbligo di obbedienza ai suoi disposti, fonte che è il Popolo degli Stati Uniti; in secondo luogo indica gli obbiettivi che la Costituzione e lo Stato, i quali le norme costituzionali hanno instaurato, si presume perseguano: l’unità nazionale, la giustizia, la pace all’interno ed all’estero, la libertà e il benessere nazionale.”

Il Preambolo e il commento di Corwin dovrebbero convincere anche i federalisti scettici o tiepidi che “lo scopo di ancor più perfezionare la nostra Unione” non può essere ormai conseguito seguendo la strada del confederalismo abborracciato e del federalismo balbettato, lungo la quale arranca un’Europa confusa, stanca, irresoluta. Ogni giorno dimostra che questa strada non conduce, non può condurre, ad alcun perfezionamento dell’Ue.

Una federazione vera e propria, pertanto, deve essere l’oggetto specifico ed unico di un’assemblea costituente (eletta direttamente o formata dagli eletti dai parlamenti nazionali) da convocare al più presto per fondare gli Stati Uniti d’Europa. Chi ci sta, ci sta. Se la cosiddetta “Europa a geometria variabile” fosse un prezzo da pagare per federare l’Europa, sarebbe un ben misero prezzo rispetto all’acquisto! Per cominciare, tre o quattro nazioni federate in Europa (non sembra che il diritto europeo lo vieti ai membri dell’Ue) sarebbero incomparabilmente più importanti degli attuali Stati integrati come sono oggi i Paesi comunitari. La qualità del legame, non il numero degli associati, è il fine a cui tendere. La decadenza politica dell’Europa non è ineluttabile. Varare gli Stati Uniti d’Europa con la prua ad Occidente: questa sarebbe la nostra ora più bella. È l’Atlantico il mare nostrum.

Dopo l’aggressione russa all’Ucraina (24 febbraio 2022) e il pogrom antiebraico perpetrato da Hamas in Israele (7 ottobre 2023)

Se la politica non sopporta il vuoto, la geopolitica ancora meno.

Che cos’è l’Europa? Una creatura brancolante che procede a tentoni alla ricerca della direzione giusta, ricavabile meno da fatti concludenti che da allusioni.

A cosa aspira? Alla compiutezza, ma senza possederne il preciso disegno. Una bella addormentata sul palcoscenico del mondo in subbuglio. Eppure ha in assoluto una posizione geografica speciale. Assieme e al pari di Israele, infatti, è l’antemurale della democrazia e della libertà, come le intende l’Occidente dopo averne sperimentato i sistemi politici distruttivi.

La Russia, bolscevica prima e oligarchica dopo, il cui ultimo dittatore Vladimir Putin ha ereditato il dispotismo asiatico sanguinario e oppressivo, non ha mai smesso di premere sull’Europa e percepisce l’America come un irreconciliabile “altro da sé”. L’Europa è vista dalla Russia come il puntello continentale, la frontiera orientale degli Stati Uniti, oltre che principale ostacolo al vecchio sogno zarista del “mare caldo”. Gli Americani rifiutarono troppo a lungo di opporsi al nazismo, lasciando solo Churchill a combatterlo. Finché, dopo il proditorio attacco giapponese, sentirono sulla carne la tenaglia dell’Asse. A fine guerra, conquistato il Giappone, se ne fecero un alleato, così come, liberata l’Europa, la legarono in un patto di mutua difesa tra liberatori e liberati.

Viene trascurato il fatto, fino ad ignorarlo, che la prima unificazione dell’Europa è stata realizzata dall’Alleanza atlantica, non dalla Ceca o dalla Cee o dall’Euratom. E lì dovrebbe riandare l’Europa, dove la portò la lungimiranza. L’affectio maritalis tra Americani ed Europa sembra raffreddata negli ultimi anni per colpa loro. Però neppure noi diamo l’impressione di voler scaldare il letto coniugale. Non dobbiamo omettere di considerare che anche un presidente americano “fedifrago” torna a casa dopo quattro anni, nella peggiore delle ipotesi.

Ogni nuova presidenza è costretta a fare i conti con la realtà, cioè questa: contenere la Russia senza Europa o con l’Europa neutrale è per gli Usa impossibile, oggi e domani. Solo un pazzo americano o un europeo illuso può immaginare un’Europa neutrale. L’Europa, quando pur confederata propriamente, sarebbe comunque l’appendice occidentale dell’apparato russo, la provincia mediterranea dell’impero moscovita, non più sovietico ma sempre dispotico.

Dunque, l’Europa o è unita in un unico Stato sovrano, come tale alleato nella Nato, oppure non è, semplicemente. Questo è il preciso interesse vitale degli Americani e degli Europei. Eppure, mentre i primi costituiscono una nazione federale prospera e forte, i secondi appartengono a Stati prosperi di una “paraconfederazione” debole e, nelle condizioni date, non possono trattare alla pari come un unico soggetto internazionale ma interessare come alleati indispensabili o utili soltanto.

La verità sottaciuta è che gli Stati e le istituzioni dell’Ue non perseguono gli Stati Uniti d’Europa. I governanti, nazionali e comunitari, sopravvivono alla giornata pure quando le ore e i giorni sono tutt’altro che rutinieri, ma pieni di sinistri presagi sulla vita e il futuro dell’Unione Europea. L’Europa, che pure lo annovera come il più grande storico dell’antichità, non ha saputo far tesoro, fino in fondo e fino ad ora, della lezione impartita da Tucidide nella “Guerra del Peloponneso”, e cioè il dialogo tra gli ambasciatori degli Ateniesi, occupanti, e dei Melii, occupati.

Questi offrivano neutralità e amicizia con la promessa di “mantenersi alleati né degli Spartani né degli Ateniesi” e facevano appello all’equità e alla giustizia con l’intento di scampare la guerra e l’asservimento; quelli invece, sprezzando le offerte e i richiami, risposero con parole immortali, risuonate poi mille volte durante i conflitti nel corso dei secoli: “Voi Melii siete a perfetta conoscenza, come sappiamo bene anche noi, che nelle cose terrene il giusto diritto è riconosciuto se i contendenti si equivalgono in potenza, mentre, al contrario, lo Stato più forte fa quello che può e lo Stato debole cede.”  Così accadde: i Melii adulti furono trucidati; donne e bambini, fatti schiavi. Parimenti oggi nel mondo, sotto i nostri occhi.

La guerra infuria ai confini dell’Europa, ancora non belligerante. Israele, attaccato, combatte per sopravvivere, ancora una volta.  Solo gli Stati Uniti d’Europa, con un presidente eletto dagli Europei, con l’imprescindibile e intrinseca politica federale della Difesa e degli Esteri, salveranno l’Europa dalle ganasce che Cina e Russia, non contrastate, stringono per costringerla a distaccarsi dall’America o per indurre l’America ad abbandonarla. Tuttavia gli Stati Uniti d’Europa non nasceranno mai se la federazione dovrà trascinarsi dietro tutti gli Stati dell’Ue che vanno pure crescendo di numero. Se la politica fosse assecondata dalla fortuna, sorgerebbero dal seno del Vecchio Continente gli statisti dotati del carisma di chiamare a raccolta i decisi a federarsi davvero. Chi ci sta, ci sta.

La Federazione degli Stati europei, istituita con i caratteri suoi propri, dovesse pure realizzarsi con quella “geometria variabile” esecrata dai titubanti che pullulano nelle loro capitali, appare la costruzione capace di modificare il corso della storia, stringendo gli Europei nel vincolo federale e ancorando la salvezza dell’Europa alla libertà, all’indipendenza, alla sicurezza, gli antidoti efficaci contro i conflitti. A Cicerone siamo infatti debitori della più bella, insuperata, definizione della vera pace, e del monito implicito: “Pax est tranquilla libertas”.

 

Pietro Di Muccio de Quattro

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