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L’uovo come legante è alla base del pigmento della tempera a uovo, con cui gli artisti hanno dipinto prima dell’avvento della pittura a olio. Ne parlano fonti notissime, come il Libro dell’arte trecentesco di Cennino Cennini (si veda oltre) e la cinquecentesca Introduzione alle tre arti del Disegno premessa da Giorgio Vasari alla sue Vite degli artisti.
Un uovo di struzzo risalente a circa il 1472 sta sospeso con un filo bianco al centro di un’abside a conchiglia, perpendicolare a una Vergine altera incurante dei santi attorno a lei e del duca Federico da Montefeltro inginocchiato. A molti visitatori della Pinacoteca di Brera a Milano, l’uovo sospeso al centro dell’abside in cui è collocata la Sacra conversazione sembra il vero misterioso protagonista dell’iconografia composta da uno dei più radicali artisti del Rinascimento, Piero della Francesca.
Un uovo di bronzo è stato protagonista di una delle performance comportamentali più intrise di valore civile tra quelle create da artisti assurti a fama internazionale. La sera del 16 marzo 1978 il quarantaduenne Luciano Fabro si trova a Roma. Si dirige in via Gregoriana (dove ancora oggi si va a studiare la Storia dell’arte in una delle maggiori biblioteche specializzate del mondo, l’Hertziana). Là Fabro preleva da una galleria una sua scultura, Io (L’uovo): un uovo di bronzo concavo che ha le stesse misure di Fabro raggomitolato in posizione fetale. Portando in braccio l’uovo alter ego di sé stesso, Fabro arriva in via Veneto per andare a deporre Io (L’uovo) nella berniniana Fontana delle Api in Piazza Barberini.
L’artista sceglie di deporre un proprio autoritratto concettuale in posizione fetale nel liquido amniotico della tradizione della storia dell’arte. Fabro non compie il rituale comportamentale da solo; dietro di lui, come in una processione laica, si forma un corteo di altri artisti e di critici: tra gli altri, ci sono Mario e Marisa Merz, Jannis Kounellis, Vettor Pisani, Francesco Clemente, Achille Bonito Oliva. La Via Crucis profana in una Roma semideserta e militarizzata dal terrore è la risposta degli artisti all’evento più violento della Storia repubblicana: quel mattino in via Fani era stato rapito Aldo Moro, che il 9 maggio verrà lasciato cadavere, ripiegato su sé stesso, in un portabagagli di un’auto in via Caetani.
Fin qua ho elencato solo alcuni esempi della presenza costante dell’uovo nella storia dell’arte. Dalle prescrizioni tecniche ai risultati concreti della creazione, altre decine di volte gli artisti hanno compiuto il rituale in silenzio, inglobando l’uovo nella propria poetica come metafora dell’incidenza della spiritualità dell’artista sul mondo. Sull’inesorabile presenza dell’uovo come elemento primario artigianale e, nel contempo, iconografico nella storia degli artisti si fonda il progetto Come stare al mondo? di Giacomo De Luca. Nel progetto multidisciplinare che unisce danza, drammaturgia teatrale, installazioni derivate dalla performance, De Luca mi ha coinvolto insieme ad altri professionisti dall’estate scorsa come consulente scientifica per ogni elemento che dalla storia dell’arte può incidere sulla creazione dell’opera e per la redazione dei testi (i crediti completi si leggono nelle didascalie delle fotografie di questo articolo; il link al progetto nel sito dell’artista, dove ci sono anche le informazioni sul suo lavoro come autore, coreografo e trainer, è: https://giacomodeluca.com/come-stare-al-mondo%3F).
Avevo conosciuto a maggio questo danzatore venticinquenne diplomato all’Accademia di danza della Scala e con un già ricco carnet di collaborazioni con maestri molti noti (danzatori, coreografi e registi internazionali tra i quali Roberto Bolle ed Emio Greco). L’occasione era venuta durante la masterclass per performer e attori tenuta da Annabelle Chambon e Cédric Charron al Troubleyn/Jan Fabre Laboratorium ad Anversa: De Luca era tra i pochi artisti italiani selezionati, io ero là come Visiting Scholar, invitata da Fabre e da Miet Martens per approfondire dall’interno il metodo di lavoro al quale avevo già dedicato alcuni articoli scientifici (ho pubblicato un diario della residenza il 20 e il 21 giugno scorsi: https://beemagazine.it/un-artista-e-un-minatore/; https://beemagazine.it/per-capire-larte-ci-vuole-una-sedia-rubrica-di-floriana-conte-un-artista-e-un-minatore/).
La ricerca per Come stare al mondo? è cominciata a gennaio 2024, mentre il periodo di creazione ha avuto inizio a settembre. Per chi non conoscesse il significato e lo scopo del concetto di “residenza artistica”, preciso che per opere così delicatamente complesse sono necessarie residenze collettive di almeno 90 giorni, che si concludono quasi sempre con una restituzione, assimilabile a una prova generale aperta al pubblico.
Come stare al mondo? è stata ospitata nella prima fase della ricerca e delle prove dal 2 all’8 settembre scorsi da Crest all’Auditorium TatÀ nel quartiere Tamburi a Taranto, una struttura meritoria per il ruolo che svolge per la comunità civile locale: in passato il quartiere ha potuto vedere al lavoro anche grandi artisti come Lino Musella.
Dal 17 al 24 settembre il gruppo di lavoro è stato ospitato da Principio Attivo Teatro negli spazi delle Manifatture Knos a Lecce, dove il 22 settembre De Luca ha proposto al pubblico una prima restituzione pubblica a cui è seguita una conversazione dell’artista e di noi consulenti col pubblico.
Il progetto si è perfezionato durante una nuova residenza dal 4 all’11 novembre al Teatro Dimora L’arboreto di Mondaino, in provincia di Rimini. In questa terza sede, immersa in uno scenario naturale, De Luca ha ulteriormente riflettuto sulla stesura della drammaturgia e della composizione sonora con Enrico Pitozzi e Giulia Vismara.
Il vero e proprio debutto della performance completa è previsto entro l’inizio del 2026. Di essa fa parte integrante la preparazione solitaria del corpo dell’artista e dei materiali organici che usa.
Non è un procedimento inedito nella tradizione della Performance Art: la più longeva e famosa performance artist in attività, Marina Abramović, adatta alle esigenze della preparazione delle performance di resistenza le prescrizioni codificate da una delle fonti più note della letteratura artistica, il Libro dell’arte di Cennino Cennini (che ho citato all’inizio e di cui si può leggere l’edizione critica con commento linguistico a cura di Veronica Ricotta: Il “Libro dell’arte” di Cennino Cennini, presentazione di Giovanna Frosini; prefazione di Sonia Chiodo, Franco Angeli 2019, in particolare i capitoli XXIX e CLXXXI). Abramović autorizza agganci di questo tipo, per quanto possano apparire inusuali a chi guarda alla performance solo con l’occhio del critico d’arte contemporanea, non con quello filologico e a largo spettro dello storico dell’arte.
Nel 1993 Abramović evoca liberamente il Libro dell’arte per ricostruire l’origine dell’ideologia del laboratorio didattico Cleaning the house, fondamento dell’“Abramović Method” finalizzato all’addestramento degli allievi: “Se un artista ottiene una commessa per dipingere il muro della chiesa o del castello del re o qualsiasi altro di questi lavori importanti, deve seguire una determinata preparazione affinché il lavoro riesca bene. Lui [Cennini] propose che l’artista non mangiasse carne nei tre mesi precedenti l’inizio dell’incarico. Due mesi prima doveva smettere di bere vino, un mese prima non doveva più avere rapporti sessuali, e tre settimane prima di dipingere doveva mettere la mano destra nel gesso e non muoverla più. Il giorno in cui avesse cominciato a lavorare avrebbe rotto il gesso, preso in mano la matita e a quel punto avrebbe potuto fare un cerchio perfetto. Questo era uno dei modi per “fare le pulizie di casa”.
Il concetto di “fare pulizia” prima di compiere un’opera è comune anche a Martha Rosler e ai readymade Hoover di Jeff Koons (dei quali la rubrica si è occupata il 20 settembre 2022: https://beemagazine.it/quando-larte-si-riduce-a-polvere/). Per tutti questi artisti, il processo per ideare, provare e realizzare la performance è quasi più importante “del risultato, così come la performance […] ha maggiore significato dell’oggetto”, secondo la stessa Abramović. Di più: progressivamente la preparazione coincide con l’opera d’arte stessa, fino a costituirne, talora, una sorta di spin-off.
Nel caso di Come stare al mondo?, De Luca ha smesso di mangiare uova fino all’inizio della prima reisdenza; ha iniziato a gennaio 2024 una raccolta di materiali di scarto che altrimenti sarebbero finiti nella spazzatura: i lavoratori di bar, pasticcerie, panifici, gastronomie e i familiari e gli amici di De Luca a Milano e a Lecce (rispettivamente, la città di adozione e quella natale di De Luca) hanno raccolto, anziché buttarli via, i gusci d’uovo di gallina residui da preparazioni alimentari. De Luca ha predisposto una ricetta per la cura dei gusci destinati alla performance, dividendola in 6 fasi: raccolta, lavaggio, disinfezione, essiccazione, purificazione e conservazione.
Questo processo ha consentito all’artista di sublimare i materiali di scarto, di inglobarli nella ricerca per la performance attraverso la forma in cui si evolvono (che all’artista ricorda anche le volute barocche assunte nelle architetture dalla pietra calcarea leccese), l’odore che assumono, il suono che producono al tatto. L’uovo è al centro del progetto, dunque, perché nella storia dell’arte ha da sempre un ruolo tecnico e iconologico costante. De Luca ne valorizza la simbologia legata alla rinascita, proprio grazie al recupero dei gusci senza i quali la performance, di fatto, non esisterebbe. L’artista attua contemporaneamente una riflessione nella quale il pubblico è attivamente coinvolto: l’uovo è un alimento proteico utilizzato tutti i giorni, ma perfino il suo guscio può servire a creare qualcosa che nutre: un’opera d’arte che alimenta lo spirito. Il concetto di recupero, quello del riciclo e il meccanismo del consumismo sono dunque messi alla prova con presupposti ed esiti che si auspica abbiano ricadute sui partecipanti alle prove aperte.
L’idea alla base dell’utilizzo dei gusci nella drammaturgia di Come stare al mondo? è proprio l’urgenza di attirare poeticamente l’attenzione su pratiche più sostenibili per il pianeta e i suoi abitanti, ormai sempre più vulnerabili anche a causa di una natura che si ribella alle azioni degli uomini.
Attraverso le 12 fasi in cui è suddivisa la drammaturgia (dalla fase 1. Purificazione dei gusci, alla fase 12. Il risveglio, che si chiude con il suono fiabesco di un fischietto ad acqua in ceramica fatto realizzare artigianalmente per la performance), l’artista comunica questo messaggio creando uno scenario surreale nel quale danza e suono incidono sulla superficie di azione del performer, cosparsa dai frammenti di gusci d’uovo, che entrano in scena rovesciati dall’artista sul palco. Con un uovo sodo sospeso al centro della scena con un filo di nylon (per evocare quello celeberrimo della Pala di Brera) De Luca entra in relazione, cibandosene. I suoni emessi dai gusci calpestati dai piedi e dal corpo dell’artista sono diversi prova dopo prova e sono amplificati da 6 microfoni a contatto con il suolo.
La ricerca per Come stare al mondo? è ora in fase di decantazione; intanto dal 15 al 22 novembre De Luca ha realizzato in tempi record il primo studio per ((MO!)), una performance sperimentale site-specific creata alla Fabbrica del Vapore a Milano.
Dopo le giornate di ricerca, registrazione e post produzione video, prove con Vanessa Pey, Elena Molon e me, il 21 novembre un pubblico di artisti, giornalisti, studenti ha partecipato alla restituzione della performance e alla conversazione successiva con noi e con il direttore artistico della residenza, Claudio Prati.
((MO!)) è una performance che indaga il dinamismo del corpo del performer moltiplicato dallo sguardo cinematografico tradotto da Pey nell’installazione audiovisiva proiettata da De Luca sulle pareti, sul soffitto, su sé stesso (come fece Fabio Mauri sul corpo di Pasolini usando le immagini del Vangelo secondo Matteo). Il performer cerca di esprimere l’impellenza continua del movimento, col proprio corpo e con i suoni che emette. Durante la residenza, Pey ha eseguito un montaggio caratterizzato da riavvicinamento, rallentatore, velocizzatore, in simultanea e in intermittenza, che poi durante la performance (grazie al differente uso dei proiettori in scena) ha assunto di volta in volta effetti pop, o espressionistici nel nesso con la silhouette proiettata dall’artista sulle pareti, oppure rarefatti, quasi simili a certi giochi di luce ottenuti attraverso l’illuminazione dell’acqua in una sequenza famosa girata da Jacques Tourner per il Il bacio della pantera.
Il titolo esprime una delle memorie della lingua familiare infantile attribuita da De Luca all’avverbio “mo”, caratteristico del Meridione per dire ora, adesso ma usato anche a Milano, oltre che presente nella lingua letteraria di Dante e di Manzoni per evocare l’oralità (rinvio a Tre avverbi per un solo concetto: ‘in questo momento’ di Paolo D’Achille e Domenico Proietti per la Consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca: https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/tre-avverbi-per-un-solo-concetto-in-questo-momento/763).
Anche sulla base di queste referenze, per il programma di sala d’intesa con De Luca ho proposto al pubblico di riflettere su una fonte legata al teatro che contiene l’avverbio mo’. Si tratta di un dialogo che ebbe come protagonista Carmelo Bene durante una conferenza stampa e mi è tornato alla mente quando De Luca e io lavoravamo alla drammaturgia e pensavamo anche alle domande che il pubblico ci avrebbe potuto porre alla fine della restituzione performativa. Potevamo instaurare, con autoironia, tangenze tra la personalità d’artista di De Luca e il lavoro di ricerca per questa residenza.
Il lavoro di Bene fu spesso caratterizzato da titoli che non cercavano di compiacere il pubblico. Nella fonte in questione, un titolo di uno spettacolo viene discusso durante una presentazione pubblica. Bene era salentino, aveva lasciato la sua terra prestissimo ma a essa era legato da un rapporto complesso, come è successo anche a De Luca e a me; il dialogo contiene l’avverbio mo’ pronunciato da uno dei maggiori uomini di teatro del mondo che è anche stato paragonato ai futuristi, soprattutto per le prime regie degli anni Sessanta, a Roma anticipatrici dell’happening e della performance (alla quasi completamente perduta cinematografia futurista De Luca ha provato a ispirare movimenti e videomaking per la sua opera).
Vengo al dialogo in questione. Il 12 marzo 1985 Carmelo Bene viene interrogato sul titolo dell’opera che presenta durante una conferenza stampa:
“Perché questo titolo Carmelo Bene in Otello di William Shakespeare secondo Carmelo Bene?”
Carmelo Bene: Sul programma di sala c’è un messaggio di Klossowski splendido, che gli addetti ai lavori farebbero bene a leggere. Qualche critico italiano di teatro ha detto: “e mo’ Klossowski è un filosofo, un pensatore… ma faccia il suo mestiere e a noi lasci fare il nostro… Figurarsi!”. Se me lo consentite, leggerò un lungo brano del saggio di Klossowski. Questo brano chiarisce la domanda. Dunque, leggo: [SEGUE UNA LUNGA CITAZIONE DA KLOSSOWSKI LETTA AD ALTA VOCE DA BENE. L’intera citazione deriva da: Una conferenza stampa. Edoardo Erba e Sauro Pari, La Società dello Spettacolo, 12 marzo 1985, in Carmelo Bene, Si può solo dire nulla. Interviste, Il Saggiatore 2022, p. 1171. Ho recensito il libro qua: https://beemagazine.it/se-larte-fa-schifo-la-tradizione-puo-servire-alla-rivoluzione-il-grande-attore-e-morto-viva-il-grande-attore/].
Poiché De Luca mi aveva chiesto di pensare, per lo stesso programma di sala, a un montaggio di passi dal Giornale notturno di Fabre (legato al nostro primo incontro professionale), non ho resistito all’idea di usare il dialogo di Bene adattandolo all’occasione così, come se l’artista fosse interrogato dal pubblico:
VOCE DAL PUBBLICO: Perché questo titolo, ((MO!))?
DE LUCA: È un manifesto, un estratto, diciamo la presentazione per un appuntamento. Sul programma di sala c’è un messaggio di Jan Fabre splendido, che gli addetti ai lavori farebbero bene a leggere. Qualche critico italiano di teatro dirà: “e mo’ Jan Fabre è un filosofo, un pensatore… ma faccia il suo mestiere e a noi lasci fare il nostro… Figurarsi!” Se me lo consentite, leggerò un lungo brano del saggio di Fabre. Questo brano chiarisce la domanda. Dunque, leggo:
[SEGUE UNA COLLAZIONE DI CITAZIONI DAL Vol. 1 del GIORNALE NOTTURNO di Fabre]“Muoversi e accettare il movimento
è accettare la storia e il tempo.
(Se di questo si rendessero conto questi folli coreografi, le loro creazioni sarebbero ben diverse).
Un corpo è un’ingegnosa collezione di compromessi.
Il mio corpo è un ricettacolo
pieno di nodi e di sinuosità
come i miei pensieri.
Il mio corpo mi tradisce.
Io mento.
Il mio corpo mi punisce”.
L’esperienza delle tre residenze artistiche ha permesso ai due gruppi eterogenei dei quali ho fatto parte di verificare il funzionamento di un lavoro creativo complesso in tempi relativamente ristretti soprattutto a Milano, avendo come parola d’ordine mo/adesso/ora anche per decisioni da prendere rapidamente in merito alla forma più convincente da dare al lavoro. La rapidità nel fare velocemente cose difficili risulta spesso irritante per chi fa altri mestieri; perciò ci siamo divertiti a dare al programma di sala un titolo eloquente: Odio le persone che non conoscono l’urgenza.Vanessa Pey, Elena Tolon, Floriana Conte e Claudio Prati durante la restituzione pubblica di ((MO!)).
Floriana Conte – Professoressa di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e Accademica dell’Arcadia