Riletture/ Guido Gozzano, un dandy dissimulato

Spesso incluso e confuso nel movimento dei Crepuscolari, Guido Gozzano si staglia su di loro con una sua purezza, oserei dire assolutezza lirica che – rovesciata- ha la stessa importanza dell’avventura dannunziana.

Guido e Gabriele furono entrambi cultori del dandysmo, ma se il pescarese declinò la religione del bello e il bisogno ardente di singolarità in forme sonoramente evidenti e atteggiamenti esibiti, il torinese nascose la sua repulsa dei valori borghesi fingendo di accoglierli e facendone il focus della sua poetica, che potrei definire “del modular modesto e timoroso”. Ma non riesce a nascondere l’alta letterarietà del suo prosaico poetare, la raffinatezza del suo gusto, per quanto cerchi di dissimularle nell’esibire l’artificio citando le fonti proprio mentre rovescia i miti del dannunzianesimo corrivo ( eros, donna, automobile, eroe, attivismo..).

In questo consiste l’effetto paradossale che ottiene, quello di risultare molto più “aristocratico” del vate abruzzese. Mentre racconta la vergogna di essere poeta di quel coso con due gambe detto Guido Gozzano, canta il peana più convincente alla bellezza come valore irrinunciabile per l’uomo. Stesso paradosso ottiene quando, “fingendo” aridità sentimentale, canta amori improbabili con cocottes, servette e “signorine” ( che brutta parola, degno prodotto del nostro tempo….) e li affida a versi lucidissimi in cui intreccia aulico e prosaico, facendo rimare Nietzsche con camicie. Versi parnassiani li definì Montale, indicando con quell’aggettivo una scelta estetica consapevole e un gusto per il cammeo prezioso, il lavoro di lima di un “verso che colma e sostiene la strofa” nascondendo i dislivelli, i salti in aria così frequenti nei grandi lirici.

Un riconoscimento dovuto che poteva provenire solo da chi ne aveva anche assorbito la lezione, insieme all’attraversamento inevitabile di D’Annunzio. Amo leggere Gozzano (ecco, viene da sé l’assonanza) e le sue rose non colte. Mi pare superfluo ricordare la simbologia erotica della rosa che risale a Claudiano, mentre è bene notare che solo nel poeta torinese, grazie alla retorica della doppia negazione ( non amo che le rose che non colsi –Cocotte- ), quest’antica rosa poetica si presenta a noi cadenzata in forma di cantilena quasi infantile, di aforisma insieme ammiccante e vagamente triste. In questa poesia – che è racconto con parti dialogiche – un piccolo Guido riceve un bacio sulla bocca “di tra le sbarre” da una cattiva signorina, sentenzia la mamma sdegnata ( una Co-co-tte.. La strana voce parigina/dava alla mia fantasia bambina/ un senso buffo d’ovo e di gallina), scatenando la fantasia del figlio che immagina fate, malefici, arti oscure degne della maga Circe; e che poi con innocenza fanciullesca chiede alla cattiva signorina se è una Cocotte, provocandone l’improvvisa reazione: Perdutamente rise ..E mi baciò/ con le pupille di tristezza piene. L’adulto ora la re-voca, la richiama in sogno come unica donna amata. Un adulto che conserva lo stupore del fanciullo tenero e antico/ che sospirava al raggio delle stelle/, che meditava Arturo (scil. Schopenhauer) e Federico (Nietzsche),[..] che seppelliva le rondini insepolte,e dava un’erba alle zampine delle/ disperate cetonie capovolte, come ricorda nella conclusione della lirica I Colloqui che dà il titolo a tutta la raccolta.

Un adulto che sa ritrovare e rimpiangere la grazia maliziosa del piccolo folletto quattrenne, che nella filastrocca infantile La via del rifugio, supino nel trifoglio aveva visto il quadrifoglio che non avrebbe raccolto e che proietta così nel passato la scelta di un’altra sua arte: quella di sapersi fermare nella ricerca della felicità, di lasciare che le cose siano al più durature, poiché non saranno mai per lui “eterne”. La scelta anche di una poetica che abbassa ironicamente la rosa a quadrifoglio, senza cessare di contribuire al sogno, di nutrire la sua vita e i suoi versi così stanchi.

Quello di Guido è un sogno nutrito di abbandono, di rimpianto, il sogno di un dandy costretto alle sbarre del vivere borghese, ma che sa come evaderne costruendo miti antidannunziani: spazi domestici e personaggi miseri, soffitte polverose, armadi canforati, amori “pallidi”, salotti beoti, pettegoli, bigotti/ come ai tempi del buon Re Carlo Alberto…Quelli della sua Torino, dove Guido nasce e muore, città celebrata nei Colloqui in sestine, la terza delle quali in dialetto, cioè nella lingua naturale, il parlare “nel quale penso e l’unico che mi giunga al cuore”.

Una Torino pavida e altezzosa, elegante e civettuola, il cui volto è quello di  una stampa antica bavarese, e della maschera Gianduia che ride e singhiozza, con edifici miseri e grigi, ma anche vecchiotta e intima, domestica e consolatrice come una balia, insomma una città crepuscolare cui fa sempre ritorno e dove sempre lascia la metà di sé stesso. Perché amo Gozzano, mi chiedo oggi, ipotizzando una malinconia sotterranea in comune: amo quella particolare  velatura malinconica e ironica che scolora ogni sua lirica, dalla più breve ai poemetti più lunghi, fino allo splendido réportage in prosa sull’India dal suggestivo titolo Verso la cuna del mondo, scritto dopo il “viaggio fatto per fuggire altro viaggio”, mosso cioè dal tentativo-impossibile- di curare la sua malattia mortale.

Un libro inquietante in cui Guido esprime la propria sensibilità tormentata, l’indole esotico-decadente sensibile alla fascinazione che su di lui esercitano immagini di disfacimento e di morte: una sorta di terapia d’urto nei confronti dell’incombente fine. Poeta- dicevamo- letteratissimo, egli gioca con i suoi stati d’animo, atteggiandosi a buon sentimentale giovane romantico e sconfessandosi subito dopo: quello che fingo d’essere e non sono. Liquida così le pose psicologiche tardo-ottocentesche e tutta una stagione dell’arte borghese verso la quale rivolge la sua ironia ovunque diffusa. Un’ironia che- se è la giusta ipotesi ermeneutica- si configura come intelligenza critica e fa di lui il primo poeta del Novecento. Basta non assecondare il suo disincanto, il respiro morbido del suo verseggiare, non cadere nella trappola delle buone cose di pessimo gusto.

Non si tratta di versi di uno scolare corretti da un serva ma di una straordinaria abilità versificatrice, che illumina anche agli oggetti più scialbi, i volti più comuni e meno attraenti cantati con scaltra raffinatezza. Insufficiente mi sembra per tale complessa poetica la definizione di dannunzianesimo rientrato, se non nel senso che la sua poesia non celebra ma rivela il disagio della parola poetica, la “vergogna” di essere poeta in una società come quella borghese che piega l’arte ai meccanismi del mercato.

Più dandy dello stesso padre del dandysmo, Baudelaire, questo esteta disincantato e melodrammatico sfiora continuamente nelle sue liriche la parodia, cantando ed estetizzando il quotidiano, come fa l’arte liberty. Nella ricca galleria di ritratti femminili che ci regala, ogni figura, come e più delle altolocate donne dannunziane, reca un tocco di minuzioso incanto, evoca oggetti e costumi vagheggiati con delicatezza affettuosa, con la malinconia delle cose perdute (il balenìo dei denti, le ciglia troppo bistrate, la bocca vermiglia, la gola palpitante e nuda…l’incantesimo del tempo…).

Mentre lo rileggo lo immagino come un abile percussionista bambino, che esegua melodie complesse facendo risuonare qualunque superficie, non solo la cristalleria. Aveva torto Giuseppe Antonio Borgese a non distinguerlo nettamente dagli altri coevi “lirici che si annoiano e che cantano una sola emozione” (1910), a non riconoscerne la strumentazione diversa, la raffinata densità letteraria racchiusa, mascherata, dissimulata nella cascante colloquialità.

L’artificio grazie al quale Guido sa sorridere di se stesso, sa ironizzare sulla prospettiva di morte prematura, sulla Signora vestita di nulla che è il suo grande amore, insieme all’amica Amalia Guglielminetti. Guido scherza con la vita per demitizzare la morte. Più che esorcizzarla, la seduce, la chiama a sé come belle dame sans merci, danza con Lei e con la sua scandalosa compagna in un triangolo erotico sorprendente. Lo fa continuamente nei suoi versi con i quali crea un altrove temporale e spaziale che ha i tratti del sogno, dell’impossibile, sempre passati però al setaccio del verista e dell’ironia.

“Chi m’avesse mai detto che avrei tentata la musa tubercolotica!” – esclama in una lettera a Giulio de Frenzi del 28 giugno 1907- la musa del buon Lorenzo Stecchetti cui dedica un sonetto chiamandolo finto morituro e scherzando nell’ultima terzina sulla propria condizione: Io non gemo, fratello, e non impreco:/ scendo ridendo verso il fiume oscuro/ che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio. Precettore di un’incomparabile ars moriendi , G.G.G ( così si firmava con civetteria Guido Gustavo Gozzano) usa l’ironia come scudo raffinato e cura intellettuale all’angoscia, alla malattia, alla morte.

Maestro anche dell’arte di fingersi libero e disinvolto seduttore di “cameriste e crestaie”, in realtà, come Kafka, Gozzano teme l’amore, quello con la A maiuscola, il sentimento potente e tormentoso, cui si sottrae con meticolosa cura per cantare gli amori ancillari rapidi e non impegnativi: [..] Gaie figure di decamerone,/ le cameriste dan senza tormento,/ più sana voluttà che le padrone. / Non la scaltrezza del martirio lento, non da morbosità polsi riarsi/ e non il tedioso sentimento/ che fa le notti lunghe e i sonni scarsi, non dopo voluttà l’anima triste:/ ma un più sereno e maschio sollazzarsi. / Lodo l’amore delle cameriste!

 Controcanto ironico agli amori dannunziani e demitizzazione delle pose dell’esteta Gabriele che però Guido, l’avvocato, ha ammirato e su cui si è formato. La sintesi di questo personaggio- che è anche il suo doppio- è Totò Merumeni (forma degradata dell’Heautontimoroúmenos baudelairiano) che nella sua villa decadente e nel suo giardino incolto ricorda un passato definitivamente scomparso, soffocato dai rumore delle autovetture dei nuovi ricchi, i parvenus “villosi forestieri” che profanano quel luogo di memorie malinconiche. Inetto e sognatore, costretto a “vender parolette” Totò ha scelto l’esilio, ha rinunciato al sogno d’Amore e ha per amante la cuoca diciottenne. In questo Eden desublimato gioca coi suoi dolci compagni sull’erba che l’invita: / i suoi compagni sono: una ghiandaia roca,/ un micio, una bertuccia che ha nome Makakita…

Devo chiudere. Ho capito, ripercorrendo al volo la sua opera in versi, perché amo così tanto Gozzano, soprattutto in questa stagione della mia vita, in cui- come lui allora- avverto la fine di una civiltà intera. Lo amo per la stessa ragione per cui amo i tramonti.

 

Caterina ValcheraSaggista

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