Verità e processo, verità e giustizia

Dalla domanda di Ponzio Pilato a Gesù ("che cos’è la verità?") al monito di Hannah Arendt su "Importanti modi esistenziali di dire la verità": ecco una profonda e documentata riflessione di un alto magistrato su uno dei problemi cruciali delle società umane in ogni tempo

Il problema della verità, in riferimento al processo, è antico come l’uomo.

Esso affonda le sue radici nei primordi della storia e, da sempre, tormenta chi è chiamato a giudicare.

Un esempio può essere colto già in uno dei processi più famosi della storia, quello a Gesù Cristo, allorquando Pilato, dando una significazione strettamente umana ad una affermazione di Gesù (“Per questo io sono nato e sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce”), chiede a bruciapelo: “Cos’è la verità? ” (dixit ei Pilatus: “quid est veritas?”: Giovanni 18,38); evidentemente pensando alla verità processuale, alla mancanza di prove che sostenessero validamente ed efficacemente l’accusa contro il Galileo e, soprattutto, alla sua difficile posizione di Giudice romano, stretto fra la voce della coscienza, che gli suggeriva di mandare assolto quell’uomo, e la canea degli israeliti che, invece, gli chiedeva a gran voce di pronunciare una sentenza di morte.

Ma esiste la verità? È una domanda cui è difficile dare una risposta.

Nella storia del pensiero umano il concetto di verità viene, di solito, concepito in due distinte prospettive: l’una ontologica, l’altra, che si potrebbe definire “umana” o, meglio, “concettuale”.

Nella prima, la verità, con la “V” maiuscola, è una proprietà intrinseca dell’Essere: da Parmenide a Platone, sino al neoplatonismo, anche cristiano, di S. Agostino o S. Tommaso. Nel pensiero cristiano, come si ricava anche dal passo evangelico sopra richiamato, essa è una caratteristica essenziale del Verbo divino verso cui l’uomo tende ad elevarsi.

Nella prospettiva umana o “concettuale” il concetto di verità è stato variamente elaborato dalla speculazione filosofica.

Stando all’oggi, probabilmente il tentativo più autorevole di pervenire ad una formulazione, la più rigorosa possibile, del concetto di verità lo si deve ad Alfred Tarski, il cui enunciato può così sintetizzarsi: “l’espressione <<La neve è bianca>> è vera se – e solo se – la neve è davvero bianca”. L’evidente tautologia di tale enunciato ha portato ulteriori studiosi (come, per esempio, Popper, ma soprattutto Ramsey) a concludere che il termine “vero”, a ben vedere, non aggiunge nulla di più di quanto l’enunciato stesso già non dica, onde può tranquillamente essere eliminato dal linguaggio, senza che questo subisca alcuna perdita delle potenzialità espressive.

A riprova di ciò, si consideri che, per esempio, nella lingua ebraica la parola “verità” non esiste ed al suo posto viene usata la parola “emet” che significa “fedeltà”, parola che evoca conformità ad un modello; nella lingua greca classica, invece, la parola “verità” viene espressa col termine “Aleteia”, che, letteralmente, significa “non nascosta, visibile”, onde la concezione aristotelica della verità come visione, ossia come cosa posseduta o dominata, perché conoscere la verità equivale a possederla e, dunque, a possedere le cose in quanto “vere”.

Persino nell’ambito delle c.d. scienze esatte si rinvengono seri dubbi sul concetto di verità, se è vero – come è vero – che lo stesso Einstein, nell’illustrare la teoria dei quanti, esordì con l’espressione “Mi sembra”, mentre di “invenzione della verità” parla addirittura l’illustre matematico Bruno De Finetti (lo ricorda Glauco Giostra nell’articolo “Verità e Giustizia”). Se, dunque, si ritiene difficile (se non impossibile) possedere la verità in ambito scientifico, immaginiamo come sia difficile rapportare il concetto di verità al processo.

Com’è noto, qualsiasi sistema penale si configura sostanzialmente come un complesso di norme di comportamento volte a regolare i rapporti sociali attraverso un meccanismo che aspira ad esercitare un controllo sulla criminalità. Il processo penale è lo strumento attraverso il quale si esercita tale controllo e può assumere schemi e forme diverse, perché diversi sono i modelli di appartenenza e diverse sono le estrinsecazioni pratiche.

Così, un sistema processual-penalistico può, ad esempio, avere come scopo principale quello della ricerca della verità (così era espressamente scritto nel nostro codice del 1930, all’art. 299, comma 1°), un altro, invece, può ritenere più rilevante il “modo” di risoluzione della lite, mettendo in secondo piano l’aspirazione ad una ricostruzione veritiera dei fatti.

Generalmente i sistemi di Common Law si dimostrano più propensi ad assicurare quello che si definisce “Fair Trial”, ossia regole del gioco uguali per le parti e una procedura garante del loro rigoroso rispetto. Un principio, questo, che viene oggi sempre più criticato dagli studiosi americani proprio perché può portare ad “un processo senza verità” (come evidenziato da Mirijan Damasska, docente di diritto a Yale, che in una sua recente pubblicazione ha criticato il processo americano, affermando che in America “non c’è un giudice che regge il timone dell’imbarcazione”).

Anche il processo italiano vigente, pur in mancanza di una disposizione come quella del codice Rocco, ha come suo scopo precipuo quello di evidenziare la verità dei fatti oggetto di indagine, nel rispetto di principi e leggi costituzionali, della normativa ordinaria e delle regole procedurali: ne fanno fede ripetute pronunce della Suprema Corte e della Corte Costituzionale. “Il processo penale – scrive Glauco Giostra – può essere figurativamente visto come una sorta di ponte tibetano che conduce dalla res iudicanda alla res iudicata, che pro veritate habetur.

Un tragitto rigorosamente tracciato dalla segnaletica normativa per orientarsi «nel crepuscolo delle probabilità» (Locke)”. Da rimarcare come la richiamata espressione latina significhi che la sentenza definitiva “equivale” a verità (non che è la verità), ed è una verità “processuale” (con tutti i limiti che possono derivarne da future possibilità di revisione), la sola umanamente perseguibile. Ma si tratta davvero della verità (mi si perdoni, anche qui, la tautologia)?

La domanda, a parer mio, è oziosa.

Tuttavia, se proprio si deve rispondere, la risposta non può essere che “”, quella della sentenza definitiva è la “verità” ed è in un certo senso, una verità “assoluta”, perché è la sola possibile all’esito del processo.

È anche una verità “giusta”?

Anche questa domanda, a parer mio, è oziosa, posto che la sola verità perseguibile dal Giudice è quella processuale, laddove, invece, la verità “vera”, a ben vedere, è conosciuta solo dall’imputato (se compos sui al momento del fatto). Il processo – scrive ancora Glauco Giostra – è “una specie di GPS che, se non manomesso, guida il giudice alla verità”.

Tuttavia molteplici sono gli ostacoli che si frappongono fra il fatto ed il giudice: dalla capacità professionale dei protagonisti (P.M., difensori e lo stesso giudice), all’onestà e veridicità dei testimoni, alla capacità e competenza di eventuali consulenti e periti, ecc. Ecco perché giudicare è un compito terribile (Sciascia, paradossalmente, propugnava il “rendere ossessivo il precetto del non giudicare”), perché l’errore è umano e, purtroppo, è sempre dietro l’angolo; ed è un errore che si riverbera su altri uomini (come accade condannando un innocente o assolvendo un colpevole).

La legge individua i “paletti” che debbono essere seguiti per evitare pericolose “sbandate”: fra questi, oltre alla parità delle parti dinanzi ad un giudice imparziale, particolare rilievo riveste, nel processo accusatorio, la cross-examination, la quale – come scrive (forse un po’ ottimisticamente) Paolo Ferrua – dovrebbe far sì che “la verità si manifesti, anzi si <<tradisca>>, anche contro il volere delle stesse parti, proprio nel conflitto delle opposte prospettive”.

Inoltre, se si è consapevoli del fatto che la verità può non essere raggiunta, altrettanto consapevoli si deve essere della possibilità dell’errore (casi ce ne sono tantissimi). Una ragione per la quale dovrebbe essere universalmente bandita la pena di morte: barbari sono quegli Stati che ancora la prevedono, tanto più che – come è stato abbondantemente dimostrato – essa è assolutamente inidonea a garantire la prevenzione generale dei reati.

Infine, proprio per la estrema difficoltà del giudicare, dovrebbero essere bandite tutte quelle pesanti manifestazioni di disprezzo (“sentenza vergognosa”, “giudice asservito alla politica”, “magistratura cancro della democrazia”, “io mio figlio lo conosco e so che è innocente”, e simili) verso decisioni non condivise, spesso pronunciate senza che neppure si sia letta la motivazione (che integra il controllo democratico sull’attività giurisdizionale); perché un conto sono le critiche, altro le delegittimazioni, le quali pongono a rischio la coesione sociale.

In conclusione, mi piace richiamare il monito di una delle menti più acute e libere del XX secolo, Hannah Arendt, la quale ha osservato: “Importanti modi esistenziali di dire la verità sono: la solitudine del filosofo, l’isolamento dello scienziato e dell’artista, l’imparzialità dello storico e del giudice e l’indipendenza di chi indaga sui fatti, del testimone e del cronista”.

 

Hannah Arendt

 

Il giudice imparziale è, dunque, un ricercatore di verità, accostabile, sotto questo aspetto, allo storico, ma anche, occorrendo, allo scienziato. Vi è però una differenza: per il giudice la ricerca e la pronuncia della verità è anche esercizio di potere. Da qui la necessità che il potere sia posto, il più possibile, al servizio della verità, nel rispetto dei diritti delle persone. Perché è la verità (pur nei termini evidenziati) che deve valere come limite al potere. Non il contrario.

 

 

Roberto Tanisi Presidente del Tribunale di Lecce e già presidente della Corte d’Appello

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