Salento, scrigno d’arte e di storia. E l’industria turistica lo proietta verso un nuovo protagonismo

Con questo affresco del Salento, delle tradizioni, della sua vocazione turistica, della lingua, della storia e della sua cultura, comincia un viaggio di BeeMagazine nell’Italia da (ri)scoprire.

Millenario e misconosciuto, questo lembo di terra, Sallentum, oggi Salento, che ha sempre vissuto nell’incertezza della sua origine e del suo stesso nome. Non saperlo persino descrivere e segnare esattamente nei suoi confini, oggi convenzionalmente limitati alla sola provincia di Lecce, ma con  l’area di Brindisi e Taranto che storicamente non gli sono certo estranee. Una volta era, semplicemente, la Terra d’Otranto.

È evidente, però, che c’è molto di più in questa terra di confine, il “De Finibus Terrae”, anche “Porta d’Oriente”, che racconta delle tante genti che l’hanno colonizzato: messapi, romani, bizantini, normanni, aragonesi, spagnoli, lasciando ogni volta tracce del loro significativo passaggio.

Clamorosa, poi, l’aggiunta della memoria del suo antico progenitore, nella sensazionale scoperta che ha entusiasmato il mondo scientifico: i resti archeologici del Sapiens Sapiens (Paleolitico Medio, 45mila anni), scoperti nella Grotta del Cavallo di Nardò, uno dei più importanti siti in Europa. Una “partenza” da ben lontano per questo antico Salento, terra di passioni e di passate conquiste, ma anche “l’umile luogo dove termina l’Italia” del poeta Vittorio Bodini, il superbo cantore ne La Luna dei Borboni,  di un sud mitico e ancestrale, che invita a viverlo e non sentirlo  estraneo. “Tu non conosci il Sud, le case di calce da cui uscivamo al sole come numeri dalla faccia d’un  dado”.

A  distanza di così tanto tempo, altri appellativi gli sono andati in soccorso, certo eclatanti e anche un po’ curiosi: California del SudTerra dei 300 giorni di sole all’anno, per farlo meglio conoscere, per parlare dei suoi fertili terreni, del motto popolare coniato per esaltare gli elementi naturali: sole, mare e vento, a voler indicare il Salento felix, baciato dal destino. Ma anche l’avvio di una nuova avventura, la linea di passaggio da un mondo contadino povero e arretrato, segnato dalla  faticosa ma anche necessaria emigrazione verso Francia, Svizzera, Germania. 

La volta, però, che la spinta si andava esaurendo, in tanti sono ritornati  per poi riaffacciarsi su più concrete realtà. Lo hanno fatto con timidezza, sapendo di non avere molte frecce al proprio arco, per poi progredire, tappa dopo tappa che, per non annacquarle in un arco temporale troppo dilatato, potrebbero meglio definirsi a partire dagli anni ’70. Un cinquantennio, durante il quale il Salento ha avuto importanti trasformazioni, non tutte indolori,  per attestarsi – è quanto dicono i periodici Rapporti – tra le aree più dinamiche del Mezzogiorno d’Italia.

E comunque, se si tratta di fissare il punto di svolta,  e dire che proprio da quegli anni qualcosa, anzi tanto  è cambiato, sino a modificare sostanzialmente il suo impianto non solo economico e incidere sul suo stesso apparato culturale, questo è certamente dato dall’avvento del turismo (32% nel 2021 la sua quota, la migliore in Puglia). Sempre anni ’70 e ’80, che coincidono col duraturo fenomeno che ormai segna il Salento, con i suoi oltre 200 km di costa, il prevalente turismo marino e senz’altro il famoso barocco di chiese e palazzi che ha interessato l’UNESCO, i suoi notevoli siti archeologici.

Ed è certo interessante sapere che resta confermata “l’opzione ambientale” (buon indicatore per apprezzare la scelta dei visitatori, con oltre il 70% – così Il Touring Club Italiano), la vera attrazione di cui gode il Salento, il suo vero punto di forza. Una crescita alla quale hanno variamente contribuito  enti, istituzioni, l’allora Provincia in testa, in collegamento con la Regione Puglia, con un indovinato marketing, come nel Salento d’Amare, che incoraggiò con operazioni di sistema un buon  numero di piccole aziende  a produrre con qualità, com’è stato segnatamente nei settori dell’agroalimentare e artigianato.

Ma un ruolo l’ha certamente avuto anche la nascente imprenditoria privata che ha provato  ad affrancarsi da eccessive remore, conseguendo presto incoraggianti risultati. Operazione non certo conclusasi poiché, accanto alla crescita di presenze di turisti italiani e stranieri (questi ultimi sfiorano il 20%), all’eccellenza di tante strutture alberghiere ed extra (specificità dei b&b), si sconta il lento passaggio a una fase “industriale”, che si rende necessaria per consolidare il  fenomeno.

A farne le spese, sono in buona parte i servizi alla persona, una formazione ancora insufficiente e soprattutto l’inadeguatezza del trasporto pubblico. Se c’è, poi, da lanciare un monito, senza comunque troppo allarmare, questo è rivolto all’eccessivo consumo della terra, al nuovo e pervasivo fenomeno della cosiddetta gentrificazione, che rischia di alterare ogni equilibrio rispetto a destinazione e vivibilità dei luoghi. 

Non mancano certo gli studi su questo settore e l’Università del Salento (nata settant’anni fa , oggi 20mila studenti), guidata dal Rettore Fabio Pollice, negli anni ha fatto la sua parte e avanza con nuovi progetti, nuovi indirizzi di studio e Facoltà, in un rapporto dinamico con il territorio.

Notevole è poi la produzione editoriale di antiche e nuove Case editrici: dalla Milella, che ha la stessa età dell’Università del Salento, ad altre imprese editoriali:  Besa, Congedo, Edizioni del Grifo, I libri di Icaro, Kurumuni, Manni, Pensa.

Sul trasporto, gomma o rotaia fa lo stesso, le note sono dolenti. Carente la rete ferroviaria per il Salento e l’intera Puglia, per il 50% ancora a binario unico;  l’Alta Velocità non lo riguarda e le ferrovie del Sud Est restano al palo con servizi, orari e tratte vecchie di quarant’anni fa, sempre gli stessi. In soccorso, il trasporto su gomma di alcune aziende private.

Per fortuna, non manca il trasporto aereo, come nel caso di Brindisi  “Papola Casale” ma, considerata la vastità dell’area salentina e la nuova opportunità turistica, avrebbe avuto  bisogno di maggiori investimenti. Una carenza che potrebbe essere limitata dall’aeroporto militare di Galatina, alle porte di Lecce, quantomeno “aprendo” ai voli charter, ma le competenti  Autorità fin qui hanno sempre opposto un netto rifiuto.

Ovviamente il turismo ha affiancato altri settori economici, ma è come se nel tempo, forte della sua novità, li avesse fatti meglio germogliare, compagni di viaggio e partecipi dello sviluppo dell’area. Ed è così che sia pure lentamente, si è passati dal Salento agricolo (dal dopoguerra e sino agli anni sessanta, il 70% della popolazione era ancora dedita ai campi, oggi ben al di sotto del 10%), ad altre opportunità: piccole quote di “secondario” e anche “terziario”, non certo avanzato, per poi lasciare spazio, appunto,  al turismo, il nuovo protagonista. 

A questo punto l’abbandono della campagna è diventato un fatto ancor più visibile, dovuto anche ai rapporti semi-feudali che lo regolavano, all’”anzianità di servizio” (oggi attestatasi sui 55 anni). Sempre debole, comunque, è rimasto il settore agricolo e tardo ad evolversi: il mancato cooperativismo, la pratica impossibilità di accedere al credito, le onerose pratiche assicurative, la scarsa capacità contrattuale, sono state nel tempo le principali cause del suo mancato sviluppo.

Sempre con troppe difficoltà, ma anche con qualche malinteso, come per l’idea che la terra non possa garantire un buon reddito, cosa che invece è confermata dalla nascita di nuove aziende agricole (comunque, non grandi numeri), aperte all’innovazione, a produzione e mercato, superando l’incertezza e il freno che sempre hanno accompagnato le ordinarie scelte colturali. 

A cominciare dalla storica viticoltura, generosa ma anche con un mercato troppo ristretto e con scarsa commercializzazione, nonostante la grande produzione di mosti, per poi procedere, a partire dagli anni ’70, con maggiore speditezza e qualità (oggi, davvero un’eccellenza, con una decina di Igt, Doc e Dogc). 

Di tutt’altro segno, il dramma della xylella fastidiosa, il batterio che ha infestato gli ulivi delle campagne salentine, la sua pianta-simbolo, segnatamente nelle varietà “Ogliarola” e “Cellina di Nardò”, mentre ha ben resistito il leccino. Una storia che merita di essere raccontata. Alcuni anni fa scoppia il bubbone a sud di Gallipoli ma si tarda a capire di cosa si tratta. 

Si interviene con pratiche che si dimostrano inefficaci e intanto il batterio-killer che necrotizza lo xilema delle piante si diffonde con velocità. Inizialmente si ebbe la buona idea di svellere le  piante infette, ma la strenua opposizione degli stessi agricoltori fece recedere in molti casi ogni tentativo. Oggi, il protocollo è severissimo, atto a bloccare l’infezione, riguardando lo svellimento di tutti gli ulivi, anche sani, nel raggio di cento metri dalla pianta infetta. 

Ciò viene fatto e anche accettato con rassegnazione, col batterio che nel frattempo è dilagato sino alle campagne di Fasano, a nord di Brindisi, dove la situazione è monitorata e tenuta sotto controllo con la creazione di un “cuscinetto” (da accogliere con sollievo la notizia diffusa in questi giorni che parla di un netto rallentamento dell’infezione). 

Un danno incalcolabile per gli olivicoltori salentini,  costretti nella quasi totalità a ripensare le strategie, se non ad abbandonare il comparto. Anche qui non sono mancati incertezze ed  errori, a cominciare dalla gestione commissariale della Regione Puglia, soprattutto per quanto riguarda lo svellimento delle piante infette e le stesse pratiche colturali suggerite che non si sono dimostrate efficaci a bloccare il fenomeno.

Infine, tanta fatica per far ottenere i rimborsi (“poco più di un’elemosina” – così le associazioni di categoria) alle oltre 6.000 aziende agricole per il danno subito (e che, come prevede il decreto, non potranno essere erogati per più di tre annualità). Stessa fatica per mettere in piedi nuove cultivar (è il caso della cosiddetta favolosa), e puntare maggiormente su nuovi impianti di leccino, capaci di resistere al batterio. In ogni caso, prima di andare a frutto, per queste nuove piante bisogna aspettare non meno di tre, quattro anni.

E il tabacco, che compone  la “triade” delle piante storiche? Semplicemente sparito, da almeno tre decenni, quando il Salento da sempre era stata la parte del Paese con la sua più forte produzione. Qui siamo in presenza di errori evidenti, e forse qualcos’altro, nell’aver perso una coltura adatta ai suoi terreni e che ha creato un’epopea, oltre ad aver sviluppato manifatture tra le più importanti d’Italia, com’ è stato per la provincia di Lecce. 

Ma è successo che non si riusciva più a vendere il tabacco di pregio, a foglia piccola (Xanti Yaca, Perustitza, Erzegovina), nessuno più era disposto a comprarlo se non a prezzo risibile ed era toccato all’ Aima (l’Azienda di Stato per gli interventi sul mercato agricolo) intervenire con erogazioni a sostegno. Non poteva durare. Si tentò anche la strada della riconversione colturale: l’artemisia, pianta officinale, al posto del tabacco. 

Non andò ugualmente bene ed è così che venne segnato il suo destino. Legato ai sacrifici e alle lotte di intere generazioni: “Ci ta dittu cu chianti lu tabbaccu, la ditta no ti tae li tiraletti” (*) era un canto di lotta delle tabacchine. Donne sfruttate e anche mandate al macello come nel terribile rogo di Calimera del 13 giugno 1960, quando sei lavoratrici morirono asfissiate nell’incendio sviluppatosi  nella fabbrica chiusa a chiave dai padroni. 

Per fortuna i tempi sono cambiati, anche se si  nutre qualche dubbio, ricordando i recenti episodi avvenuti e che chiamano in causa il reato di “caporalato”, affacciatosi nelle campagne salentine. Niente, comunque, di paragonabile con l’ondata criminale della Sacra Corona Unita che attraversò il Salento a partire dagli anni ’80 e ancora in attività. Si tratta della cosiddetta “Quarta Mafia”, con accertati contatti con camorra e ‘Ndrangheta.

Per quanto negli anni abbia subìto più di uno scacco nei processi celebratisi e che hanno decapitato i suoi vertici, la Sacra Corona Unita resta un fenomeno molto pericoloso anche per la sua capacità di “inabissarsi”. A tal proposito, intervistato in questi giorni sul fenomeno che interessa il Salento e la Puglia in generale, queste le parole del Direttore della Direzione Investigativa Antimafia Maurizio Vallone: “In Puglia le mafie puntano al controllo del territorio, oggi sono 3.0 con alleanze importanti sul traffico di droga e molto attive nel reimpiego dei capitali illeciti”.

In aggiunta alle tre colture “storiche” (ma oggi senza più tabacco), si è cercato di rimediare con qualcos’altro. Poco in realtà: fiori, carciofi,  pomodori, patate e soprattutto angurie che vede il territorio di Nardò spiccare per queste genere di produzione (lo scorso anno, a dimora oltre 2.500 ettari di terreno, con le sue varietà  Crimson e Tumara). 

Incuriosisce, poi,  come in una terra pur sempre ai margini, lontana da importanti collegamenti e realtà produttive, nel tempo si sia assistito a dati eccezionali, nemmeno presenti e paragonabili con altre parti d’Italia. Come è successo per il settore calzaturiero: è il caso della fabbrica Filanto (acronimo dell’imprenditore Antonio Filograna) di Casarano che, insieme e qualche altra consociata, sino a una trentina d’anni fa contava ben 7.000 addetti, (oggi, meno di un terzo). 

Ma è stato anche il caso del tessile, più precisamente tessile-abbigliamento, con una produzione a façon per i maggiori marchi in circolazione. Troppo importanti queste produzioni di qualità per non doverle sostenere. E, infatti, il comparto Tac (tessile, abbigliamento, calzature), pur tra tante difficoltà di mercato, riesce ancora a resistere sia pure col limitato numero di addetti. Che, invece, si stanno  velocemente perdendo dopo che si è tentata la strada dell’industria, dimostratasi il passo più lungo della gamba. 

L’Ilva di Taranto ( già Italsider), non è storia che possa considerarsi lontana o estranea (migliaia i leccesi ad esserne impegnati), ma la situazione attuale indica chiaramente che non si può barattare la salute col posto di lavoro. Ovvio, ci si riferisce al grave inquinamento che da anni affligge la città e alle bonifiche che dovevano partire dal 2012 e che non sono nemmeno cominciate (drammatici per Taranto i wind days che scoperchiano le polveri dei parchi minerari per depositarsi dappertutto ed essere inalate dalla popolazione). 

Da un recente sondaggio emerge che i due terzi della popolazione tarantina sono favorevoli all’immediata chiusura dell’Ilva (tra operai e indotto supera le 20mila unità), chiedendo con forza che si proceda alla riconversione produttiva. Una questione nazionale, rispetto alla quale gli ultimi governi hanno sempre rimandato la scelta, certamente per non sapere cosa fare. 

Senza dire del recente “sgarbo” fatto dal governo: l’aver distratto, decreto milleproroghe, oltre 600milioni di euro dalla bonifica promessa,  per andare direttamente nelle casse dell’Ilva, a corto di risorse finanziarie (in questi giorni si è poi rimediato, ma soltanto grazie alle forti proteste della popolazione tarantina). Su scala molto più piccola, invece,  negli anni ’70 sorgeva alla porte di Lecce, la Fiat-Allis, macchine movimento-terra  (trattori e non solo). Ottimo avvio, poi riconversione, ma col tempo tutto si è ridimensionato. 

Pertanto, un Salento a più facce e che continuamente viene messo alla prova. Come tutti d’altronde, anche in questi due ultimi anni, con la pandemia alle porte, che ha intaccato il suo turismo, l’economia su cui può maggiormente contare. Cosa, comunque, che non gli ha fatto perdere fiducia nel suo cammino fatto di gradualità, buoni risultati ma anche di qualche errore commesso.

Una terra generosa, il Salento, che include nel suo parlato i lemmi dei tanti popoli mediterranei, accogliente sin dalla prima ora, con le masse dei disperati che continuano a sbarcare sulle sue coste. E Lecce, prima tra le città italiane (subito dopo avvenne per Roma), capace di istituire il cosiddetto “consigliere aggiuntivo”, figura regolarmente eletta, da affiancare agli amministratori del luogo, con il  compito di rappresentare gli interessi e i bisogni delle comunità straniere presenti sul territorio.  Un segno di solidarietà e vicinanza e, finanche, un messaggio di pace che parte da questa terra lontana,  il suo piccolo contributo per la costruzione di un’Europa sempre più aperta e solidale.

 

Luigi Nanni – Pubblicista, studioso di problemi sociali e del turismo

 

(*) chi ti ha detto di piantare il tabacco, la ditta non ti dà li tiraletti, quest’ultimi: telai in legno, forniti dalla ditta alle operaie, su cui venivano appese le “corde di tabacco”, già infilate, per farle essiccare al sole.

 

 

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