La “provincia con le ali”, terra di paradossi

Viaggio nel territorio del Varesotto. Le sue eccellenze, le sue contraddizioni

Dopo il reportage sul Salento, che ha dato l’avvio al viaggio nell’Italia da riscoprire, oggi presentiamo un focus su un’altra zona dalla penisola, ai confini settentrionali: la Provincia di Varese.

 

 

 

Entri nel bosco e accanto alla betulla e al castagno spunta una palma, ancora qualche metro e, tra frassini e tigli, ecco una folta cortina di bambù. Se altrove, normalmente, la natura invade e riconquista i manufatti abbandonati dall’uomo qui avviene il contrario: i giardini delle eleganti ville hanno disperso il loro patrimonio botanico infestando e colonizzando il vecchio bosco autoctono. 

Siamo sul massiccio del Campo dei Fiori, la montagna sopra Varese. Possiamo partire da qui forse, da questo paradosso, per un breve viaggio in una provincia che gode di tante benevole definizioni e di una buona fama internazionale ma che in realtà sembra vivere rannicchiata più nel proprio passato che in un qualsivoglia futuro.

Un discreto posto dove vivere, certamente, questa provincia dei laghi ad un passo dal Canton Ticino. Che non è più da tempo meta dei contrabbandieri di sigarette, orologi e zucchero, e nemmeno paradiso del cioccolato e della benzina a buon mercato per il week-end dei milanesi, quanto terra di lavoro per migliaia di frontalieri che dal Varesotto ogni mattina varcano il confine in direzione Svizzera. 

Luogo di villeggiatura internazionale tra fine Ottocento e primi del Novecento il capoluogo lo è stato davvero: sul lungolago della Schiranna, sulle pendici del Sacro Monte e del Campo dei Fiori dove sorgeva una spettacolare funicolare che portava a quel trionfo del Liberty che è il Grand Hotel omonimo, chiuso nel ’68 e ancora in attesa di un futuro. 

Qui arrivavano in vacanza estiva granduchi russi con famiglia al seguito, industriali tedeschi, olandesi e belgi oltre ai ricchi lombardi. E ancora oggi sul massiccio, nel frattempo divenuto parco naturale regionale, sorgono le antiche dimore di famiglie nobili o alto borghesi milanesi e non solo. 

Alcuni di questi splendidi edifici sono ormai in disarmo anche a causa dei proibitivi costi di manutenzione dei loro splendidi giardini e parchi. Varese, la Città Giardino, secondo la ormai logora definizione coniata dall’entusiasta Stendhal, borgo amato da intellettuali raffinati come Hugo von Hofmannsthal, luogo di incontri amorosi nel suntuoso hotel Excelsior tra D’Annunzio e la Duse, rifugio di artisti come Renato Guttuso, oggi sembra una antica capitale senza più regno. 

Del resto questa provincia, quarta per popolazione in Lombardia, nata nel ’27 per volere del fascismo e i cui confini furono ritagliati sulla carta geografica prendendo territori da Como, da cui fino ad allora era dipesa amministrativamente, e dal milanese, vive da tempo in una situazione di policentrismo. 

Le sue grandi città, ognuna gelosa e orgogliosa della propria specificità, puntano in direzioni diverse. Busto gravita da sempre su Milano, Gallarate vive una propria autonomia molto “milanese” e ciò vale anche per Saronno. Così il capoluogo si trova in una solitudine non più dorata e che non guarda neppure alle cittadine del nord, come la ridente Luino, patria di Piero Chiara, o alla vicina Svizzera.

E tantomeno alla limitrofa Como, con cui c’è da sempre una non dissimulata rivalità. Che traspare anche nella dualità della prestigiosa e bicipite Università dell’Insubria, voluta fortemente da Varese ma mai abbastanza coccolata dalla città. Ecco, una caratteristica che si può leggere positivamente dei varesini è una certa capacità di stare sotto le righe, di non cedere a facili entusiasmi, di non ostentare. Che però ha un suo risvolto negativo. 

Qui i talenti, in ogni campo, spesso stanno fin troppo nascosti e sono sconosciuti ai loro stessi vicini. Nel corso del tempo tanti sono stati ignorati o sottovalutati (il primo che viene in mente è lo scrittore Guido Morselli) o hanno preso la strada del volontario esilio per trovare soddisfazione. 

Insomma nella “Provincia con le ali” (altro appellativo storico, dovuto alle eccellenze della aeronautica nate o sviluppatesi nel suo territorio fin dalla prima guerra mondiale e oggi anch’esse alle prese con la crisi) non sempre si vola. Così che spesso è sembrato compiersi all’inverso il famoso aforisma di Robert Musil: “In Austria, come ovunque, un genio poteva essere scambiato per un cretino ma mai accadeva che un cretino fosse scambiato per un genio”. 

Terra di profonda povertà fino all’avvento dell’imprenditoria tessile, che diede il primo potente impulso all’industrializzazione della parte meridionale della provincia prima di tracollare sul finire degli anni ’70 causa la concorrenza internazionale, il Varesotto colse appieno la spinta propulsiva degli anni del boom economico.

Così l’industria ottenne successi internazionali, uno per tutti la Ignis messa in piedi dal “cumenda” Giovanni Borghi. Al seguito delle glorie industriali arrivarono anche quelle sportive, in particolare con la squadra di basket che divenne negli anni ’70 la più vincente a livello nazionale e internazionale. Ma da sempre, in quello che potremmo definire l’enigma Varese, fioccano i paradossi. 

Qualche anno fa domandai ad intellettuali, amministratori pubblici e imprenditori della provincia se potessero indicare almeno un elemento caratteriale comune che potesse definire la “varesinità”. Nonostante la buona volontà e gli sforzi non fu possibile trovarlo. 

Ogni città, ogni paesino, ha la propria specificità e la varesinità, forse, appartiene solo al capoluogo. Ma anche qui, paradosso nel paradosso, le Castellanze che costituiscono il comune sviluppato su sette colli, e alcune delle quali furono aggregate solo nel 1927 in concomitanza con la nascita della nuova provincia, custodiscono gelosamente certe loro specificità, perfino nelle sfumature del dialetto. 

Deluso dal risultato della ricerca vana mi rivolsi alla lettura del grande Guido Piovene, per cercare nel passato lumi. Il giornalista e scrittore nel suo stupendo Viaggio in Italia del ’60 così descriveva Varese e il suo territorio: “È ricca, vivace, dal clima piacevole, la sua popolazione aumenta a vista d’occhio per gli immigrati. L’ho vista trasformarsi dalla mia infanzia ad oggi. Dopo i villoni ottocenteschi, di quello strano stile che chiamavano lombardesco, sorgono oggi dappertutto piccole ville d’impiegati, casamenti operai… Si è trasformata la città di Varese. Ricordo che nella mia infanzia già ero impressionato dai suoi caffè, che mi sembravano più belli dei caffè di Milano”. 

Oggi di quei caffè e di quelle botteghe, che custodivano grandi eccellenze di tutte le possibili merceologie, di quelle librerie o negozi di musica dove si trovavano ancora negli anni ’90 rarità assolute, assenti perfino nei negozi nelle grandi metropoli, resta ben poco. Teorie di negozi sfitti dopo essere stati abitati brevemente da grandi marchi multinazionali, quasi nessuna originalità in ciò che ancora sopporta la falcidia di tutte le crisi degli ultimi anni.

E domani? In questa terra paradossale che fu nel Risorgimento massimamente nazionalista e “garibaldina”, anche a causa della massiccia presenza di residenze di borghesi milanesi, e nell’ultima parte del Novecento ha visto nascere lo straordinario fenomeno politico della Lega di Umberto Bossi, movimento inizialmente separatista/indipendentista e successivamente federalista, non è certo quale sarà il futuro. 

Nella città, praticamente l’unica al mondo in cui una autostrada (si dice sia la prima mai costruita) sbuca direttamente in centro attraverso uno stretto budello che finisce con un semaforo, si pensa spesso al turismo. Dopo decenni di attese è stata messa mano alla sistemazione della viabilità, compreso quell’accesso autostradale anomalo che è foriero di interminabili code. 

Ma certamente Varese e la sua provincia non potranno mai essere una meta di massa, o peggio trasformarsi in una terribile Disneyland lacustre. Forse hanno ragione coloro che, considerandola un buon posto dove vivere, suggeriscono di sviluppare l’accoglienza universitaria, che avrebbe anche il merito di svecchiare l’età media. 

Per il resto tutto dipenderà, come sempre, anche da ciò che avverrà nel grande mondo. Uno spiccato spirito imprenditoriale, il gusto per l’innovazione e una forte volontà, possono forse ancora spalancare spazi per il Genius loci. Purché Varese e il Varesotto non si limitino a imitare in sedicesimo modelli altrui. Perché il rischio è quello di finire con la palma e il bambù che scacciano il castagno e la betulla.

 

Il “Sacro Monte” con il massiccio del “Campo dei Fiori”

 

 

Maurizio Lucchi  – Giornalista

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