Al professor Giuseppe De Rita, presidente emerito del Censis, sociologo, studioso dei fenomeni sociali e delle tendenze della società italiana in oltre 50 anni – famosi i suoi Rapporti in cui ogni volta dava una originale e icastica chiave per capire cosa si agitava nelle profondità del Paese – chiediamo un giudizio, che gli anni ormai trascorsi da quel 1983 rendono non contingente e provvisorio. E quindi tanto più meritevole di attenzione.
Il 2023 sono trascorsi 40 anni dal governo Craxi. Professor De Rita, che cosa resta di quell’esperienza di governo durato quattro anni?
Resta la verticalizzazione del potere. Craxi era convinto che in quel periodo della storia italiana bisognasse verticalizzare il potere, la capacità e la velocità nelle decisioni.
Spieghiamolo ai giovani che al tempo del governo Craxi non erano neanche nati: in che cosa consisteva la novità del governo Craxi? Quali i suoi punti qualificanti?
La novità apparve subito: il piglio decisionale, personalizzato, la voglia di mettere la faccia sulle cose che diceva e che faceva. La cosa non era facile e ha avuto anche i suoi inconvenienti. Gli italiani non erano abituati. La DC non personalizzava mai, i democristiani non avevano il senso dell’apparire. In Craxi c’era la preoccupazione di essere a un bivio della storia sua personale e della storia politica italiana.
Molti, ricordando il governo Craxi, si fermano a Sigonella, il punto più alto di affermazione della sovranità nazionale, che suscitò l’applauso alla Camera anche dei comunisti. Oltre Sigonella, che cosa andrebbe ricordato del governo Craxi?
Un certo sovranismo c’è stato, direi a volte un certo cesarismo. Craxi aveva una certa idea dell’Italia in Europa, dell’Alleanza Atlantica, della situazione internazionale, e di un’alleanza socialista all’interno dell’Europa. Sovranismo? Direi a questo punto protagonismo. Anche, ovviamente, a livello nazionale. Ciò gli creò problemi di convivenza con l’alleata DC e con il PCI.
Della Grande Riforma, che Craxi agitò come bandiera di rinnovamento dello Stato, quali proposte conservano una validità e attualità?
La prima risposta che mi viene è: nessuna. E le spiego perché. Sento parlare da quasi 50 anni di riformare lo Stato, si è proposto tutto e il contrario di tutto: semipresidenzialismo alla francese, presidenzialismo, premier eletto dal popolo, presidente eletto dal popolo. Cosa ne è rimasto? La palude.
Ma ce ne sarà una, tra le riforme, che secondo Lei andrebbe rilanciata? Qual è?
L’unica riforma da prendere in considerazione è il cosiddetto premierato. Secondo il modello tedesco, con sfiducia costruttiva e soprattutto non eletto direttamente dal popolo. Per arrivare alla figura di una guida forte del governo che, per fare solo un esempio, se vuole cacciare un ministro rivelatosi inadeguato lo può fare. Oggi non ne ha i poteri.
Insomma un Premier Cancelliere…
Se ci pensa un momento e va con la memoria indietro nel tempo, Craxi in fondo si comportò come un Cancelliere interpretando i suoi poteri in modo decisionale al massimo, per accelerare l’azione di governo. A questo scopo fece modificare i regolamenti delle Camere, riducendo i margini del voto segreto e sterilizzando le imboscate dei franchi tiratori, però non sempre c’è riuscito.
La battaglia per la delegificazione, la polemica sul Parlamento che perdeva tempo a fare leggi sui molluschi eduli lamellibranchi o sulla eviscerazione degli animali da cortile, invece di far procedere con atti amministrativi. Il Parlamento continua in questo andazzo?
Sì, ricordo quella battaglia per la delegificazione e la polemica sul Parlamento che fabbricava leggi a tutto spiano. Ma oggi il fenomeno della legificazione bulimica dal Parlamento si è spostato sul Governo. Ora è l’Esecutivo che procede a carro armato con la logica dei DPCM (decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, NdR). C’è questa innegabile accentuazione della tendenza del governo a legiferare.
Il modus operandi del governo Craxi prevedeva riunioni preparatorie, in organismi istituiti ad hoc, come il consiglio di Gabinetto. Un metodo che poi è stato abbandonato. Sarebbe ancora valido?
Non si può pensare di ripristinare un modello che funzionava. Allora c’era un accordo politico di fondo sulle cose da fare, e soprattutto quando si andava in Consiglio dei Ministri il grosso del lavoro era stato già fatto da Giuliano Amato, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.
Con Berlinguer, i rapporti furono pessimi. Il segretario del PCI, invece di salutare la novità del primo presidente del Consiglio socialista, definì Craxi un pericolo per la democrazia. C’erano anche motivi caratteriali nei loro rapporti?
Basta conoscere un qualsiasi politico sardo di rilievo per capire bene le cose. C’è in loro un fattore caratteriale che è decisivo. Non parlo solo di Cossiga. Per esempio, Antonio Segni ha sofferto molto per l’accusa di aver tentato un colpo di Stato, accusa rivelatasi infondata, come ha anche dimostrato il figlio Mariotto. Ma Segni padre ne fece una malattia. Berlinguer sbagliò a definire Craxi un pericolo per la democrazia. Poteva dire un pericolo per la politica, magari era un pericolo per la sua politica.
Qual è la cosa meglio riuscita del governo Craxi?
La revisione del Concordato.
E quella non realizzata o rimasta incompiuta perché non ci fu più tempo o perché non era possibile?
È tornata la palude.
Mario Nanni – Direttore editoriale