Spigolature di mezza estate di un alto magistrato

La Russa, il riflesso di Pavlov, il "caso Toti"

La Russa e il riflesso pavloviano

Lo scienziato russo Ivan Pavlov, ai primi del novecento, per dimostrare l’esistenza del riflesso condizionato – ossia la risposta che un soggetto dà ad uno stimolo condizionante – diede corso ad un esperimento. Convinto che gli organismi animali ed umani associno uno stimolo ad un altro dando risposte non controllabili, utilizzò un cane ed associò, per diverse volte, la presentazione di un pezzo di carne al suono di un campanello. Ciò determinava nell’animale una accentuata salivazione, la quale, successivamente, venne prodotta anche dal semplice suono del campanello, senza che Pavlov gli desse effettivamente da mangiare. Il suono del campanello determinava, dunque, nell’animale uno stimolo incondizionato, che evocava una risposta condizionata, ossia la salivazione. Ciò vale non solo per gli animali ma anche – come detto – per gli umani.

Ignazio La Russa

Riflesso condizionato è sembrato essere, infatti, anche il comportamento del Presidente del Senato, Ignazio La russa, in occasione dell’incontro con la stampa, noto anche come “cerimonia del ventaglio”. Nel criticare, aspramente e severamente, l’aggressione squadristica di cui era rimasto vittima il giornalista della Stampa Andrea Joly ad opera di una decina di neofascisti di Casapound, il Presidente La Russa, ad un certo punto della sua narrazione, ha inconsciamente sentito “suonare il campanello” di Pavlov, identificabile nella comune (sua e di Casapound) area ideologica d’origine, ed ha finito col dire che Joly, in fondo, se l’era “andata a cercare” (Andreotti docet!), perché non si era qualificato come giornalista. Così, sostanzialmente, giustificando i neofascisti, o quanto meno ridimensionando la precedente critica alla loro condotta.

Quasi che per fare una foto o per riprendere in video una manifestazione pubblica, chiunque sia ad essere ripreso, sia necessario essere e qualificarsi giornalisti (magari con la scritta PRESS ben visibile). E se Joly fosse stato un normale cittadino, avrebbe potuto essere tranquillamente malmenato? O, al contrario, se si fosse qualificato come giornalista il povero Joly non avrebbe, forse, corso il rischio di subire conseguenze fisiche ben più gravi di quelle riportate?

Purtroppo, con la seconda parte del suo intervento il Presidente la Russa ha demolito la prima. Tutta colpa di Pavlov e … del suo riflesso condizionato.

Le dimissioni e l’asserito harakiri della politica

Le recenti dimissioni di Toti dalla carica di presidente della Regione Liguria hanno riproposto il vetusto tema del c.d. “primato della politica”.

Giovanni Toti

 

Toti risulta indagato per gravi fatti di corruzione ed altro e, per questo, ristretto agli arresti domiciliari, ma tutto ciò pare non aver rilievo per i suoi alleati politici (Crosetto e Salvini su tutti) e per quasi tutti i giornali di area, i quali  hanno aspramente criticato, oltre che l’operato della Procura, anche il provvedimento del Tribunale del Riesame di Genova (che ha confermato la misura cautelare in danno di Toti) affermando, fra l’altro, che le vicende giudiziarie “non devono condizionare le sorti di una carica politica o amministrativa legittimata dal voto popolare”; quasi che la classe politica fosse legibus soluta e non esistesse in Italia il principio della separazione dei poteri, in forza del quale la “Costituzione affida alla giurisdizione, che si pronuncia in nome del popolo italiano … il controllo di legalità anche nei confronti dei rappresentanti dei pubblici poteri, seppure eletti” (come ha ricordato in un comunicato la Giunta dell’A.N.M.).

Fra i tanti commenti che si sono letti sulla vicenda, uno dei più interessanti mi è parso quello di Alessandro Bernasconi, ordinario di procedura penale nell’Università di Brescia, apparso su “Il Giornale”.

Dopo aver premesso che l’indagine nei confronti di Toti è “allo stato niente più che una congettura… fondata sulle tradizionali sonde inquisitorie (intercettazioni e carcerazione preventiva)”  – viene da chiedersi, tuttavia, come l’eminente giurista abbia avuto conoscenza delle carte processuali per poter esprimere un siffatto giudizio – ed aver giudicato pienamente comprensibile “l’indignazione dei politici nei confronti della magistratura”, Bernasconi mette il dito nella piaga dell’asserita subalternità della politica, affermando che “nell’ultimo mezzo secolo la classe politica ha determinato lo spostamento del potere nei confronti dell’ordine giudiziario con due diversi approcci, ispirato l’uno dalla delega delle soluzioni di taluni problemi sociali, l’altro dalla subalternità (nei confronti della magistratura) che di quella delega fu la conseguenza”.

E come ciò sarebbe avvenuto?  Dopo il violento scontro politico degli anni settanta (che portò all’eversione armata) ed a causa delle esigenze di contrasto alla criminalità organizzata, la politica – secondo Bernasconi – avrebbe effettuato delle “cessioni di sovranità … al segmento più acuminato del giudiziario (le Procure)” con tutta una serie di leggi illiberali (“pentitismo”, sconti di pena e trattamento processuale, altri “arnesi di stampo autoritario”) e, soprattutto, con la previsione di una maggioranza qualificata per deliberare i provvedimenti di amnistia e indulto (che avrebbe accresciuto “in maniera smisurata il potere dei P.M.”, spingendo gli imputati al patteggiamento) e con la rinuncia “al sacrosanto scudo dell’immunità parlamentare”, compiuta nel 1993 con la modifica dell’art. 68 della Costituzione e l’eliminazione dell’autorizzazione a procedere ivi prevista.

Gli fa eco, in qualche misura, Angelo Panebianco (Il Corriere della sera del 30 luglio) sostenendo che le riforme istituzionali – prima fra tutte quella del premierato – rischiano di non vedere la luce per la resistenza che vi opporrebbero, fra gli altri, i vertici della Pubblica Amministrazione e, soprattutto, la Magistratura, la quale si sarebbe “intestata … quell’attività eufemisticamente definita di supplenza”, che “non troverebbe più spazio in presenza di governi forti e stabili”.

Ora, qualche considerazione su tali illuminate dissertazioni si impone.

In uno stato liberale di diritto, qual è il nostro, fondato sulla separazione dei poteri e sull’indipendenza di quello giudiziario, tocca a quest’ultimo il controllo di legalità, nei confronti di chiunque. A meno che non vi siano delle immunità normativamente previste (com’era un tempo con l’immunità parlamentare prevista dall’art. 68 della Costituzione, abrogata nel 1993).

Parlare di magistratura che ricatta e violenta la politica è, a dir poco, insensato. È come sostenere che un bel giorno il Procuratore della Repubblica di Genova abbia deciso di prendersela col presidente della Regione e ne abbia richiesto, per capriccio o altro biasimevole motivo, la restrizione cautelare.

In realtà, prima di quella richiesta c’è stata, probabilmente, la denuncia di qualcuno, una notitia criminis sulla quale sono state svolte indagini dalla Polizia Giudiziaria; queste indagini hanno portato un carico indiziario nei confronti di Toti e degli altri indagati per reati per i quali è possibile l’adozione di una misura cautelare; sulla base di quel materiale raccolto è stata formulata ad un giudice (predeterminato per legge e non scelto dalla Procura, come qualcuno sembrerebbe adombrare) la richiesta di misura cautelare; il Giudice ha ritenuto sussistenti i presupposti per l’adozione della misura, disponendo in danno di Toti e degli altri la restrizione domiciliare o in carcere, la quale ha, poi, trovato ulteriore conferma anche nella pronuncia del Tribunale del Riesame.

Tutto secondo le previsioni del codice di rito. Dopo di che ci sarà un processo, nel quale si procederà alla validazione – o meno – della prospettazione accusatoria e l’esito potrà essere di condanna, se le prove addotte confermeranno l’accusa, o di assoluzione se tali prove mancheranno o saranno insufficienti.

Questa, in uno stato di diritto, è la fisiologia del processo, e vale per qualsiasi cittadino, politico o non politico. Se, poi, si vuole una sorta di immunità della politica, è la politica che se ne deve assumere la responsabilità: ripristinando l’autorizzazione a procedere per i parlamentari, o magari estendendola anche ai Consiglieri regionali, provinciali e comunali, determinando in tal modo una sorta di “immunità di censo o di ceto”.

Quanto ciò sia compatibile con l’art. 3 della Costituzione la giudicheranno, poi, i cittadini.

Immunità parlamentare

A proposito di immunità parlamentare, nella mia carriera mi è capitato una sola volta di imbattermi in essa. Ero Pretore in Piemonte e ricevetti una querela per truffa nei confronti di un parlamentare del Partito comunista, accusato di aver conseguito delle prestazioni da parte di un cittadino, che l’onorevole aveva “pagato”, rilasciando assegni privi di fondi. L’ipotesi di reato era quella di truffa e di emissione di assegni a vuoto (che, allora, costituiva reato). Espletate le prime indagini per verificare un minimo di fondamento all’accusa, inviai alla Camera dei Deputati la rituale richiesta di autorizzazione a procedere.

Dopo oltre un anno giunse la risposta della Camera: autorizzazione negata, in quanto trattavasi (lo ricordo ancora) “di attività lato sensu politica”, posto che gli assegni a vuoto erano stati emessi per finanziare la campagna elettorale dell’indagato. Ineludibile la conseguente archiviazione.

È questo che si vuole? Allora lo si dica expressis verbis e si agisca di conseguenza, ripristinando ed anzi estendendo “il sacrosanto scudo dell’immunità” (Bernasconi dixit), ma la si smetta di accusare, sempre e comunque, la magistratura di ogni nefandezza.

 

 

Roberto TanisiMagistrato, già presidente di Tribunale e di Corte d’Appello

 

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