Verso le europee: il dilemma di “re Giorgia” e l’assedio a Schlein

É un Paese più civile quello in cui non ci si candida per mandati che si sa già di non poter onorare, non ci si candida in circoscrizioni multiple, non ci si candida quando si hanno già onerosi impegni incompatibili con la campagna elettorale? Indubbiamente sì. Ma non è detto che sia un Paese reale. E non è certo l’Italia né del passato né del 2024.

Ecco perché sebbene Romano Prodi sulla carta abbia perfettamente ragione, la questione dell’eventuale corsa di Elly Schlein alle Europee è più complessa. Non simmetrica rispetto a quella della premier Giorgia Meloni – come qualche propaganda interessata vorrebbe far credere – ma nemmeno priva di un gioco di rimandi. Da un lato infatti c’è il dilemma di Re Giorgia – stravincere o smussare, salvaguardare (almeno per un po’) la stabilità di governo o affondare il colpo sui numeri del prossimo Europarlamento – dall’altro l’assedio in cui si dibatte la segretaria del Pd tra correnti malmostose e sindaci scalpitanti. Vincere con tracotanza o perdere con stile? si è chiesta Concita De Gregorio su “Repubblica”. Sciogliere questi nodi non sarà indolore né a destra né a sinistra.

 

 

 

“Se continuiamo a indebolire la democrazia, poi non ci lamentiamo. Se la dittatura risolve più problemi della democrazia, vince la dittatura” ha ammonito Prodi, precisando di parlare in termini generali. E non si può dire che il Professore predichi bene e razzoli male: da presidente della Commissione Europea non si è mai candidato, sebbene il suo nome avrebbe irrobustito l’Asinello prima e il listone Uniti nell’Ulivo dopo. Una scelta di principio, rigorosa, e un consiglio per l’oggi. Ribadito da un gruppo di nomi femminili di peso – Sandra Zampa, Paola De Micheli, Alessandra Moretti, Laura Boldrini – che sottolineano l’effetto paradosso sul piano dell’alternanza di genere. Se Schlein fosse capolista nelle cinque circoscrizioni, al secondo posto (blindato in titanio) andrebbe per legge un uomo, con buona pace della rivoluzionaria leadership Dem. Tuttavia, ai princìpi si accompagnano la grammatica della politica, in un contesto sempre più “spinto” verso la personalizzazione dei partiti, e le regole mediatiche, con i conduttori che già si accapigliano per ospitare il duello tra le primedonne della politica italiana (con le dovute differenze di peso e di potere, ovviamente).

 

 

 

Il Pd poi è circondato da guastatori. Matteo Renzi che si candida “contro il governo incapace e l’opposizione inconcludente”, come ha scritto sul “Riformista”. Giuseppe Conte che si è messo comodo in poltrona con in mano la versione pentastellata dei popcorn renziani. Mentre il principale partito dell’opposizione ci mette il suo di più, lo specifico che lo ha portato a divorare i segretari uno dopo l’altro, più affamato di Crono: finché la segretaria non trova gambe solide su cui far camminare la propria visione, rischia di finire preda delle correnti in agguato. A partire dal “partito dei sindaci” a fine mandato – Dario Nardella, Matteo Ricci, Antonio Decaro, Giorgio Gori – pronti a contarsi e far pesare le proprie preferenze. Decaro, ad esempio, che è anche presidente dell’Anci, potrebbe ricevere l’investitura dei potenti governatori del sud, Michele Emiliano e Vincenzo De Luca, quest’ultimo in aperto conflitto con la nuova segreteria. In fondo, la domanda che si fanno al Nazareno in queste ore è semplice e gira intorno ai numeri: possiamo permetterci di rinunciare all’effetto-Schlein nelle urne o, se sbagliamo i calcoli, potrebbe non esserci il girone di ritorno?

 

 

 

Rovelli ben diversi da quelli di Gorgia Meloni che in fondo deve decidere se limitarsi a vincere oppure stravincere. Ma che ha anche molto più da perdere. Durante la conferenza stampa di fine anno la premier ha (apparentemente) teso la mano agli alleati: “Decideremo insieme se candidarci”. Salvini però ha fiutato il veleno dietro il caramello dell’offerta e si è smarcato in solitaria: non corro, ho troppo da fare come ministro dei Trasporti. Stessa linea, più sfumata nei toni, da parte di Antonio Tajani. C’è da capirli: il Capitano rischia di essere “triplato” dall’alleata, il ministro degli Esteri di schiantarsi nel primo test del Dopo Silvio. Il cerino resta in mano a chi l’ha acceso. Tentata caratterialmente, spronata dai suoi (in testa il sottosegretario Fazzolari), memore degli sgarbi che le hanno riservato gli “amici” quando il suo partito era a 4%, Meloni ci sta pensando seriamente.

 

 

 

Sa che FdI trainato da lei oltre il muro del 30% porterebbe una ventata di instabilità nelle (già fragili) dinamiche di governo. Non è affatto detto che la Lega ridimensionata e ferita sarebbe più imbrigliabile né che l’eventuale dissoluzione della gamba moderata della coalizione sarebbe benvista dai mercati. Ma sa anche – come ha scritto il politologo Giovanni Orsina – che la partita principale si giocherà in Europa, tra i banchi dell’emiciclo di Strasburgo e nella governance da disegnare dopo il voto di giugno. E che il suo elettorato – a differenza di quello Dem che si mobilita se lo convincono che non c’è trucco e non c’è inganno – la vuole fortissimamente.

 

 

 

Federica FantozziGiornalista

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