Per capire l’arte ci vuole una sedia | | Parthenope c’est moi. L’ultimo film di Paolo Sorrentino

Una recensione in cui si intrecciano cinema arte e letteratura

(Parthenope. Regia: Paolo Sorrentino. Produzione: The Apartment, Fremantle, Saint Laurent productions, Numero 10, Pathé Pictures, Italia-Francia, 2024)

“Io quando scrivo i film li scrivo per divertirmi. Tutti questi significati che adesso cerco di rifilarti li ho elaborati nelle ultime settimane perché devo parlare del film, ma non appartengono all’idea iniziale del film”. Paolo Sorrentino dixit parlando di Parthenope (nell’episodio 65 del podcast Dicono di te di Malcom Pagani).

L’autore stesso autorizza la ricerca di significati nel suo ultimo film, da lui ideato, scritto e diretto. Provo a raccontare quali significati ci ho visto io.

Celeste Dalla Porta/Parthenope

 

La voce di Stefania Sandrelli fuori campo all’inizio dice, disincantata: “Ma la passione per la libertà era rimasta accesa. Perché è enorme la vita, che ci si perde dappertutto”. La voce di Peppe Lanzetta fuori campo sui titoli di coda alla fine dice, beffarda: “E comunque Dio non ama il mare”.

Quella ricerca del tempo perduto che è Parthenope si apre e si chiude con due cose che mi piacciono assai: il suono della lingua di Viaggio al termine della notte e l’idea che il mare faccia male. Che si tratti di una riflessione sul “tempo che scorre accanto al dolore” lo dice pensoso il vero intellettuale filosofo del film, che non è il professore di antropologia Devoto Marotta (Silvio Orlando) ma il cardinal Tesorone (Peppe Lanzetta: teatrale e mostruoso, probabilmente nel ruolo della vita).

Sorrentino ha dato al film una struttura circolare che inizia e finisce come in Il tempo ritrovato: è un viaggio della memoria verso i luoghi (Napoli e Capri) e gli anni cruciali della giovinezza, compiuto da una professoressa universitaria di antropologia, settantatreenne al momento della pensione coincidente con lo scudetto vinto dal Napoli nel maggio 2023.

Che un riferimento per la scrittura sia quel Proust che ha ispirato il terzo film della trilogia del tempo di Sergio Leone, C’era una volta in America, lo suggerisce anche l’ultima scena di Parthenope: l’anziana Parthenope (Sandrelli), tornata a Napoli dopo 40 anni, si ferma davanti al suo albergo mentre passano cantando sulla “nave azzurra” i tifosi del Napoli che festeggiano lo scudetto; alla fine del capolavoro di Sergio Leone le note di God bless America riportano l’anziano Noodles (Robert De Niro) a 35 anni prima e, mentre vede arrivare fuori dalla villa del senatore Bailey/Max (James Woods) tre auto di festaioli forse vestiti alla moda della sua giovinezza che lanciano bottiglie di champagne, Noodles torna a vivere il momento che gli ha cristallizzato la vita nel passato per sempre.

Per capire l’arte ci vuole una sedia

Ci sono anche, forse, riferimenti cinematografici molteplici, così ben digeriti da rendere insicura la loro individuazione. Dunque, chissà se l’amalgama della festa in onore del cardinal Tesorone ha in sé un ricordo di quella di L’ora di religione di Bellocchio, con prelati, monache, visoni e Che coss’è l’amor? di Vinicio Capossela; o chissà se Parthenope che guadagna familiarità con Greta Cool (una caricatura di Sophia Loren caustica quanto una Bette Davis dei bassi) è una versione addolcita della mefistofelica Anne Baxter di Eva contro Eva.

Copertina di Come l’acqua che scorre. Tre racconti, Einaudi, che contiene Anna, soror…(pubblicato per la prima volta nel 1981)

 

Proust non mi è sembrato il solo riferimento letterario. La biografia di Parthenope mi ha trasportato indietro a una lettura indimenticata della mia adolescenza, fatta quando al mare preferivo i libri cupi, come Parthenope: è un racconto di Marguerite Yourcenar ambientato nella Napoli dei riti della Settimana santa davanti al Compianto in terracotta di Guido Mazzoni durante la Riforma cattolica, Anna, soror…(come dichiara il titolo, citazione dal IV libro dell’Eneide). Pubblicato nella raccolta Come l’acqua che scorre, ne sono protagonisti Anna e Miguel, due gemelli aristocratici, colti e bellissimi, la cui madre altrettanto colta e bella muore ben consapevole dell’attrazione tra i due, prima colpevoli poi per pochissimo fieri di avere ceduto a un claustrofobico incesto, consumato nella fortezza di Castel Sant’Elmo. Miguel sa di non potere amare a lungo la sorella e sceglie una vita che lo porti in fretta alla morte. Allora Anna aumenta la severità e il disinteresse verso la propria bellezza e verso sé stessa, mentre il padre la odia perché le attribuisce la morte del fratello.

Anche Parthenope Di Sangro è una sorta di aristocratica, figlia di un collaboratore napoletano di Achille Lauro e di una raffinata milanese figlia di un’inglese, che nella claustrofobica villa-fortezza napoletana di Palazzo Donn’Anna sollecita e respinge suo fratello maggiore Raimondo (omonimo del principe creatore della Cappella Sansevero e della irripetibile “carrozza marittima” con cui navigò il mare di Posillipo nel luglio 1770). Il fratello si suicida durante una vacanza a Capri perché la sua fragilità gli fa trasferire morbosamente sull’attrazione per la sorella un’insostenibile inclinazione omosessuale. Anche i genitori di Parthenope la odiano freddamente perché, come il figlio della cameriera innamorato di lei fin da ragazzo, le attribuiscono la colpa del suicidio di Raimondo.

In Anna, soror…e in Parthenope la vita matura si consuma nello stesso spazio narrativo: una pagina e mezza nel racconto, una sola breve scena nel film. La morale è che, dopo avere provocato e attraversato l’indicibile, si può vivere solo fermando il tempo a un passato irrisolto nel culto della memoria: Anna muore invocando il fratello senza che le donne che le stanno accanto capiscano a chi si rivolge, così come Parthenope tiene con sé fino alla fine il suo ritratto accanto a Raimondo, che le allieve credono un antico fidanzato.

Sia quel che si vuole, la scelta di aprire e chiudere il film con due battute in esergo, non con due immagini, suggerisce che un’altra delle chiavi di lettura per Parthenope risieda nel guardarlo come una variazione drammatica di A qualcuno piace caldo. Ci penso quando ascolto per intero e nel contesto della frase una delle battute più citate del film, pronunciata dal professor Marotta, il mentore – suo malgrado – di Parthenope all’università: “A un professore basta essere avanti di una sola lezione rispetto ai suoi studenti. Lo sa chi l’ha detto questo? Billy Wilder, un antropologo”. Come nell’immortale film di Wilder, anche qua la trama è esile, a favore di un susseguirsi di acrobazie di parole in cui sono coinvolti una ragazza seducente e due amici innamorati di lei ma dall’identità forse ambigua, tutti e tre in fuga continua, legati anche dalla capacità di avere sempre la risposta pronta. Tuttavia, alcuni dialoghi di Parthenope non si possono ridurre a semplici esibizioni aforistiche, ma sono dovuti al fatto che “la verità e indicibile” e va coperta con “frasi a effetto” perché la vita sia sopportabile. Ecco alcuni degli esempi più fulgidi, che ho annotato per temi.

Maestri e allieva

I dialoghi decisivi tra Parthenope e coloro che lei riconosce come propri maestri sono all’insegna del rapimento erotico più o meno platonico, come davvero accade quando si è giovani.

Nella prima domanda d’esame del professor Marotta a un candidato, “Cosa sa lei che io non so?”, si riassumono tutte le ragioni per le quali un maestro dovrebbe scegliere (o non volere) un allievo.

Parthenope si fa notare dal professor Marotta perché risponde con una frase che dovrebbe essere il mantra dell’onnivorismo scientifico: “Io non so niente ma mi piace tutto”.

Appena conclusa la seduta di laurea e dopo varie esperienze decisive, Parthenope dice al suo relatore: “Io vorrei tentare la carriera universitaria. Sento che è la mia strada”. Il professor Marotta replica come si fa davvero con i rari laureati intelligenti che hanno la (stramba) ambizione di imitarci: “È sicura? Guardi che si diventa come me”. Parthenope risponde come rispondono i rari laureati intelligenti, sollecitando il nostro narcisismo meschino: “E non sarebbe stupendo?”.

Celeste Dalla Porta/Parthenope e Gary Oldman/John Cheever

 

Parthenope riconosce solo sentendolo parlare lo scrittore John Cheever (Gary Oldman, la cui faccia disfatta è lontanamente memore dei fasti di fascino del vampiro regale che andava al cinematografo in boccoli scuri e cilindro ceruleo diretto da Coppola): dopo averne assorbito ogni parola dai suoi libri e, incurante della differenza d’età, della dipendenza dall’alcol e dell’omosessualità, si sente inesorabilmente attratta dalla sua mente, tanto da chiedergli razionalmente: “Posso innamorarmi di te?”.

Invece, quando un ricco spaccone sessuomane che somiglia a Gianni Agnelli riesce a invitarla a un picnic notturno a base di frutti di mare e poi nella sua garçonnière, credendo di impressionarla con i viaggi in elicottero e una piazza metafisica di De Chirico poggiata sul pavimento, Parthenope prima irride l’ingenuità del miliardario, poi ne rifiuta le avances, apostrofandolo con l’osservazione più vera di tutto il film: “Lei non trova che il desiderio sia un mistero e il sesso il suo funerale?”.

Quando l’attrice di teatro in disarmo sfigurata che insegna recitazione a casa propria, Flora Malva (Isabella Ferrari), domanda a Parthenope: “Perché vuoi fare l’attrice?, la laureanda in antropologia afferma: “Gli attori nei vecchi film hanno sempre la risposta pronta”. Effettivamente chiunque conosca almeno un po’ attori di prolungata esperienza a teatro sa che essa permette loro di elevare non superficialmente il pensiero e la conversazione grazie al serbatoio di parole e frasi che inevitabilmente condizionano anche i pensieri, spesso i comportamenti, della vita quotidiana.

Carlo Poggioli, bozzetto per un costume di Parthenope

 

Celeste Dalla Porta/Parthenope nella Cappella del Tesoro Nuovo nella Certosa di San Martino a Napoli in Parthenope

 

L’ironia come regola per l’attrazione

Come chiunque aspiri a una cattedra all’università, Parthenope deve fare ricerca per pubblicare articoli scientifici su quelle che oggi si chiamano “riviste di classe A”. “La “Rivista di Studi di antropologia” mi ha chiesto una pubblicazione sul miracolo di San Gennaro. […] Ho chiesto appuntamento con Tesorone”. Parthenope contatta un uomo la cui fama è pari a quella del demonio: il ripugnante e spiritoso cardinal Tesorone, custode del Tesoro e del Miracolo di San Gennaro, si rivelerà anche il primo uomo che la giovane studiosa troverà davvero attraente e suo pari perché dotato, come lei, di “sfacciataggine”.

Tesorone “è un farabutto” (secondo il mite professor Marotta); si tinge i capelli nella navata centrale della chiesa; non gli riesce il miracolo del sangue di San Gennaro perché una delle “parenti”, una signora più furba e più blasfema di lui, escogita una trovata per attirare l’attenzione; ha un debole per i drink preparati dalle ricche anziane che lo adorano; ragiona intensamente sulla vita; punta al pontificato ed è un profanatore della liturgia e dei suoi apparati; quando in chiesa Parthenope sussurra: “Mi manca l’aria”, Tesorone sentenzia inappuntabile: “È il cattolicesimo”. Quando decide di far dimenticare a Parthenope un corpo “fatto per essere rifiutato”, Tesorone finisce di convincerla divertendola con una variazione sulla topica della mostra della collezione di farfalle: “Poi quando vuoi sono pronto a mostrarti il Tesoro di San Gennaro”.

Poiché “alla fine della vita resterà solo l’ironia”, i preliminari hanno come sfondo il tenebroso Compianto di Jusepe de Ribera nella Cappella del Tesoro Nuovo nella Certosa di San Martino a Napoli: ori e paramenti trasformano Parthenope in una santa da profanare, ma con lentezza, perché all’apparentemente volgare Tesorone di una donna piace solo “la schiena, il resto è pornografia”; davanti alla stessa cappella e su un materasso incassato in una parete Parthenope si concede al cardinale; nella cappella i due fumano la sigaretta post amplesso.

A proposito: mi sono forse sfuggite le levate di scudi dei perbenisti ultracattolici per questa scena, magnifica anche per una luce alla Rembrandt e per una recitazione poco naturalistica, ambientata in uno dei luoghi di culto più importanti d’Europa di cui si è consentito il noleggio per l’occasione, con la stessa disinvoltura di cui avevo scritto a proposito dei set napoletani concessi per un altro film recente ma di diverso esito artistico (https://beemagazine.it/chiese-chiuse-e-porte-spalancate-per-lombra-di-caravaggio/).

Invece il compiacimento di Sorrentino per lo scintillio patinato, degno di una rivista di moda (non è un peccato mortale), non è andato giù a Didier Péron che su “Libération” ha letto Parthenope come “un porno da cui sono state sistematicamente tagliate le scene hard”, contestualizzate all’interno di “un enorme macchinario sulla vita dei ricchi e dei potenti, che ha l’estetica della pubblicità ed è cofinanziato da un grande marchio della moda”, cioè la Saint Laurent Production. Alla collaborazione di Anthony Vaccarello come Costume Artistic Director che ha lavorato con Carlo Poggioli si devono infatti gli abiti, i tailleur, lo smoking e l’invidiabile blazer di velluto magenta su camicia bianca e jeans con cui Parthenope si presenta a Tesorone, tutti di taglio sartoriale impeccabile.

Il primo incontro tra il cardinal Tesorone/Peppe Lanzetta e Celeste Dalla Porta/Parthenope (sullo sfondo a sinistra il San Girolamo ascolta la tromba del Giudizio di Francesco Gessi, nella cappella di San Girolamo nella chiesa di Girolamini a Napoli)

 

La fotografia di Daria D’Antonio è una continua meraviglia: in primo luogo assolve al compito di dichiarare l’innamoramento della macchina da presa per il volto di Celeste Dalla Porta, nato per il close-up: Sorrentino guarda la nipote di Ugo Mulas come, forse, l’avrebbe fotografata lo straordinario nonno materno se non fosse morto 24 anni prima che Celeste nascesse (su Mulas c’è ora una mostra monografica pensata un po’ per tutti a Palazzo Reale a Milano; ma aspettate l’uscita per Cimorelli del libro di Flavio Fergonzi, Ugo Mulas fotografa Jasper Johns).

L’abbinamento attrice esordiente “bella e indimenticabile” (così la definisce Greta Cool/Luisa Ranieri) – film d’autore sull’incanto doloroso della giovinezza, fa sperare che a Dalla Porta non tocchi la stessa sorte professionale di altre due rampolle d’arte, Liv Tyler ed Eva Green, plasmate iconograficamente da Bertolucci per Stealing Beauty e The Dreamers e poi mai più accarezzate dalla grazia dell’opera giusta all’altezza dei loro volti.

Claude Lorrain, Porto con Villa Medici, 1637, olio su tela, 102×133 cm, Firenze, Galleria degli Uffizi

 

La meraviglia della fotografia sta anche nella nascita in acqua di Parthenope, in un campo lungo su una marina solare con figure piccole, come in una marina a olio di Claude Lorrain o di Salvator Rosa; e nell’entrata in scena di Parthenope ventenne che emerge dalle acque tutta occhi e capelli, memorabile e old fashioned quasi come Rita Hayworth che appare in Gilda. La meraviglia della fotografia sta anche nei carrelli sugli ossimori di Napoli: illumina i corpi imperfetti o ineleganti sullo sfondo di improbabili bagnasciuga alla Martin Parr, l’edilizia selvaggia che fa da sfondo a un funerale all’antica nella carrozza che fece da culla a Parthenope, la poesia della povertà atroce dei bassi nei quali passa in processione un’umanità che fa risaltare il volto e il corpo gloriosi di Parthenope, che nella Napoli più amara assiste con costernazione e compatimento a una cerimonia di sangue simile a quelle delle coppie regali la prima notte di nozze ai tempi dei Borboni e dei Capeto.

Parthenope non è un film superficiale perché gode di una fotografia manierata e di interpreti e costumi tentanti; è forse il film di Sorrentino con la più abissale malinconia di fondo dai tempi di L’uomo in più. Il film svela per immagini e dialoghi perfetti “quella strana condizione che è quella dell’intera esistenza, in cui tutto fluisce come l’acqua che scorre, ma in cui, soli, i fatti che hanno contato, invece di depositarsi al fondo, emergono alla superficie e raggiungono con noi il mare” (uso le parole con cui Marguerite Yourcenar aveva curato la postfazione alla raccolta che comprende Anna, soror…).

Lo stesso personaggio femminile protagonista ha forti radici letterarie, non solo per il nome mitologico: Parthenope è un archetipo tragico di donna creato da un uomo, come Anna Karenina creata da Tolstoj, Emma Bovary creata da Flaubert, Polina creata da Dostoevskij. Ma Parthenope è un archetipo di donna per il quale Sorrentino prova empatia senza giudicarla e in cui donne vere possono riconoscersi.

Chi di voi è “stata triste e frivola, determinata e svogliata”, “viva e sola” e ha perso un fratello o una sorella che confondeva “l’irrilevante col decisivo”; chi di voi ha chiesto a un artista “alcolizzato, depresso, meraviglioso” di poterlo amare nonostante l’incerta inclinazione sessuale; chi di voi ha conosciuto prelati in carriera seduttori di studenti ma anche “un uomo meraviglioso” come il professor Marotta; chi di voi è stata penalizzata da una bellezza che attrae giovani e vecchi, uomini e donne, imparando che “le donne belle vengono offese continuamente” in quanto la bellezza “ammalia per i primi 10 minuti, poi irrita per i successivi 10 anni”; chi di voi ha evitato di servirsi della bellezza per intraprendere un mestiere che deve dare risposte e poi una libertà che si paga con una sostanziale solitudine; chi di voi ha compreso che “quando sai tutto muori presto e solo. Fai conoscenza con l’indicibile”; chi di voi alle soglie della maturità è ormai sicura che “l’amore per provare a sopravvivere è stato un fallimento”, potrà dire “Parthenope c’est moi”.

 

Floriana Conte – Professoressa di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e Accademica dell’Arcadia

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