E così questa Italietta politica si è giocata anche Draghi.
Tacciato di volta in volta come il banchiere algido, l’uomo dei poteri forti, l’uomo del “Britannia”, dove si decisero le privatizzazioni dei gioielli del Paese, o, nella versione di Cossiga, “il vile affarista”, ma di Cossiga, si può dire quello che Orazio scrisse su Omero, quandoque dormitabat (nei giudizi sugli uomini, in questo caso).
Fatta la tara dei giudizi e delle etichette malevole, anche il Draghi politico ha mostrato un profilo di serietà sconosciuto a molti leader e leaderucoli nostrani. Chiamato Da Mattarella al capezzale di un Paese eternamente sul filo della catastrofe finanziaria, ha fatto con dignità la sua parte e negli ultimi tempi aveva lanciato anche chiari, chiarissimi segnali, soprattutto ai suoi critici che dall’interno con qualche confusione picconavano le fondamenta della maggioranza.
Sono stato chiamato a fare le cose, se me le lasciate fare, bene, altrimenti – aggiungeva sfidando monsieur La Palisse – non si fanno. Ma una cosa però l’ha detta con nettezza: non si governa con gli ultimatum. E il riferimento era chiaramente rivolto a Giuseppe Conte, che, su queste pagine, l’altro giorno, Pino Pisicchio ha raffigurato come l’incarnazione ( velleitaria, aggiungiamo noi) del conte di Montecristo, che torna a consumare la sua vendetta (mai rassegnato alla perdita di Palazzo Chigi da cui si è sempre considerato ingiustamente defenestrato).
Questa crisi arriva in piena estate, in un orizzonte che più complicato non potrebbe essere: la guerra con l’Ucraina continua, benché sembri ormai più lontana nell’emozione della gente, ma sempre più vicina e scottante per gli effetti che ha sulla vita quotidiana ( pieno di benzina, costi delle bollette, prezzi del gas e della luce). L’inflazione ha rialzato pericolosamente la testa ( anche nella lontana America è oltre il 9 per cento), i contraccolpi già si vedono in Borsa e nello spread, e si temono conseguenze sui mutui.
Fasce di popolazione continuano a stentare e aspettavano dal governo concrete misure per ridurre le tasse, sostenere stipendi e salati più bassi. Il covid ha ripreso ad allarmare con l’aumento dei contagi e non sappiamo che succederà alla fine di questa estate.
Eppure, in questo panorama inquieto e allarmante, gli italiani assistono a giochi e giochini di potere e all’apertura della crisi.
Una crisi al buio. La confusione è totale, se perfino un dirigente politico notoriamente prudente e cauto, come il segretario del Pd, è scivolato l’altro giorno su uno spropositato paragone tra le conseguenze di un eventuale azzardo dei 5 stelle e l’attentato di Sarajevo che portò alla prima guerra mondiale.
Abbiamo tutti bisogno di un po’ di bagni di mare per rinfrescare il corpo e la mente.
Per evitare la crisi, in extremis, il ministro per i Rapporti con il Parlamento aveva tentato un escamotage: non far porre dal governo la fiducia al Senato, ma far solo votare il decreto sugli aiuti. Così non sarebbe deflagrato il caso politico di un partito di governo che nega la fiducia. Alla Camera, i 5 stelle avevano potuto votare la fiducia e dire no al decreto, ma al Senato questi due voti separati, per motivi di regolamento, non erano possibili.
Draghi ha detto no a questo pateracchio bizantino ed evangelicamente ha fatto proprio il motto: sia il tuo parlare sì sì no no, il resto viene dal maligno.
Ed ora che succede? I possibili sbocchi
Il Quirinale, per quanto abituato ai colpi di scena della politica italiana, certo ha sperato fino all’ultimo in un sussulto di responsabilità. Speranza vana, evidentemente. Parlare di scenari possibili non è facile. Possiamo azzardare qualche ipotesi.
Per esempio: Mattarella rinvia il governo alle Camere. È un rito che nella Prima Repubblica è stato celebrato più di una volta per scongiurare lo scioglimento delle Camere.
Ma a che cosa dovrebbe servire un rinvio al Parlamento? Ogni partito farebbe la sua narrazione, il centrodestra ormai sembra voler cogliere l’occasione per dare la spallata a questa legislatura morente e andare alle urne.
Pare facile ma non lo è.
Andare alle urne senza una nuova legge elettorale significherebbe avere un nuovo Parlamento, quello cosiddetto amputato, con “soli” 600 tra deputati e senatori, con qualche rischio di ingovernabilità se una legge elettorale chiara non avrà consentito il formarsi di solide e chiare maggioranze.
Una riedizione dell’attuale maggioranza e dell’attuale governo?
Non vediamo realistica la disponibilità di Draghi, neanche a guidare un governo con alcuni dei partiti che compongono l’attuale maggioranza,.
Per quanto abbia mostrato di sapersi adattare ai riti della politica italiana, Draghi non ha mai nascosto – per rapidi accenni, battute e quel suo sorriso enigmatico che è un sommario di emozioni che oscillano tra l’ironia e un vago disgusto – una certa insofferenza per le liturgie, i conciliaboli, le richieste di verifiche, ecc..
Draghi non è un uomo double face, non è – absit iniuria verbis – un Giuseppe Conte qualsiasi che si dichiarò pronto a guidare due governi consecutivi con maggioranze alternative. Draghi non è l’uomo per tutte le stagioni.
E allora?
Andare alle urne in ottobre? Cioè facendo una campagna elettorale sotto gli ombrelloni?
Irrealistico e ridicolo, a parte il fatto, ripetiamo, che senza una nuova legge elettorale nuove elezioni rischiano non di semplificare ma di complicare il quadro politico. E di rendere il Paese ingovernabile.
Verrebbe quasi di ricordare, con qualche nostalgia ( si fa per dire) che manca la fantasia politica della Prima Repubblica dove si inventavano i governi ponte, i governi balneari, i governi di tregua, i governi di decantazione. L’Europa si metterebbe a sghignazzare e forse non solo l’Europa.
Se Draghi non si dichiarerà disponibile a un ulteriore sacrificio ( guidando quale governo, poi? E con quali forze?), la soluzione più realistica potrebbe essere quella di un governo elettorale, che duri sei mesi, un governo di scopo che faccia la legge elettorale, la manovra di bilancio e conduca il Paese alle urne in febbraio – marzo (si è votato anche in inverno, qual è il problema?).
Ma guidato da chi? Certo non da Draghi, per i motivi su ricordati. Allora toccherebbe a una personalità al di fuori dai partiti belligeranti o falsi alleati, una riserva della Repubblica. Già qualche giornale ha lanciato dei nomi, ma noi non amiamo buttare le persone nel tritacarne del chiacchiericcio.
Non bisogna sottovalutare l’importanza della legge elettorale: di una legge che dia ai cittadini il potere effettivo di scelta dei propri rappresentanti e non quella di porre una crocetta ai candidati scelti dalle segreterie dei partiti e spesso messi in lista per premiarne non la capacità ma la più o meno ferrea fedeltà al capo partito.
Ormai i cocci della maggioranza sono rotti, e neanche il più grande vasaio del mondo saprebbe ricomporli: troppe le spinte centrifughe, troppi gli appetiti, troppa la smania delle elezioni subito (?!). E troppo poco il senso di responsabilità, ma soprattutto troppo scarsa sul mercato della politica quella che è ormai una merce rara: la capacità di trattare, di trovare insieme soluzioni alte, di uscire dal recinto degli stretti interessi di bottega. In nome dell’amore per l’Italia, per questo Paese che meriterebbe ben altro e non una edizione fuori stagione dei carri di carnevale.
Ormai ciascun capo partito pensa alle percentuali che gli assegnano i sondaggi.
Qualcuno gongola, qualcuno spera. E qualcuno dovrebbe tremare. Ma esiste anche il cupio dissolvi.
Pangloss