Sanremo, fra déjà vu e finte provocazioni. Dov’è la musica? E i testi?

Un’analisi della kermesse canora, con un'occhiata a Benjamin e Adorno

Ancora una volta, la settantaduesima, siamo sopravvissuti al Festival di Sanremo: ineluttabile come le stagioni ma, nelle sue variabili, rinfrescante come la pioggia o asfissiante come la canicola. Meglio chiarire subito che la vittoria di Mahmood e Blanco, con Brividi, pur nella modernità segna una sorta di felice sintesi tra il nuovo mainstream generazionale e una ballata dal sapore neoromantico, con tanto di pianoforte e tappeti orchestrali con predominio degli archi.

Ma è del Festival come specchio dell’orientamento nazionale che qui si tratta. Scriverne come sto facendo io, che non sono un rocchettaro/poppettologo certificato, può essere un esperimento azzardato e addirittura masochistico. Persino suscitare in qualcuno reazioni pavloviane e scomposte, con la taccia di essere datato, passatista, codino. Ma di tornare indietro non mi sento. Chissà che qualche aficionado non trovi la forza di seguirmi sino alla fine. 

Sono circa una sessantina d’anni che ascolto musica classica; quando mi fu regalato il mio primo disco, la Quinta di Beethoven, non avevo ancora completato la seconda dentizione. Sentivo anche l’Opera e sempre di rimbalzo da mia madre; che aveva studiato il pianoforte ed era melomane, ma amava la trasversalità della musica, compresi diversi sottogeneri di Jazz, sebbene non tutto. 

Ciò però non ci ha impedito di ascoltare anche quella che, con una dizione tra le più ambigue e confusionarie possibili, si suole definire “musica leggera”. Pur ritagliando fuori dalla musica leggera la popolare, il folk-etnico, la ballata autoriale e altri sottogeneri più di nicchia, ormai mi resta comunque difficile fissare un ubi consistam per la musica che si può sentire in una manifestazione come quella di Sanremo. Questo, quindi, è soltanto un mio personale tentativo. 

Fino all’era dei così detti “urlatori”, dei “capelloni”, dei “complessi” (termini che oggi possono fare l’effetto di chi, senza ironia, si presentasse alla ribalta dell’Ariston con le ghette e in blazer a doppio petto) il passaggio, o meglio la serie dei passaggi che avevano decretato il tramonto del genere melodico era stata abbastanza schematica. O, quanto meno, rintracciabile nelle grandi linee. 

Le regole le dettano le case discografiche, i metodi di riproduzione, ormai totalmente digitalizzati, hanno superato i vecchi supporti rotondi e piatti (che mi pare si chiamassero dischi), la lingua dei testi è sostanzialmente un pidgin-English. Diffusissimi, forse maggioritari, i generi rap e, più recentemente, trap, che ne è, per così dire, la filiazione.

Rispetto al mainstream rock, il Festival ligure in questo fa eccezione, perché tra i pochi lineamenti della competizione che resistono dalla prima edizione c’è quella dell’obbligo che i brani presentati siano, oltre che inediti, in lingua italiana o, come avrebbe detto Tullio De Mauro, in una lingua locale (dialetto) dell’Italia. 

A Sanremo, quest’anno secondo me accentuando una tendenza già riscontrata da alcune edizioni in qua, si è esasperata una maniera di cantare “ingoiando” il microfono ed emettendo bisbigli a fior di labbra, per di più scoprendo i denti superiori in una specie di ghignetto che rende il testo ancora più incomprensibile.

E, fatte salve poche eccezioni, dopo che non si è capito (quasi) niente della parte introduttiva, segue in genere una esplosione di decibel di voce, con batteria e bassi tonitruanti, che se prima non si percepiva quasi niente adesso in compenso non si capisce pressoché nulla. Allora, mi sono detto certe volte, converrebbe eliminare quella disposizione autarchica e consentire ai parolieri e/o autori di esprimersi anche in inglese, swahili o inuktitut. Tanto l’effetto non sarebbe troppo dissimile.

Con circa 7.000 lingue parlate nel mondo gli autori avrebbero di che sbizzarrirsi. In questa edizione del Festival, a scorrere i nomi di alcuni giovani artisti presentatisi sul palco sanremese – Highsnob e Hu, Rkomi, Tananai, Yuman, Aka 7even, ecc. – si evince che già si è in pieno, ancorché forse inconsapevole e fasullo, tribalismo. 

Una carrellata sui brani in questione, comunque, mostra che un evento del genere è un epifenomeno che (per deteriore che possa sembrare ad alcuni, tra i quali, confesso, il sottoscritto) non è né ascrivibile al solo ambito canzonettistico, né sbrigativamente o snobisticamente eliminabile.

Se ci si basa sulla qualità della voce, sulla tecnica vocale, sullo studio della musica e della sua storia, un paragone tra quello che si sente oggi in una manifestazione come Sanremo o in un talent-show come X-Factor spesso porterebbe a liquidare certi performer con una facile etichetta di pseudo-cantanti o para-artisti.     

 

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Forse, se dovessi giudicare dai miei gusti e dalle conoscenze che ho del loro mondo, tali sono. Eppure (mi sia concesso almeno un “purtroppo”) sono loro che segnano la temperie performativa di oggi e concorrono alla formazione del gusto, dando la misura delle tendenze artistiche del XXI secolo, nel quale siamo ormai addentrati fino quasi a un quarto. 

Voler rapportare ciò che si sente e, vorrei dire, soprattutto si vede oggi in ambito musicale, alla musica che si inquadra in un “canone”, è una operazione vana e forse ontologicamente sbagliata in partenza. Oggi in un “laboratorio” come quello di Sanremo, che rispecchia l’andamento della società nelle sue componenti più giovanilistiche, senza scomodare Walter Benjamin o Theodor Adorno l’unico canone cui ci si può rifare è che un canone non esiste. 

Chiamare in causa categorie come gusto, prassi esecutiva consolidata, qualità di mezzi naturali, studio del solfeggio, riproducibilità (ancora Benjamin!) del fatto artistico, è sostanzialmente privo di senso. Però aver timore che ciò porti alla fine dell’arte penso (malgré moi) che sia un’altra operazione altrettanto inutile.

Credo che questa sia una fase di passaggio verso uno sviluppo da venire, che come sempre non è rappresentabile programmaticamente con operazioni di ipoteca del futuro, ma sarà riscontrabile appena al momento. In questo campo l’unica legge sovrana pare essere il “qui e ora”. 

Se quanto ho esposto sinora riguarda essenzialmente l’esperienza musicale, ancora più sconcertante credo si possa definire una disamina dei testi. Citando alla rinfusa, in modo estremamente superficiale e parziale, di fronte alle parole come quelle di Chimica (autori Ditonellapiaga e Rettore) non c’è gran che da dire e forse neanche da sentire: “Non conviene se lo fingo… non mi servono parole/ per un poco di piacere/ è solo questione di chimica chimica/ chi-chi-chi-chi-chi-chi/ chimica chimica… / non m’importa del pudore/ delle suore [delle “suore”?!, n.d.r.] me ne sbatto totalmente…/ La mano sulla coscia incalza…/ è solo questione di chimica”.

E a proposito di formule ed elementi, mi viene in mente Un chimico di Fabrizio De André e mi lascio trascinare in un paragone sconsiderato, come potrebbe essere quello tra La vispa Teresa e Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. 

Ma c’è di peggio. C’è un certo Lauro De Marinis, un trentenne veronese che per qualche insondabile (almeno per me) motivo ha scelto come nome d’arte Achille Lauro, mutuandolo dal noto armatore monarchico e neofascista che fu sindaco di Napoli e che pare ottenesse l’elezione in Parlamento regalando alla gente dei “bassi” un’unica scarpa, riservandosi di far arrivare l’altra solo dopo il risultato a lui favorevole.

Ebbene, l’Achille Lauro di oggi è uno dei cantanti più noti, capace di trascinare migliaia di fan adoranti ai suoi concerti. Come quasi tutti gli artisti di moda, ha una fissazione per i comportamenti trasgressivi. O meglio, quelli che lui crede essere trasgressivi mescolando ingredienti che ormai sono provocatorii come può esserlo un pupo di tre anni che portandosi le manine alla bocca guardi la mamma esclamando “culetto” con fare birichino. 

Per épater le bourgeois sono alcuni anni che le studia tutte. Nel vestire, nei tatuaggi (argomento che da solo meriterebbe, si fa per dire, un ponderoso saggio) che gli ornano con varie scritte guance, zigomi, un occhio e chissà che altro; nella gestualità, abbastanza ripetitiva, che si basa su una reiterata constatazione italica, vale a dire il comprovare con mano che tutti i propri attributi sono sempre al loro posto. 

Deve tenerci davvero tanto il buon Lauro, e a 31 anni forse non gli si può dare torto. Quest’anno, oltre al solito repertorio, in prima giornata del festival ne ha escogitata una nuova, che ha suscitato l’indignazione (più d’ufficio che altro, mi è parso) dell’Osservatore romano: prima di cantare ha preso una conchiglia con dell’acqua e se l’è versata in testa a mo’ di battesimo. Il tutto a piedi nudi e con crocifissi appesi ai lobi come pendenti, ravanandosi nel contempo là dove a un pugile sarebbe proibito colpire.

Per soprammercato, come vocalist ha scelto sei opime cantanti nere facenti parte dell’Harlem Gospel Choir. Tali aspetti per così dire coreografici hanno naturalmente irritato il mondo cattolico, sebbene, dopo anni che ripete più o meno le stesse cose, anche il più retrivo dei prelati avrebbe dovuto farci l’abitudine. Quanto ai testi delle sue canzoni, gli ingredienti, variamente rimaneggiati, sono “Rollin’ Stones Rollin’ Stones, Rock and Roll/ sì no, droga/ overdose/ oh sì oh no ah ah”. 

Tutto questo e molto altro (con 25 canzoni non mancava la carne al fuoco e, se è per questo, anche all’aria) è passato sotto l’occhio attento eppure indulgente di Amadeus, “bravo conduttore” se altri mai, nonostante la testa luciferina alla quale, per impersonare il ruolo, mancherebbero solo i classici cornetti rossi.

Ma si capisce che sarebbe un demonio innocuo, al quale non interessa ghermire le anime di nessuno, ma soltanto impinguare i numeri dell’auditel. Ricorda Geppo, il diavolo buono di una serie di fumetti prima dell’era dei comics giapponesi. 

Un’ultima rapida annotazione, fra tante altre che se ne potrebbero fare, riguarda i “vecchietti” del Festival. Veterani coraggiosi (ad accostarsi a simili colleghi) come Massimo Ranieri, rinsecchito da mancarci poco che sul suo teschio si leggesse “omo”, come su quello del Conte Ugolino; Iva Zanicchi, rimpannucciata a forza di botulino e chissà che altro, che con sprezzo del ridicolo ha magnificato le pulsioni erotiche della terza età; Loredana Bertè, che a forza di silicone ha trasformato in una specie di maschera della antica fabula atellana il bel volto che un tempo fece breccia nel cuore del grande tennista Björn Borg; Orietta Berti, presente come ospite e non da concorrente, che nelle diverse serate, per passare inosservata, si è vestita da piumino di cipria, da Fata Turchina e da qualcos’altro che non ricordo; e poteva mancare Gianni Morandi, un po’ meno eterno e non più ragazzo? 

Adesso è cresciuto e, come dicevano le vecchie zie, “si è fatto un ometto”. Un ometto di 77 anni che in tandem col suo amico Jovanotti aveva già vinto la sezione “cover” (di se stesso) e nella finale tra sabato e domenica, con Apri tutte le porte ha ottenuto un incredibile terzo posto con un brano originale da Sanremo vecchio stile; avanti a lui Elisa, vincitrice del Festival 21 anni fa, il cui brano O forse sei tu, è di impianto meno tradizionale rispetto a quelli di Morandi, ma molto lontano dal filone “provocatorio” predominante. 

Elisa è stata sino all’ultimo la favorita di questa 72/ma edizione, poi aggiudicatasi dal duo Mahmood e Blanco. Anche questo, come nelle scelte politiche, a conferma che il nostro è un paese spaccato a metà. Si fa presto a dire “canzonette”.

 

Carlo Giacobbe – Giornalista, scrittore, melomane

 

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