Politica

Meloni, Almirante, Andreotti

“Me sto a morì”: a bassa voce, ma non da non potersi percepire, arriva un fuorionda durante la conferenza stampa di inizio d’anno della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nell’Auletta dei Gruppi di Montecitorio, in diretta Rai. Un fuorionda lì per lì sibillino, che lasciava comunque intuire un momentaneo disagio non ancora decifrato. Poi arriva la spiegazione: l’on. Meloni, dalla cui bocca era partita quella esclamazione- allarme, avvisa i giornalisti con simpatico garbo: ho bisogno di andare al bagno. D’altra parte, è inevitabile che un oratore, che ogni tanto mette mano alla bottiglia di minerale, rispondendo alle domande, col passare delle ore possa incorrere nella situazione che “natura premit”. E alla natura si può comandare, ci ricorda Bacone, solo se le si ubbidisce. Con leggerezza e senza alcuna sottolineatura di sorta, che sarebbe del tutto fuori luogo, questo episodio, che se vogliamo umanizza il personaggio del presidente del Consiglio, ci ricorda due episodi che in qualche modo hanno a che farci. Partiamo da quello più lontano: 1970, alla Camera dei Deputati il Movimento Sociale Italiano conduce una strenua battaglia ostruzionistica per non far passare la legge che istituiva le Regioni a statuto ordinario. Una riforma prevista dalla Costituzione in una delle sue disposizioni transitorie che invitava il Parlamento a provvedere in tempi brevi. Dal 1948, anno dell’entrata in vigore della Carta, erano già passati 22 anni. Qualcuno, pensando a che cosa sono diventate con gli anni le Regioni, costosi carrozzoni burocratici che hanno stremato le casse dello Stato, potrebbe commentare: ne fossero passati altri 22, di anni. Ma questa è un’altra storia. Ricordiamo invece che campione dell’ostruzionismo missino fu il segretario del Msi Giorgio Almirante, il quale parlò per 16, chi dice 17,  ore di seguito ( sono le regole dell’ostruzionismo: se uno si interrompe, sia pure per andare al

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Cultura

I corsivi di Pangloss. Patriota? On. Meloni, le parole sono importanti!

Recita l’enciclopedia Treccani alla parola patriota: “Persona che ama la patria e mostra il suo amore lottando o combattendo per essa: i patrioti del Risorgimento; le persecuzioni dell’Austria contro i patrioti. Durante la seconda guerra mondiale, furono così chiamati i partigiani, specialmente nel primo periodo della lotta per la Resistenza”. Ebbene, appena dopo l’elezione a presidente del Senato, l’on. Meloni si è congratulata con Ignazio La Russa, e tra l’altro lo ha appellato patriota. Una parola che nel gergo linguistico della Destra sovranista, specialmente nella declinazione più estrema, quella nazionalista, con la patria comunemente e tradizionalmente intesa ha poco o nulla a che fare. Di grazia: quali battaglie patriottiche ha fatto il neo presidente La Russa?  Questo episodio suggerisce una osservazione: a certi livelli – per esempio quelli istituzionali, e qui stiamo parlando della seconda carica dello Stato – un certo armamentario linguistico, on. Meloni, andrebbe messo nel cantuccio dei ricordi di una militanza appassionata quanto si vuole ma sempre di parte. Per assumere un registro lessicale di sovrano distacco istituzionale. La lingua, on. Meloni, glielo diciamo per consimili occasioni future, è come la frizione delle auto: può capitare qualche volta di slittare. E quindi seguitando di questo passo, c’è sempre il rischio che, magari pensando di parlare ai militanti della Garbatella, Lei rivolgendosi a La Russa finisca per chiamarlo “camerata”.   Pangloss

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Politica

E D’Alema dove prende il caffè la mattina?

“Mi chiedo dove il dirigenti del Pd prendano il caffè la mattina”. Con questa battuta, nel suo stile ruvido e spocchioso che è noto a molti antipatizzanti, Massimo D’Alema ha compendiato risultato elettorale del Pd commentando le sue critiche alla dirigenza di quel partito. La battuta di D’Alema è una piccola granata, e come sanno anche quelli che non hanno fatto come me il servizio di leva, la granata scoppia con effetti che colpiscono in tutte le direzioni. Proviamo allora a immaginare possibili risposte sottintese nella frase di D’Alema: dove prendono il caffè i dirigenti del Pd la mattina?  Nel salotto di casa? In bar esclusivi, dove non c’è traccia di impiegati, operai, giovani disoccupati? In qualche club esclusivo? In qualche circolo? O nel loro ufficio al ministero? In ogni caso, lontani dalla “ggente”, dalla pancia del paese, dalle voci di chi si lamenta, protesta, impreca. La battuta di D’Alema rischia di avere tante reazioni. La più ovvia, ma anche la più facile appartiene al tipo delle ritorsioni polemiche. Per cui: E D’Alema il caffè dove lo prendeva la mattina? Quando dirigeva il Pd e poi è passato, sulla scia della contestazione a Renzi – che peraltro faceva il suo giro elettorale cantando l’inno della rottamazione e portandosi appresso l’effigie dalemiana –al minuscolo partito “articolo 1 ( o Leu)”, che non è mai decollato e, nel naufragio della sinistra, è senza speranza ( anche se Speranza c’è ancora).   Pangloss  

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Politica

Una crisi al buio. Si scherza con il fuoco. Elezioni?! Prima la legge elettorale. Verso un governo che porti alle urne tra sei mesi

E così questa Italietta politica si è giocata anche Draghi. Tacciato di volta in volta come il banchiere algido, l’uomo dei poteri forti, l’uomo del “Britannia”, dove si decisero le privatizzazioni dei gioielli del Paese, o, nella versione di Cossiga, “il vile affarista”, ma di Cossiga, si può dire quello che Orazio scrisse su Omero, quandoque dormitabat (nei giudizi sugli uomini, in questo caso). Fatta la tara dei giudizi e delle etichette malevole, anche il Draghi politico  ha mostrato un profilo di serietà sconosciuto a molti leader e leaderucoli nostrani. Chiamato Da Mattarella al capezzale di un Paese eternamente sul filo della catastrofe finanziaria, ha fatto con dignità la sua parte e negli ultimi tempi aveva lanciato anche chiari, chiarissimi segnali, soprattutto ai suoi critici che dall’interno con qualche confusione picconavano le fondamenta della maggioranza. Sono stato chiamato a fare le cose, se me le lasciate fare, bene, altrimenti – aggiungeva sfidando monsieur La Palisse – non si fanno. Ma una cosa però l’ha detta con nettezza: non si governa con gli ultimatum. E il riferimento era chiaramente rivolto a Giuseppe Conte, che, su queste pagine, l’altro giorno, Pino Pisicchio ha raffigurato come l’incarnazione ( velleitaria, aggiungiamo noi)  del conte di Montecristo, che torna a consumare la sua vendetta (mai rassegnato alla perdita di Palazzo Chigi da cui si è sempre considerato ingiustamente defenestrato). Questa crisi arriva in piena estate, in un orizzonte che più complicato non potrebbe essere: la guerra con l’Ucraina  continua, benché sembri ormai più lontana nell’emozione della gente, ma sempre più vicina e scottante per gli effetti che ha sulla vita quotidiana ( pieno di benzina,  costi delle bollette, prezzi  del gas e della luce). L’inflazione ha rialzato pericolosamente la testa ( anche nella lontana America è oltre il 9 per cento), i contraccolpi già si

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Cultura

Una ipotesi su una frase topica del Gattopardo

“Quanto più le cose cambiano, tanto più restano uguali”. L’autore di questa frase è Alphonse Karr, giornalista, scrittore, aforista francese vissuto nell’Ottocento, autore di fulminanti battute satiriche che gli causarono anche guai giudiziari. Questo aforisma mi ha fatto venire in mente, per la sua stupefacente analogia, una celebre battuta che si legge nel Gattopardo, dove Giuseppe Tomasi di Lampedusa fa dire a Tancredi, nipote prediletto del principe di Salina, che lo dissuadeva dall’associarsi ai garibaldini: “Se li lasciamo fare, quelli ti combinano la Repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Questa frase è poi diventata il paradigma interpretativo – e purtroppo anche riduttivo  della ricchezza tematica e stilistica del sontuoso romanzo: quasi un emblema della negazione del progresso, del rinnovamento sociale e politico, che si ritiene fallace e ingannevole. Sarà stato forse per quella frase che Il Gattopardo – pubblicato postumo nel 1958, diventato un best seller mondiale  dopo il formidabile colpo editoriale di Giangiacomo Feltrinelli, tradotto in decine di lingue, come l’altro best seller Il Dottor Zivago, di un anno prima, scritto dal Premio Nobel Boris Pasternak – fu inizialmente scartato dalla casa editrice Einaudi. ( circostanza che può consolare gli aspiranti scrittori). Elio Vittorini, forse sviato dalle sue idee politiche, valutò negativamente il contenuto e disse no alla pubblicazione.. E così Tomasi di Lampedusa non poté vedere pubblicato  Il Gattopardo, che uscì pochi mesi dopo la sua morte, grazie all’intuito e al fiuto di un altro scrittore, ideologicamente meno prevenuto: Giorgio Bassani, al quale il libro era stato segnalato da Elena Croce, figlia del filosofo di Pescasseroli. La frase di Tancredi è citata spesso nei dibattiti e nelle aule parlamentari. E talvolta a sproposito. Come accadde a una deputata del centrodestra, di cui non faremo il nome (si dice il peccato non il peccatore)

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Cultura

Giornata della memoria | Non dimenticare o ricordare?

La giornata della memoria è stata istituita in Italia con una legge nel 2000, votata dal Parlamento all’unanimità. L’Italia anticipò le Nazioni Unite che solo nel 2005 si decisero a votare una risoluzione perché a livello internazionale fosse ricordato l’Olocausto. Perché il 27 gennaio? Quando nel Parlamento italiano si trattò di scegliere una data per ricordare la Shoah, ci fu chi propose di scegliere il 16 ottobre, perché in quella data del 1943 ci fu il rastrellamento nazista nel Ghetto di Roma, fatto all’alba e con atto vile e proditorio nonostante la consegna di 50 chilogrammi d’oro pretesi dal colonnello Herbert Kappler in cambio della incolumità. Invece oltre 1600 ebrei furono deportati in Germania e sterminati nei campi di concentramento. Ne tornarono solo 16. Ma poi, ha raccontato il sen. Athos De Luca, uno dei promotori di quella legge, si decise di scegliere una data non legata a un episodio solo romano per quanto tragico. La scelta cadde sul giorno 27 gennaio, perché in quel giorno del 1945 le truppe sovietiche arrivarono al campo di concentramento di Auschwitz (Oswiecim) in Polonia, e misero fine alla macchina infernale di morte e all’orrore dei campi. Furono poi scoperti, giorni dopo, altri orrori, montagne di corpi, perlopiù ridotti a scheletri,  fosse comuni, forni crematori che i nazisti, per non lasciare traccia dei misfatti, avevano invano cercato di distruggere prima della fuga. Alcune di quelle scene furono filmate da registi famosi, come Alfred Hitchcock. Ma non sono mancati coloro che hanno messo in dubbio anche questo, e hanno osato affermare che si trattasse di simulazioni, di fiction. Un orrore che si aggiunge all’orrore. Non dimenticare o ricordare? Sono dei sinonimi, ma non sono la stessa cosa. Non sono un linguista o un ermeneuta, e tuttavia osservo, e ipotizzo, che tra le due espressioni ci

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