I film al cinema, la Divina Commedia, il liceo classico, la storia dell’arte, la laurea in Storia della lingua italiana: vademecum per diventare la più importante regista italiana (recensione del numero monografico dedicato a Liliana Cavani di “Bianco e Nero”, rivista quadrimestrale del Centro Sperimentale di Cinematografia, anno LXXXIII, fascicolo 604, settembre-dicembre 2022, a cura di Enrico Magrelli).
Nella Bologna degli anni Cinquanta del Novecento una giovane appassionata studentessa di Carpi viene scoraggiata dal proseguire gli studi in Medicina a Modena da un professore che, portandola nel suo studio, le dice: “Ma lo sa che nessuna donna arriva mai alla cattedra in Medicina?”. La studentessa cambia rotta, ripiegando su un corso di studio umanistico ritenuto più adatto a una donna. Il ripiego si rivela una fortuna:
“Quell’incontro contribuì a farmi cambiare facoltà. Mi sono iscritta a Lettere antiche e mi sono laureata in Storia della lingua […] con una tesi di laurea su un poeta che si chiama Marsilio Pio della famiglia Pio di Carpi, perché nella biblioteca avevo trovato un suo incunabulo del tardo ’400. Marsilio Pio aveva partecipato alla congiura contro Borso d’Este, del quale era cugino: era stato condannato a nove anni di galera, chiuso dentro una torre a Carpi, e in quei nove anni ha scritto un canzoniere e tutta la sua storia, in capitoli”.
“I capitoli erano il modo di poetare della Divina Commedia, di parlare di politica e di storia, mentre il canzoniere era il modo di poetare d’amore. Chiamai da un telefono a gettoni il professor Spongano, con il quale sono rimasta in contatto fino a quando è morto, e gli dissi che avevo trovato questo testo e che poteva valere la pena di farne un’edizione critica”.
“Fu un gran lavoro: il testo era scritto tutto di seguito per risparmiare pergamena, dovevo trascriverlo, ricostruire tutte le rime, commentare la lingua, era una cosa molto interessante. Io volevo laurearmi, anche perché nel frattempo ero venuta a Roma a vedere il bando di concorso per il Centro Sperimentale di Cinematografia e c’era scritto che occorreva la laurea per fare il concorso di Regia. […] L’esame per il Centro era a settembre, dovevo laurearmi a giugno, Spongano pensava che ci sarebbero voluti due anni in più. L’ho preso in contropiede: gli ho portato parte della tesi da analizzare, lui l’ha guardata e, quando gli ho dato lo statino da firmare (era maggio, si prendeva lo statino per laurearsi a giugno), mi ha chiesto: “Scusa, maggio di che anno?”. “Di quest’anno, professore”. L’ha guardato, l’ha firmato e ha pensato che fossi una matta, poi però mi ha messo a disposizione i suoi assistenti che mi hanno dato una mano per finire in tempo. È stata una sfida: ho preso 110 e lode. Mi sono laureata nel giugno del quarto anno, rapidissimamente; mi sono presentata al Centro Sperimentale a settembre e sono stata ammessa”.
Effettivamente l’Annuario dell’Università di Bologna conferma che Cavani si laurea il 23 giugno 1959, nella sessione estiva dell’anno accademico 1958-1959, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia in Letteratura italiana (Spongano insegnava anche Storia della lingua italiana ma la cattedra che ricopriva era, appunto, quella di Letteratura italiana) con una tesi di 356 pp. su La figura di Giovanni Marsiglio Pio e le sue rime in testo critico (devo alla cortesia di Antonella Parmeggiani e di Andrea Daltri dell’Archivio Storico dell’Università di Bologna le informazioni precise).
Tra giugno e settembre 1959 la ventiseienne laureata in Storia della lingua programma di proseguire gli studi (probabilmente in Sapienza con Alfredo Schiaffini, il professore titolare a Roma della seconda cattedra nelle università italiane di Storia della lingua italiana dopo quella di Bruno Migliorini a Firenze), ma il caso fortunatamente decide per lei: “Quando sono venuta a Roma mi sono iscritta alla specializzazione in Storia della lingua e avevo l’incarico di fare delle ricerche alla Biblioteca Vaticana, dove non ho mai messo piede perché mi sono subito trovata immersa in un altro mondo, vincendo un concorso assurdo che avevo fatto quasi per scherzo” (i passi sono a p. 19 e 154 del volume).
Il “concorso assurdo” “fatto quasi per scherzo” è la candidatura al Centro Sperimentale di Cinematografia. La candidata era la oggi novantenne Liliana Cavani, che dell’Associazione di ex Allievi e “Alumni” del Centro Sperimentale è presidente onoraria. Forse per via di alcuni punti coincidenti nella mia formazione e per il mestiere che mi trovo a fare, il racconto della formazione scolastica e universitaria della regista di uno dei film che più hanno contato nella mia educazione culturale, Il portiere di notte, è una delle parti che maggiormente mi hanno interessato nella bella biografia Liliana Cavani. Il racconto di una vita, l’intervista a cura di Enrico Magrelli ricavata dall’accurato editing di Alberto Crespi dalle numerose ore di registrazione durante nove incontri tra Magrelli e Cavani nella casa romana di lei (p. 10).
L’intervista è uscita in un numero monografico della rivista quadrimestrale del Centro sperimentale di Cinematografia, “Bianco e Nero”, diretta da Alberto Crespi, presentato al Cinema Quattro Fontane a Roma il 6 giugno da Cavani e Magrelli. “Bianco e Nero” aveva dedicato il precedente numero monografico 603 a due altre glorie del Centro Sperimentale, i coniugi Marco Bellocchio e Francesca Calvelli, e adesso è uscito il numero 605 su Gianni Amelio (qui trovate la pagina web della più antica e autorevole rivista di cinema italiana: https://www.fondazionecsc.it/pubblicazione/604-bianco-e-nero/).
Il volume contiene anche una serie di contributi di scrittori, critici e professori come Carlo Rovelli, che approfondiscono numerosi aspetti dell’attività di Cavani, dagli esordi come documentarista di inchiesta in RAI dopo avere vinto il concorso per essere assunta al secondo canale culturale, alle prime prove da regista di film per la televisione e il cinema, alle opere che l’hanno resa celebre in tutto il mondo, ai progetti attuali come il film ispirato al libro L’ordine del tempo di un professore universitario, l’appena citato Rovelli. Il mestiere che (più o meno degnamente) faccio anche io è molto ben considerato da un’artista di fama internazionale meritatissima come Cavani. In tutto il dialogo con Magrelli ci sono tracce di questa visione molto positiva del mestiere di chi studia il passato per insegnarlo e divulgarlo.
Cavani rimarca ogni volta che può di avere fatto studi classici, che ha studiato anche il sanscrito e che avrebbe voluto occuparsi di archeologia, che fu una delle occupazioni del padre architetto (pp. 26, 158). Quando rievoca il film Einstein, si sofferma a ricordare che un suo cugino, che ha consultato durante la lavorazione del film, fu “ordinario di matematica a Firenze dopo aver insegnato a Berkeley e a New York (è stato il più giovane ordinario italiano)” (p. 161).
Del resto, Cavani ha fatto di una personalissima divulgazione della storia la missione principale della sua attività (senza assumere quei tic pesantemente pedanti che spesso noi professori riteniamo stupidamente necessari per riempire dei vuoti di sapere). Anzi, come ha osservato nel volume Carlo Rovelli: “Il cinema di Liliana non ha mai voluto fare divulgazione. Fa qualcosa di molto più interessante: scava nel processo del cambiamento, nelle domande aperte, nel mistero che rimane” (p. 179). Lo scavo di Cavani nel processo del cambiamento emerge proprio dalle sue osservazioni in margine al film che ha dedicato allo scienziato più noto di tutti, Einstein, la cui storia, in fin dei conti, le pare anche uno strumento indiretto per continuare ad avversare l’antisemitismo:
“Einstein è un’icona, ci fanno le magliette, ma molti non sanno perché è così importante. E l’idea che un giovane non sappia quali ricadute abbia avuto il suo lavoro nella cultura generale, mi stupisce. Vuol dire che non abbiamo lavorato bene, che non divulghiamo la cultura essenziale. Non sto dicendo che tutti debbano sapere il sanscrito per capire l’origine indoeuropea delle parole che usiamo tutti i giorni, no. Einstein, però, sì! Dovrebbero studiarlo tutti. […] Einstein è uno scienziato con una cultura internazionale, grazie alla famiglia ebrea. È la storia di tanti ebrei: migrazioni da un Paese all’altro, inseguiti dalla stupidità umana”. (p. 158).
Cavani ha contribuito a fare conoscere la storia contemporanea agli italiani anche con miniserie televisive che hanno realizzato alti risultati di ascolto senza avere ceduto alla superficialità, come è stato nel caso di De Gasperi, l’uomo della speranza, una delle superbe prove attoriali in cui Fabrizio Gifuni, qui con l’altrettanto bravissima Sonia Bergamasco, ridona vita a personaggi ai vertici della storia repubblicana italiana (pp. 153-157).
Anche i progetti non realizzati raccontano molto sul tipo di contributi alla conoscenza della storia antica e contemporanea fatta con la televisione e con il cinema che Cavani è capace di ideare: un film dal romanzo Il pendolo di Foucault di Umberto Eco al quale lavorò per “due anni, con due sceneggiatori, prima Andrew Upton, che era il marito di Cate Blanchett, e poi di nuovo con Charles McKeown”, prima che i soggetti sui Templari fossero di moda; e un film su un papa tedesco, con un soggetto praticamente profetico scritto alla metà degli anni Settanta (p. 153).
Nata in provincia e con una situazione familiare complicata (entrambi sono fattori spesso determinanti per la buona riuscita di una vocazione artistica), Cavani attribuisce alla televisione un ruolo educativo che potrebbe riacquistare, se progressivamente il servizio pubblico non fosse diventato una coperta da tirare da ogni parte politica, da un governo all’altro, per intontire gli italiani:
“La tv è stata la mia scuola di storia moderna e contemporanea. È stato un percorso molto utile e molto interessante. Alla Rai ho anche fatto il mio primo film, su un argomento che poteva sembrare un santino e invece ha acquisito un significato più grande. Ho realizzato documentari che mi hanno fatto scoprire il mondo, hanno allargato gli orizzonti di quello che era stato per così dire il mio “regno”, tra Carpi, Modena e Bologna. Io ero suddita di quel regno: grazie alla tv ho scoperto che c’era altro, nel mondo” (p. 153).
Neodiplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia, in cinque anni, dal 1961 al 1966, Cavani dirige oltre dieci programmi, dal documentario di montaggio sulla grande storia del Novecento all’inchiesta sulle trasformazioni sociali, economiche e culturali del nostro Paese (le teche RAI li rendono disponibili qui nell’ottima sezione Liliana Cavani. Un romanzo di formazione).
Chiosa Magrelli nella sua introduzione: “Nella propedeutica esperienza televisiva degli esordi […[ c’è l’opportunità di misurarsi con la Storia recentissima e contemporanea dell’Europa e dell’Italia. Nazismo, stalinismo, contributo delle donne alla Resistenza, questione edilizia, condizione e sviluppo delle periferie, lavoro impiegatizio, attorcigliamento della burocrazia, vita e spiritualità sono alcuni dei “soggetti” di una cinetv del reale e di una pratica di riutilizzazione dei materiali d’archivio che uniscono l’indagine sociologica, i grovigli e gli abissi storici e l’introspezione psicologica. Guardare i suoi film […] sollecita lo spettatore a cogliere il rilievo simbolico delle sue trame. Storie e mito, tradizione tragica greca e drammi del presente si intrecciano e si alimentano reciprocamente, in I cannibali o in Il portiere di notte”. “La religione, la filosofia e gli accadimenti storici sono i motori principali di tutti i suoi racconti. C’è una figura che incarna, alla perfezione, le istanze narrative del suo cinema: Francesco. Per tre volte, in decenni diversi, la regista torna nel mondo francescano” (p. 10).
Inizialmente alunna elementare irrequieta, Cavani frequenta quotidianamente i cinema di Carpi, da sola o con sua madre, vedendo anche due volte in un giorno lo stesso film. Il rito del cinema post prandiale di domenica con la madre prevedeva un “giro di portico: “un gir ed porteg”, come si dice a Carpi. […] Carpi è una cittadina bellissima, piazza dei Martiri è una delle piazze più belle d’Italia. È il meglio dell’arte rinascimentale. Ha un portico di cotto lunghissimo, poi c’è il castello Pio che ha un cortile stupendo. Il cotto è la pietra locale, Carpi è il tripudio del cotto, molto curato. Crescere a Carpi, attraversare questa piazza e il cortile interno del Pio per andare a scuola, era come vivere dentro un’armonia tardo quattrocentesca, il punto massimo della nostra architettura. È stato un dono, ecco: un percorso di formazione” (p. 15).
La madre è responsabile anche dell’avvicinamento alla lettura della piccola Liliana, pur se nella casa materna “non circolavano molti libri [il nonno era un contadino cattolico vicino al Partito popolare, la madre era operaia alla Marelli: p. 13]. Un giorno, in una scuola, mia madre trovò una copia della Divina Commedia e me la regalò: il mio primo libro extrascolastico è stata la Divina Commedia. […] Avrò avuto dieci anni. […] Oltre a Dante avevo un secondo libro, che mi avevano regalato, sui miti greci: penso che questi due libri mi abbiano aiutato nei miei studi successivi. Soprattutto la Commedia mi ha fatto prima intuire e poi capire che ogni scrittore, come ogni narratore di cinema, ha un suo idioletto, un suo vocabolario, una sua costruzione sintattica” (p. 20).
Cavani viene poi iscritta dalla madre, “su consiglio evidentemente di un cretino”, alla scuola di avviamento tecnico e diventa perito computista sostenendo un esame finale un po’ rocambolesco alla presenza di una commissaria venuta dal liceo classico “Ludovico Antonio Muratori” di Modena, la professoressa Nubes d’Incerti, che diventa la sua mentore. La professoressa la strappa al negozio nel quale d’estate Cavani si è impiegata come commessa, le suggerisce di preparare l’esame di ammissione alla prima liceo studiando i programmi dei due anni di ginnasio e, pur con qualche ovvia difficoltà, la sedicenne viene ammessa alla prima liceo classico (pp. 17-18).
Anche in questa fase, la provenienza dalla provincia e il pendolarismo portano occasioni di cui fare tesoro: “Arrivavo a Modena alle sette meno dieci. E a Modena che facevamo, visto che la scuola cominciava alle otto e un quarto? L’unica cosa aperta era la chiesa, il Duomo di Modena, per dire “il percorso artistico”… Il Duomo di Modena per me è rimasto quasi una casa. È bellissimo, sembra di entrare in una grande stalla elegante. Andavamo tutti lì, a ripassare o a studiare” (p. 16).
I professori del liceo fanno innamorare la giovane di greco, latino, filosofia e Cavani diventa una studentessa prodigio, inizia a leggere riviste specializzate, scrive, vince premi, condensa di nuovo due anni in uno: “all’esame di maturità traducevo il greco come fosse italiano: avevo studiato tanto… che poi mi son trovata a fare letteratura greca all’università, dove mi sono iscritta a Lettere antiche, ed ero più avanti degli altri, perché erano stati due anni massicci” (p. 19). Naturale che, dopo avere tentato Medicina ed essere passata a Lettere classiche (se ne è detto all’inizio di questo articolo), poi la tesi in storia della lingua italiana sia apprezzata e sostenuta dall’insigne studioso Raffaele Spongano, con il quale Cavani resta in contatto fino alla morte del professore nel novembre 2004.
L’intervista con Magrelli a questo proposito è preziosa perché Cavani è più precisa e dettagliata rispetto a dichiarazioni precedenti rilasciate ai giornali, come quando racconta quattro anni fa a Giuseppina Manin, che forse trascrive troppo rapidamente per il “Corriere della sera”: “E poi Lettere Antiche a Bologna, avrei voluto fare archeologia ma non conoscendo il tedesco… Mi laureai in Filologia linguistica, tesi sul dialetto della mia regione” (l’intervista è qui: https://www.corriere.it/cronache/19_luglio_08/40-interni-10-interni-personcorriere-web-sezioni-b758ebe6-a1b8-11e9-acbd-9b1ee12e8baf.shtml; la stessa incertezza sulla nomenclatura della disciplina, “Filologia linguistica” e non “Storia della lingua italiana”, è travasata nel volume nel contributo di Marta Zoe Poretti, L’amour fou ai tempi del nazismo, p. 97). Si vorrebbe, perciò, recuperare la tesi di laurea di Cavani, se ancora la regista la possiede o se è ancora conservata negli archivi dell’Università di Bologna, un tempo crocevia di seri studi di storia linguistica sui grandi testi della letteratura italiana proprio grazie al contributo propulsore del relatore della regista, Raffaele Spongano.
Originario di Cellino San Marco, laureato a Pisa con l’antifascista Attilio Momigliano, fu prima professore di licei settentrionali e meridionali, poi professore universitario a Firenze e a Padova, dove insegnò Letteratura italiana e Storia della lingua italiana dal 1948 (si legge qui: https://phaidra.cab.unipd.it/detail/o:452673?mycoll=o:452711), approdando infine nel 1953 a Bologna per insegnare Letteratura italiana e, verosimilmente ancora per incarico, Storia della lingua italiana. Spongano fu filologo e metricista dai vasti interessi tematici e cronologici; il professore della futura regista del film Galileo (1968) (censurato e mai trasmesso dalla RAI: pp. 46-51) dedicò alla prosa di Galileo la prolusione del 13 gennaio 1949 all’Università di Padova confluita nello stesso anno nel libro La prosa di Galileo e altri scritti; Spongano, tra le altre cose, fu promotore con altri colleghi della fondazione dell’Università di Lecce (ora del Salento), dove per decenni sono passati, fermandosi a lungo, i più alti esponenti dell’università italiana, da Paola Barocchi per la Storia dell’arte a Francesco Sabatini per la Storia della lingua italiana, a Ovidio Capitani per la Storia medievale, a Giuseppe Nenci per la Storia greca.
Cavani, insomma, facendo un bilancio della sua formazione e della sua carriera dichiara a Magrelli con comprensibile orgoglio di essersi laureata studiando moltissimo e venendo aiutata da un professore rilevante nel proprio ambito professionale per le discipline che insegnava ma che non è certo una celebrità né un personaggio pop; peraltro, Spongano insegnava una disciplina allora non ancora così diffusa come oggi nelle università italiane e che è confluita nel settore scientifico disciplinare – sia detto per inciso – nel quale operano i professori membri del massimo organo di conoscenza e tutela della nostra lingua, l’Accademia della Crusca.
Fa riflettere che una grandissima artista e intellettuale abbia selezionato con cura i temi con i quali ricostruire il suo percorso formativo: due libri che sono stati rivelatori durante l’infanzia, le lingue classiche studiate con dura disciplina nel migliore liceo della zona in un’età anagrafica che avrebbe fatto arrendere studenti pigri e meno motivati, la tesi di laurea in una disciplina tecnica e priva di fronzoli, il debito intellettuale con il proprio relatore di tesi.
In definitiva, Cavani attribuisce un’importanza fondamentale al ruolo che la scuola e l’istruzione pubblica hanno avuto nel farla diventare l’autrice di documentari e film che non hanno mai smesso di avere un’attitudine didattica senza risultare didascalici. La storia di questa grande artista rientra in uno dei temi sui quali ritorno con insistenza come Cassandra in questa rubrica: il ruolo decisivo che può ancora avere l’istruzione pubblica in questo paese che affonda in una melma di ignoranza pericolosa sempre più nera; ma si tratta di un ruolo che deve tornare a essere ben presente nelle priorità delle famiglie, perché la colpa della deriva dei futuri adulti non comincia mai dagli insegnanti, che ormai vengono messi nelle condizioni di non potere svolgere un lavoro che, ancora pochi anni fa, potevano fare egregiamente e liberamente.
Quanti genitori e quanti ragazzi, oggi, penserebbero che per approdare a mestieri creativi e avere una testa che elabori idee di successo bisogna percorrere per un lungo tratto dell’infanzia e della giovinezza una strada lastricata di libri e di professori che sottopongono all’esercizio della memoria e alla valutazione quotidiana? Con i sondaggi che mi permette il mestiere che faccio mi sento di rispondere: pochissimi, quasi nessuno. Invece Cavani aveva già promosso quattro anni fa con forza nell’intervista a Manin l’idea che solo sull’istruzione pubblica si fonda la libertà e il progresso dei cittadini: “Fosse per me in Italia farei solo scuole. Scuole, scuole, scuole… Il bene primario, ma da noi nessuno se ne occupa. Se si vuol far crescere un Paese è lì che bisogna investire. Il sapere è l’unica garanzia di progresso, civiltà, benessere. Altrimenti vinceranno “gli altri” quelli che ragionano non con la testa ma con le armi». L’educazione “va difesa, bisogna ridarle peso e qualità, approfondire la conoscenza del passato. Altro che tagliare storia e storia dell’arte! E poi, sostenere gli insegnanti, così vilipesi e sottopagati”.
Cavani apprende dai suoi professori, e da Spongano in particolare, un metodo in qualche misura filologico con cui guardare ai fatti che traduce sullo schermo. Il dialogo con Magrelli contiene vari esempi in questo senso. Due riguardano proprio la storia dell’arte. Nel primo Francesco, per la tv, e nel secondo Francesco, con Rourke, Cavani non vuole girare in un non luogo in cui i conventi sono abitati da frati pasciuti (p. 45) ma desidera ricreare un vero medioevo senza luce elettrica, grigio per la sporcizia, il freddo, la pioggia.
Per il primo film: “Avevo visitato i conventi e avevo trovato benessere à gogo, in più Assisi era una cartolina, simpatica fin che vuoi, ma certo non quella dell’epoca di Francesco. Ho scelto altri posti, che stranamente appartenevano tutti ai benedettini. Ho potuto girare dove volevo. La location più importante è stata Bevagna, che ha ancora due chiese del 1100, una cosa rarissima”. Per il secondo film fa molti sopralluoghi con Danilo Donati “in Umbria, nelle Marche, in Toscana. Cercavamo le chiese dell’anno 1000, al massimo del 1100, che sono davvero pochissime. Qualcosa abbiamo trovato in Abruzzo. Nella Rocca Paolina potevamo girare solo di notte” (pp. 142-143). Si aggiunge a questo secondo Francesco il riferimento iconografico permesso dallo studio delle opere di Giotto, artista interprete della biografia del santo per eccellenza:
“Nel primo Francesco ci eravamo ispirati alla pittura successiva a quel periodo. Per il secondo, ero riuscita a leggere le fonti d’epoca, e avevo visto le pitture di contadini fatte da Giotto. I contadini di quel tempo indossavano una specie di camiciotto di campagna che si è continuato a usare almeno fino a prima della seconda guerra mondiale. Era a righine, sul bluastro, azzurro scuro. Lo mettevano sopra i pantaloni, che allora erano fatti di maglia. I contadini che vedi nella pittura contemporanea a Francesco hanno questi calzoni di maglia, tipo calzamaglia, e sopra una camicia che tengono con una cintura. In alcune fonti è scritto: ‘Si vestì coi vestiti del contadino’. Ed è questo. Poi con il tempo si sono più formalizzati, il camicione è diventato una tunica con le pieghe giuste, con tutte le cuciture. Ma prima i frati erano vestiti come i contadini, senza alcun formalismo, perché Francesco era contro ogni tipo di forma. All’inizio, magari, i giovani che lo seguivano tenevano la loro camicia, poi si adeguavano” (p. 143).
Un altro esempio sintomatico riguarda il modo di intendere la filologia nella deontologia professionale durante il restauro del leggendario Portiere di notte, che Cavani segue personalmente e che venne presentato a Venezia nel 2018 (p. 22). La regista ha l’occasione di eliminare un evidente “baffo” rimasto chissà come sulla macchina da presa e che si vede distintamente sulla parte alta dell’inquadratura di una sequenza molto forte, in cui Charlotte Rampling e Dirk Bogarde fanno l’amore sul pavimento dopo essersi ritrovati casualmente in un albergo a Vienna. Cavani e il direttore della fotografia, Alfio Contini, se n’erano accorti all’epoca ma avevano deciso di non chiedere agli attori di ripetere una scena tanto carica di emozioni e impegnativa anche fisicamente. La scelta fu dovuta pure alla formazione televisiva di regista di rigorose inchieste documentaristiche di Cavani, abituata a ottenere il meglio da un unico ciak, oltre che dalla personalità degli attori protagonisti che ha prediletto negli anni, Lou Castel, Charlotte Rampling, Mickey Rourke:
“L’ho girata una volta sola, con una seconda macchina che faceva un dettaglio. Ma ho tenuto solo il piano sequenza, ed è la famosa inquadratura sulla quale c’è un “pelo”, un baffetto di qualcosa rimasto sopra l’obiettivo. L’operatore di macchina me lo disse subito. Ma Charlotte è un’attrice alla Lou Castel, dava sempre il meglio nel primo ciak. Le chiesi: “Te la senti di farne un’altra?”. Ma capii subito che non era possibile. Non poteva più ricreare la stessa emozione” (p. 46).
In sede di restauro decisero di tenere il ciak così com’era. La scelta fu dettata anche da opportunità di economizzare il tempo: la scena è un piano sequenza molto lungo, ci sarebbero volute molte ore di lavoro per eliminare il baffo e probabilmente sarebbe venuto fuori un “artefatto digitale” nel quale i pixel della sezione restaurata avrebbero potuto essere visibili (lo racconta Cavani a Magrelli a p. 46, e ne scrive dettagliatamente il Responsabile Area preservazione e restauro della Cineteca Nazionale, Sergio Bruno, a p. 47).
Liliana Cavani è la più celebre regista donna italiana (insieme a Lina Wertmüller) proprio grazie al successo controverso del magnifico Portiere di notte, il cui soggetto fu firmato da Cavani con Barbara Alberti, Amedeo Pagani e Italo Moscati e derivò dalla conoscenza diretta da parte di Cavani di una deportata milanese sopravvissuta anche per avere acconsentito a instaurare rapporti di codipendenza simili a quello romanzato nel film (pp. 26-27; per questo episodio, unito alla conoscenza di una seconda deportata, si veda anche nel volume il contributo di Marta Zoe Poretti, L’amour fou ai tempi del nazismo, p. 96).
La donna era stata intervistata per il bellissimo documentario RAI La donna nella Resistenza, proposto da Cavani (“perché nella famiglia di mia madre erano tutti antifascisti”: p. 27) dopo avere realizzato su commissione del secondo canale Storia del Terzo Reich e Età di Stalin. Il portiere di notte non esisterebbe senza l’attività di documentarista per il servizio pubblico di Cavani, che nel 1962 per Storia del Terzo Reich aveva visionato per giornate intere immagini di tortura e di morte fino ad allora praticamente ignote e aveva conosciuto donne tornate dai campi di sterminio devastate dai sensi di colpa, lavorando con la consulenza di un professore ordinario di Storia del cristianesimo, il futuro senatore Boris Ulianich (p. 25), di orientamento cattolico progressista.
Cavani ottiene un programma in quattro puntate che rappresenta “il primo grande affresco sulla storia del nazismo realizzato dalla televisione italiana. Fatta eccezione per qualche servizio (come quello di Enzo Biagi di poco precedente), per la prima volta la Rai racconta agli italiani, in oltre duecento minuti di messa in onda, la storia della tirannia tedesca, utilizzando moltissime immagini di repertorio recuperate in archivi tedeschi, americani e francesi. Innanzi tutto, la regista rivela agli spettatori che la seconda guerra mondiale è stata quasi del tutto filmata. E il documentario, infatti, punta quasi tutto sulla durezza delle immagini che restituiscono in maniera diretta il peso delle atrocità della dittatura e della guerra” (lo racconta Angela Bianca Saponari a p. 35).
Cavani conferma, ricorrendo anche al lavoro di un altro professore universitario, Karl Jaspers: “In un certo senso mi ero preparata al film facendo Storia del Terzo Reich per la Rai, visionando per mesi materiali sulla guerra e sull’Olocausto. Per me quella fu la vera scoperta della seconda guerra mondiale, che avevo vissuto da bambina. In quell’occasione ho dovuto discutere per montare immagini dei campi di sterminio perché i funzionari Rai dicevano che erano scioccanti. Era tutto nascosto sotto i tappeti. Non se ne parlava. Quello fu il mio primo incontro con la censura. Il portiere di notte arriva più di dieci anni dopo, eppure quando l’ho girato c’era ancora quel clima. Ma io volevo raccontare proprio quella storia. Avevo letto La questione della colpa di Karl Jaspers che raccontava come in Germania, subito dopo la guerra, non gli permettessero di parlare del nazismo nell’università in cui insegnava filosofia” (da p. 90). “Io venivo da una cultura classica, su quello che era accaduto durante la guerra ero ignorante come una talpa. Per me la vera scuola di modernità è stato il lavoro per le inchieste che ho realizzato: la storia contemporanea è entrata nella mia testa grazie alla televisione” (p. 24).
Quando l’uscita di Il portiere di notte suscitò polemiche internazionali, in Francia il «Nouvel Observateur» in un pezzo di due pagine ribattezzò il film Il portiere della notte, che secondo Cavani “era proprio il titolo giusto” (p. 90). In Italia i problemi di censura non furono pochi. Cavani sottolinea: “Un certo tipo di cultura di sinistra, ma di sinistra un po’ rozza, non poteva accettare un film così, in cui si diceva che il nazismo in fondo è dentro di noi” (p. 95).
Solo chi aveva ragionato sul nazismo come metafora, spiegandola in un’opera d’arte, poteva entrare nello spirito del film. Infatti Luchino Visconti, che aveva diretto Bogarde e Rampling nel quasi shakespiriano La caduta degli dei, giudicò giustamente Il portiere di notte “un film […] crudele e terribile che ti lascia senza fiato – recitato alla perfezione da tutti e specialmente dai due magnifici protagonisti”. Visconti è lo stesso rabdomante che aveva intuito le doti di storica contemporanea, oltre che di regista, di Cavani, invitandola a presentare I cannibali, una versione della tragedia di Sofocle “Antigone in abiti moderni” (p. 61), al Festival di Spoleto del 1970 (p. 64).
Se ogni film è sempre del regista, a maggior ragione Il portiere di notte è un film fortemente personalizzato, segnato da una regia ardita. Magrelli sottolinea che i “personaggi sono inquadrati in modo particolare, sembra sempre che stiano per scivolare via dall’inquadratura. Ci sono scelte di regia molto forti”, ricevendo assicurazione da Cavani che certe scelte stilistiche servono a rendere dinamica ed emozionante la storia, come quando si legge: “Volevo essere sempre ai bordi, ai margini, per suggerire la solitudine, lo sgomento. Un primo piano centrale sembra un telegiornale. L’emozione va suggerita con il movimento. Quando leggi un romanzo ti immagini un film, crei le tue immagini. Ma anche guardando un film, c’è un altro film nella tua testa. Un film che fai tu, con quello che vedi e quello che cogli” (da p. 89).
Magrelli invita Cavani a parlare anche delle scelte musicali per i suoi film e del rapporto con i compositori. A proposito delle prime, nel documentario per la RAI Gesù, mio fratello (1964) Cavani è la prima regista a usare in una colonna sonora la contemporanea House of the Rising Sun degli Animals (p. 40), una canzone che aveva “sentito a Parigi due mesi prima, in un negozio di dischi sugli Champs Elysées”, entrata nella storia più alta del cinema fino a fare da tragica didascalia alla morte tossica di una mai più tanto sublime Sharon Stone in Casino di Martin Scorsese. Ci sono poi le collaborazioni con Daniele Paris, Pino Donaggio, Ennio Morricone e Vangelis (pp. 144-146), autore di una musica “molto invasiva”, elettronica, particolarmente enfatica per il Francesco con Mickey Rourke, un film “dedicato ai giovani” che quindi richiedeva l’intervento di un musicista popolare e moderno.
Cavani parla anche del suo rapporto con la musica operistica, in quanto regista di festival e opere fortunate dal primo Wozzeck di Alban Berg per il Maggio musicale fiorentino del 1970 fino alla terza Traviata riallestita alla Scala, nel 1990, diretta da Riccardo Muti dopo quella irripetibile con Maria Callas diretta da Visconti e il fiasco del trio Herbert von Karajan-Mirella Freni – Franco Zeffirelli nel 1963: (pp. 168-177 e Maurizio Porro a p. 174). Nonostante l’uso della musica antica e la sua messa in scena siano temi della biografia, Cavani non racconta del fondamentale ruolo drammaturgico della musica operistica settecentesca austriaca e tedesca in Il portiere di notte. La Danza delle Furie dall’Orfeo ed Euridice di Gluck (un’opera che poi ha diretto nel 2000 all’Opernhaus di Zurigo) è lo spartito su cui si apre uno dei flashback autoanalitici più ambigui del film, con il ballerino Bert-Amedeo Amodio che tutte le sere nella camera d’albergo rievoca le sue esibizioni nel lager per i nazisti tra i quali c’era Max-Bogarde.
Un vero e proprio spartiacque nell’evoluzione del racconto è Il flauto magico di Mozart. Sono rispettivamente lo struggente duetto Bei Männern, welche Liebe fühlen (“Negli uomini che provano amore”) tra la giovane Pamina e l’uccellatore Papageno del I atto e l’aria di Tamino che suona il flauto magico a sostenere l’agnizione prima e il truce flashback multiplo poi attraverso cui i due protagonisti si riuniranno per andare incontro a una morte che avrebbe dovuto coglierli più di un decennio prima. Il libretto di Emanuel Schikaneder fa da didascalia ossimorica alle tremende immagini del passato che cominciano a scorrere mentre sul palcoscenico la ragazza e l’uccellatore si scambiano variazioni su un’idea di amore di matrice praticamente stilnovista (con un inizio parafrasabile con: “al cor gentil rempaira sempre amore”): “viviamo solo per l’amore”, “l’amore addolcisce ogni piaga”, “dà sapore ai nostri giorni”, infine “non esiste niente di più nobile nella donna e nell’uomo” che amandosi si avvicinano alla divinità, mentre il flashback è sempre più eloquentemente sinistro.
Altrettanto perturbante è il ricordo visivo sottolineato dalla voce da tenore di Pamino più avanti nello stesso atto con la più banale delle invocazioni: “Doch nur Pamina bleibt davon! Pamina! Höre, höre mich! Umsonst! Wo? Achh, wo find ich dich?” (“Soltanto Pamina rimane lontana! Pamina! Ascolta, ascoltami! Invano! Dove ti troverò?”). Non si tratta solo di una scelta azzeccata per la colonna sonora né di un vivace espediente scenografico, come tutte le volte che il teatro irrompe nel cinema. L’opera di Mozart fa parte integrante della trama del film. È per la prima di una regia di Die Zauberflöte al Teatro dell’Opera di Vienna nel 1957 che il direttore d’orchestra porta con sé sua moglie Lucia, figlia di un socialista sopravvissuta alla deportazione nazista. La bellissima signora viene riconosciuta dal portiere di notte dell’Hotel der Oper nel quale soggiorna (i cui interni Cavani fece ricostruire a Roma, in un villino Liberty dietro via Veneto progettato da un architetto viennese, come spiega a p. 88); durante la recita a sua volta Lucia riconosce nel portiere, seduto intenzionalmente qualche fila dietro di lei, il suo aguzzino nazista che le si impose come amante sadico nel lager, filmandone la degradazione fisica e morale ma, di fatto, salvandole la vita. La coppia riflette nel proprio ritorno agli inferi la sorte invece luminosa dei due iniziati protagonisti del Flauto magico, Tamino e Pamina, che nel regno del mago Sarastro superano un percorso di purificazione tra forze opposte in lotta reciproca, imparando che il Bene può essere anche il Male e viceversa, come nel film.
Una delle ricadute della visione di quel film quando ero una ragazza fu l’accresciuto desiderio di frequentare i teatri, d’opera e di prosa, il più possibile, e di imparare praticamente a memoria il libretto dell’opera di Mozart pur non conoscendo ancora una parola di tedesco, come Cavani da studentessa aspirante archeologa. Fu l’inizio di un percorso, da autodidatta anche musicale (leggo pochissimo la musica che amo, dopo quasi tre anni di pianoforte abbandonato incautamente da bambina), che mi portò a desiderare di sapere bene tante cose per capirne altre che molto mi attraggono ancora e che sono anche diventate parte del mio lavoro quotidiano.
L’effetto della vera arte, come quella di Liliana Cavani, è sempre questo: punta le luci su ciò che permette a ogni persona di diventare sé stessa.
Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia