Lucio Malan, capogruppo di FdI al Senato, non è sorpreso dalla vittoria di Donald Trump e considera “ambiziose” ma non irrealistiche le sue promesse elettorali. A partire da quella di far finire le due guerre in corso: “La pace dipende soprattutto dalla volontà delle parti in causa. Ma nel suo primo mandato Trump non è stato coinvolto in guerre e la Russia non ha preso un centimetro di terreno. I precedenti sono buoni”. Quanto alla postura euro-atlantica del governo: “Non penso che la posizione dell’Italia cambierà – spiega Malan – Come Meloni ha collaborato con Joe Biden lo farà con Trump. Per noi l’alleanza atlantica è strategica e permanente”. E appoggia la linea del ministro Guido Crosetto sulle spese militari: “Dal 2000 tutti i governi le hanno aumentate, il problema non è chi c’è alla Casa Bianca bensì la necessità di forze armate adeguate. Poi, l’aumento sarà graduale e moderato, pochi centesimi di punto di Pil”.
Malan nega una concorrenza a destra con la Lega di Salvini: “Governo e coalizione sono una squadra”. E sull’invio di armi a Kiev avvisa: “Sono certo che Trump cercherà una posizione condivisa con gli alleati per giungere alla pace. Poi è chiaro che se ci si parla è per un’evoluzione dello scenario. Le relazioni internazionali non sono solo fatte di più armi o meno armi, ci sono anche la diplomazia e l’azione politica. Bisogna costruire le condizioni per una pace accettata da tutti. Su questo l’Italia c’è: il governo non ha fornito armi all’Ucraina per fare la guerra dei cent’anni bensì per evitare una disfatta che avrebbe tolto dal tavolo uno dei due contraenti”.
Lei era alla serata elettorale organizzata martedì a Villa Miani dall’ambasciata statunitense. Fino a tardi i sondaggi davano Kamala Harris e Donald Trump appaiati, too close too call, come si dice. È rimasto sorpreso del risultato?
No, pensavo che avrebbe vinto Trump. Ma dopo alcune stranezze del 2020 in cui il suo vantaggio si era rovesciato, ho ritenuto più prudente aspettare fino al mattino. Quando ha ottenuto la Pennsylvania, poi, la certezza è stata quasi matematica.
Trump ha vinto promettendo: meno tasse in chiave anti-inflazione, frontiere sigillate e soprattutto la fine delle due guerre in corso. Sono promesse realistiche o gli Usa si sono affidati alla demagogia del “ci pensa lui”?
Sono mete molto ambiziose che non si raggiungono da un giorno all’altro ma serve anzitutto la volontà. Se l’amministrazione Biden avesse davvero voluto chiudere i confini all’immigrazione illegale si sarebbe mostrata di un’incapacità totale visto che sono entrati 11 milioni di clandestini. Credo sia piuttosto mancata la volontà, mentre Trump si impegnerà molto per gestire quello che è un fenomeno mondiale.
Gli analisti concordano che con Biden l’economia andasse bene. Il problema, anche questo mondiale, è stata l’inflazione: la cosiddetta “crisi del Big Mac” e la percezione negativa del potere di acquisto da parte del ceto medio. Davvero Trump potrà fare meglio?
Rilanciare l’economia è una questione complessa ed è difficile fare previsioni. Tuttavia nel suo primo mandato Trump è riuscito a farlo senza l’enorme deficit dell’amministrazione Biden.
Un dato che emerge dalle urne è chiaro: l’America, stanca e affannata, si sente più protetta da Trump. Al di là della difficoltà di fare la pace in Ucraina e Medio Oriente, non è cruciale anche “quale” pace si raggiunge?
La pace dipende soprattutto dalla volontà delle parti in causa. Ma nel suo primo mandato Trump non è stato coinvolto in guerre e la Russia non ha preso un centimetro di terreno, a differenza di quanto accaduto con Bush, Obama e da ultimo Biden. Quindi, i precedenti sono molto buoni. E gli storici accordi di Abramo sono stati avviati da Netanyahu sotto la spinta proprio di Trump.
È vero che la pace dipende dalle scelte delle parti in causa, e Netanyahu dopo il 7 ottobre non ha mai ascoltato i moniti di Biden per il cessate il fuoco: uno scacco che ha pesato sul voto americano. Trump è anche uscito dall’accordo di non proliferazione nucleare con l’Iran, depotenziando un tavolo multilaterale. Scelta saggia?
L’Iran non stava rispettando quell’accordo, in cambio di finanziamenti continuava a fare passi avanti verso gli ordigni nucleari ed è stato doveroso uscirne. Casomai bisogna chiedersi come mai Teheran sia lo stesso, oggi, vicinissima a dotarsi dell’arma nucleare. Al di là dell’oppressione al suo popolo, quel Paese finanzia terroristi come Hamas, Hezbollah e gli Houti. È inquietante pensare i missili che fornisce a Hezbollah possano presto avere una testata nucleare.
Giorgia Meloni ha telefonato a Trump per congratularsi ribadendo l’alleanza “incrollabile” tra Italia e Usa. Ma con la nuova amministrazione l’asse euro-atlantica, e la conseguente postura del governo, potrebbe cambiare?
Non penso che la posizione dell’Italia cambierà. Non ne vedo ragioni. Come la premier ha collaborato con Biden lo farà con Trump, con cui abbiamo consonanze ulteriori su questioni di politica interna e non internazionale, a partire dalla lotta all’immigrazione clandestina. Per noi l’alleanza atlantica è strategica e permanente, non cambia. Casomai, se fosse al governo, mi preoccuperebbe l’approccio del Pd che considera la vittoria di Trump come una sciagura planetaria: non penso che favorisca le relazioni bilaterali.
Matteo Salvini ha rivendicato la primazia nel sostegno a Trump. Vi preoccupa la concorrenza a destra e l’eventuale saldatura del trumpismo con i Patrioti?
Assolutamente no, perché il governo e la coalizione sono una squadra. FdI punta ad avere buoni rapporti con il prossimo inquilino della Casa Bianca, la Lega conferma l’intendimento e dunque la vediamo allo stesso modo. Siamo contenti di questa consonanza.
Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha suonato la sveglia a proposito delle spese militari per la Nato: alla nostra difesa, e relativi costi, dovremo pensare da soli. Da questo punto di vista Trump è un problema in più per l’Italia?
Dal 2009 ufficialmente e dall’inizio del secolo ufficiosamente tutti i governi – compresi quelli di Giuseppe Conte – hanno preso l’impegno di portare al 2% del Pil le spese militari, e tutti i presidenti americani lo hanno richiesto. D’altra parte i loro dollari non piovono dal cielo, sono frutto delle tasse pagate dai contribuenti Usa. È ovvio che il nostro approccio non sarà diverso dal passato.
D’accordo, ma non è una cattiva notizia per il ministro Giorgetti e per il nostro già affaticato bilancio pubblico?
Guardi, il Mediterraneo è tutt’altro che tranquillo. In Libia è forte la presenza turca e russa, a pochi chilometri dalle nostre coste. In Africa ci sono interessi militari russi ed economici cinesi. Quindi, il problema non è chi c’è alla Casa Bianca bensì la necessità di forze armate adeguate per tutelare i nostri interessi. Poi, l’aumento sarà graduale e moderato, parliamo di pochi centesimi di punto di Pil.
Tra i meno contenti dell’elezione di Trump si può indovinare il presidente ucraino Zelensky. Se il nuovo “commander in chief” Usa deciderà di non inviare più armi a Kiev, anche l’Italia potrà invertire la rotta?
Sono certo che Trump, a maggior ragione vista la richiesta ai partner Ue di apporto alla Nato, cercherà una posizione condivisa con gli alleati nel suo tentativo di giungere alla pace. Poi è chiaro che se ci si parla è per un’evoluzione dello scenario. Le relazioni internazionali non sono solo fatte di più armi o meno armi, ci sono anche la diplomazia e l’azione politica. Bisogna costruire le condizioni per una pace accettata da tutti. Su questo l’Italia c’è: il governo non ha fornito armi all’Ucraina per fare la guerra dei cent’anni bensì per evitare una disfatta che avrebbe tolto dal tavolo uno dei due contraenti.
Federica Fantozzi – Giornalista