Senza alcun pregiudizio ma con l’animus e lo spirito dello studioso di questioni costituzionali Giuseppe Lauricella, che è professore di Diritto costituzionale nell’Università di Palermo e ha scritto numerose pubblicazioni sulla nostra Costituzione, sui regolamenti parlamentari, su problemi attinenti al Diritto pubblico, affronta nell’ultimo suo lavoro i temi della forma di governo, attualmente al centro del dibattito politico in Italia.
Nel libro, che si segnala anche per la estrema chiarezza espositiva, la notevole forza argomentativa, sorretta da una squisita sensibilità democratica e arricchita dalla esperienza del docente e del parlamentare, si leggono pagine di grande interesse sui lavori preparatori della Costituente, sul dibattito che riguardò la forma di governo, la divaricazione tra chi – la Dc-intendeva dare alla figura del Capo del Governo un ruolo preminente, e chi – le sinistre – preferirono, e alla fine imposero, un ruolo meno forte di chi doveva guidare il governo, in favore di una collegialità di decisioni da affidare all’organo appositamente costituito, il Consiglio dei Ministri.
Il dibattito nell’Assemblea Costituente
Alla guida del governo, che non si chiamò più primo ministro ma presidente del Consiglio, la Costituzione elaborata dai padri costituenti affidò il compito di dirigere (non di decidere!) la politica generale del governo, di coordinare l’attività dei ministri ecce cc.
Questo depotenziamento della figura e degli effettivi poteri del presidente del Consiglio (non di Capo del governo, frase usata ai tempi del fascismo e che se un giornalista la usasse oggi sarebbe sanzionato dal suo direttore) aveva una spiegazione, politica, psicologica e storica: l’Italia era appena uscita da una dittatura ventennale, c’era la paura dell’uomo forte, dell’uomo solo al comando.
Il presidente del Consiglio in Italia figlio di un ‘’dio minore’’
La conseguenza di ciò fu che il presidente del Consiglio italiano è sembrato in questi anni, in confronto con i suoi colleghi stranieri, il figlio di un dio minore: non poteva, non può, licenziare un ministro rivelatosi inadeguato al compito, non può scegliersi i ministri, può cadere con il suo governo facilmente come un birillo senza che il parlamento venga necessariamente sciolto. Abbiamo assistito in oltre 75 anni, dall’entrata in vigore della Costituzione, a governi che stavano come d’autunno sugli alberi le foglie; duravano mediamente un anno, anche meno, con le eccezioni dei governi di De Gasperi, Berlusconi, Craxi e, finora, Giorgia Meloni.
Un quadro di instabilità politica – ti ritrovo alla prossima riunione? si sentivano domandare i ministri italiani alle periodiche riunioni europee – un quadro di provvisorietà, talvolta di ingovernabilità. Anche se- lo scrive bene l’autore, citando anche Costantino Mortati – non bisogna confondere l’instabilità con la (in)governabilità: la stabilità non riguarda la permanenza più o meno lunga delle persone su una determinata poltrona ma la continuità dell’indirizzo politico. Tanti governi a guida dc sono stati instabili ma il filo di continuità, anche programmatica, non veniva spezzato. E il programma veniva portato avanti.
La riforma Meloni parte da alcune criticità da superare
La proposta di riforma del governo, che prevede la elezione diretta del presidente del Consiglio, muove da queste numerose criticità riscontrate negli anni. E su questo Giuseppe Lauricella non ha molto da eccepire, anzi condivide. Anche se sul piatto della bilancia della instabilità, egli giustamente mette altre questioni pesanti: lo spostamento del baricentro politico dal Parlamento al governo, lo snaturamento del ruolo del parlamentare a causa dell’abuso di decreti- legge, dei voti di fiducia E, dulcis in fundo, si fa per dire, l’autore cita le ultime leggi elettorali che hanno trasformato le Camere in un Parlamento di nominati, di fedelissimi dei segretari di partito che li inseriscono in liste bloccate; con buona pace della rappresentanza e della rappresentatività, per cui l’eletto si sente più legato a chi lo ha inserito in lista che all’elettore che lo ha votato.
Lo specifico della riforma Meloni, “caso unico al mondo”
Ma ora veniamo all’analisi specifica della riforma meloniana della elezione diretta del presidente del Consiglio. Intanto una premessa di principio, sottolineata dall’autore: le ragioni della stabilità e della rappresentanza, che ispirano la proposta dell’elezione diretta del presidente del Consiglio, possono essere attuate e garantite ANCHE CON ALTRI SISTEMI, come insegnano esperienze di altri Paesi di consolidata democrazia.
Il sistema proposto intanto è un caso unico al mondo, eccetto l’esperienza israeliana, rapidamente conclusasi in un nulla di fatto.
Ma che tipo di premierato è quello proposto dall’attuale presidente del Consiglio?
Non è un premierato di stampo inglese: il premier non è direttamente eletto dal popolo e però forma liberamente il suo governo, i cui ministri possono essere direttamente revocati dallo stesso premier. Nel sistema inglese, il rapporto di fiducia intercorre tra maggioranza ( della Camera dei Comuni) e il premier, che è anche il leader che ha vinto le elezioni.
Non è un Cancellierato, ( come in Germania): in quel sistema manca la elezione diretta del Cancelliere, il quale invece è eletto dal Bundestag, ha il potere – tramite il presidente federale- di nominare e revocare i suoi ministri e può essere sfiduciato( e sostituito) dopo l’approvazione di una mozione di sfiducia costruttiva da parte della maggioranza.
Non è neanche una forma di governo semipresidenziale di tipo francese: in Francia l’elezione diretta riguarda il presidente della Repubblica, che comunque presiede il Consiglio dei ministri, e con un governo guidato da un presidente del Consiglio che gode della fiducia dell’Assemblea nazionale;
Nel sistema proposto dal governo, riassume Lauricella, ci si trova di fronte a un sistema di governo in cui il presidente del Consiglio viene eletto direttamente dal popolo ma deve ottenere la fiducia (iniziale) da parte delle due Camere, e può essere sfiduciato e contestualmente sostituito da un parlamentare della stessa maggioranza.
Quindi? E’ un sistema ibrido, e la fiducia a un presidente eletto è incongruente
Più che un premierato, allora, è un sistema ibrido, che si potrebbe definire presidenziale a tendenza parlamentare, oppure se si guarda alla possibile sostituzione del premier si può definire presidenziale a tendenza cancellierale.
I punti deboli, i rischi di questa riforma
Secondo la proposta di riforma, se il presidente del Consiglio direttamente eletto viene sfiduciato, non si procede allo scioglimento delle Camere secondo il noto principio simul stabunt simul cadent ( o tutti e due in piedi insieme, governo e parlamento o cadono tutti e due insieme); ma il presidente della Repubblica nomina un altro esponente, della stessa maggioranza; solo se cadesse anche questo, si scioglierebbero la Camere.
Argomenta Lauricella: il presidente del Consiglio subentrante è effettivamente più forte di quello eletto: perché non può essere sostituito, perché detiene il deterrente dello scioglimento delle Camere ( se il Parlamento lo sfiducia va a casa insieme a lui). Vi è comunque il rischio di un candidato prestanome, ‘’mascherato’’, simulato per giungere alla sostituzione del premier eletto direttamente. In questo senso – osserva il costituzionalista Lauricella – la fiducia viene data al governo e al programma, consentendo la sostituzione del presidente eletto da parte della stessa maggioranza: tutto questo affievolisce di fatto la legittimazione, la rappresentatività e la forza del presidente eletto.
Una ipotesi suggestiva
Lauricella addirittura prospetta un’altra ipotesi a questo proposito: che una maggioranza presenti per la elezione diretta a premier un personaggio con un particolare appeal elettorale, insomma di maggiore popolarità, riservandosi poi di sostituirlo con un personaggio meno popolare ma più dotato di capacità politiche.
Sono fattori, questi, che snaturano la forma di governo che si intende introdurre, perché rischiano non solo di vanificare la richiamata esigenza di rappresentatività ( specialmente se riferita al presidente eletto), proprio a causa dell’anomala possibilità di sostituire un presidente eletto direttamente con un altro non eletto per la stessa funzione. Tanto è vero che persino nelle dichiarazioni della presidente Meloni traspare un ripensamento sulla sostituibilità del presidente eletto in favore di una soluzione – più coerente con lo spirito della riforma e la rappresentatività – che prevede lo scioglimento delle Camere quale conseguenza della denegata fiducia, per affermare il principio del simul stabunt simul cadent\.
Alcuni effetti possibili e critici della riforma
Uno degli effetti di questa riforma è di affievolire, o di ridimensionare, il potere del presidente della Repubblica di individuare la personalità politica a cui affidare la formazione del governo. In caso di elezione diretta, il nome c’è già, e al capo dello Stato non resta che nominarlo, quindi solo un compito di ‘’ratifica’’. Ma attenzione, ricorda Lauricella, nei parlamenti eletti con il sistema maggioritario, dove la coalizione vincente indicava il nome, perfino sulla lista, che avrebbe dovuto presiedere il governo, che spazi di discrezionalità c’erano per il presidente della Repubblica?
Insomma, pur muovendo argomentati rilievi e segnalando le varie criticità e rischi della proposta di riforma governativa, tra queste criticità Lauricella non mette al primo posto e neanche al secondo l’argomento di un depotenziamento dei poteri del capo dello Stato.
Di più: l’autore pone la questione di una riflessione sui poteri del Capo dello Stato (definiti a fisarmonica, nel senso della loro possibilità di estendersi, secondo la definizione di Giuliano Amato). Il ruolo del presidente della Repubblica si è esteso in questi anni anche a causa del ridimensionamento della centralità del Parlamento, dovuto anche a vicende esterne, che hanno stravolto il preesistente sistema dei partiti, con la conseguente delegittimazione della politica, tanto da giungere anche all’abrogazione dell’autorizzazione a procedere con il conseguente effetto di squilibrare i rapporti tra i poteri dello Stato.
A tutto ciò si aggiunga la produzione di leggi elettorali che hanno creato un Parlamento di nominati dalle segreterie dei partiti.
La riforma altera l’equilibrio istituzionale tra i poteri dello Stato
Ma c’è un rilievo di fondo che Lauricella muove, e riguarda non questa o quella norma della riforma. E’ un rilievo sistemico: scriviamololo con le sue parole di studioso: il problema non è neanche in assoluto la limitazione del ruolo del presidente della Repubblica, ma, piuttosto, è la legittimazione ‘’diretta’’ di un potere, quello attribuito al presidente del Consiglio, in un ordinamento in cui tutti i poteri più elevati derivano dal Parlamento (si pensi al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio e ai ministri, ai giudici della Corte costituzionale ai componenti del Csm che direttamente o indirettamente trovano l’origine del loro potere e del loro ruolo nel Parlamento, perché è il Parlamento che li legittima con la fiducia e li elegge).
Perciò, creare un capo dell’esecutivo direttamente legittimato dal popolo determinerebbe una preminenza squilibrante nel sistema. (un potenziale sasso nell’ingranaggio, ma questo lo diciamo noi ,non il professore Lauricella)
E tuttavia c’è l’esigenza di dare e riconoscere un potere maggiore al capo del governo all’interno del governo, superando la logica del primus inter pares. Ma tale risultato si potrebbe raggiungere anche con meccanismi, strumenti e modelli diversi dalla elezione diretta, come per esempio avviene nella forma del Cancellierato, le cui ragioni storiche e istituzionali delle origini si avvicinano a quelle italiane; o,al limite, nel premierato inglese.
Altre criticità. Quorum e premio di maggioranza
Nella proposta di legge di riforma governativa è scritto che la coalizione e il candidato premier vincente si aggiudicano il 55% dei voti in entrambe le Camere.
In entrambe le Camere, è giusto, dice l’autore di questo libro, perché chi governa deve poter contare su una maggioranza omogenea nei due rami del Parlamento.
Ma – è l’obiezione – qual è la soglia oltre la quale una coalizione o un candidato premier deve ritenersi vincente? Nel testo di riforma, non c’è alcuna soglia, rileva Lauricella; dovrebbe almeno essere del 40%, per quanto riguarda le coalizioni, e il candidato premier dovrebbe ritenersi vincente se prende la maggioranza assoluta dei voti validi
Lauricella poi critica l’abbinamento della elezione diretta con la elezione del Parlamento.
Ci sono modelli alternativi e meno rischiosi
Dopo la rassegna delle criticità, del carattere ibrido della riforma, delle sue incongruenze interne e di alcuni paradossi, l’autore invita- da studioso – a considerare soluzioni alternative alla ipotizzata proposta di forma di governo, per garantire stabilità, rappresentanza, rappresentatività, restituire al parlamento il suo ruolo centrale, riequilibrare il sistema dei poteri e l’equilibrio tra di essi.
Per questo l’autore richiama l’attenzione sul modello tedesco ( il Cancellierato), che in Germania funziona dal Dopoguerra, o sul modello inglese che funziona anch’esso da ancor prima ha l’effetto di creare un sistema con un cicepresidente del Consiglio ‘’mascherato’’ e non formalmente individuato. Ma ciò che appare anomalo è che il presidente eletto ha la più ampia legittimazione per effetto della elezione diretta ma se decide di dimettersi per determinare lo scioglimento delle Camere non può farlo, perché potrebbe essere sostituito dalla sua stessa maggioranza con un altro.
Ancora: in un sistema di elezione diretta del presidente del Consiglio non è coerente inserire il voto di fiducia parlamentare per il presidente eletto. Oltre che non coerente è contraddittorio rispetto allo spisrito della elezione diretta, che si caratterizza per l’idea di affidare all’elettore la scelta di chi debba guidare il governo, con una fiducia che dovrebbe insista e collegata all’elettore più che alla maggioranza parlamentare.
Mario Nanni – Direttore editoriale