C’era una volta a Kiev un bambino tanto grazioso e delicato, che d’estate andava in giro sempre a piedi nudi, perché era povero. Nel centro della città abitava la vecchia madre del calzolaio, che quando il bambino, che si chiamava Vaclav, ebbe dieci anni cucì un paio di scarpette rosse con vecchie strisce di cuoio rosso. I genitori di Vaclav facevano i ballerini, perciò Vaclav indossò le scarpette e si trasferì a Pietroburgo dove venne ammesso alla più rinomata scuola di danza esistente.
Mentre ballava, Vaclav venne notato da un importante signore russo che si interessò a lui. Il signore importante, che si chiamava Sergeij, disse che le scarpette facevano pena, le fece bruciare e Vaclav ricevette vestiti puliti e graziosi e imparò a leggere e anche, per prima cosa, a ballare sempre meglio.
Un giorno Sergeij intraprese un viaggio all’estero e portò con sé Vaclav, che aveva compiuto diciannove anni e intanto ballava, ballava, ballava con scarpette sempre nuove. A Parigi Sergeij e Vaclav ebbero un grandissimo successo e Vaclav diventò una celebrità fotografata e ritratta da grandi artisti.
Il successo rese Vaclav bersaglio di invidia; l’invidia lo rese preda di paure crescenti, a volte fondate e a volte no. Si separò da Sergeij, volle provare a farcela da solo ma non era abbastanza forte. Scoppiò una guerra mondiale in Europa e due anni dopo una rivoluzione nella Russia che lo aveva reso un grande artista, ma Vaclav ballò, ballò e ballò ancora fino a quando i medici gli imposero di riposare. Smise di danzare e si rifugiò lontano dalle città in cui c’erano i teatri in cui era stato acclamato. Morì senza ballare più e scrivendo la sua storia in un diario, mentre in Europa era scoppiata una seconda guerra mondiale.
Fin qui ho parafrasato e adattato la traduzione italiana di una delle fiabe più terrificanti e disperatamente attuali mai inventate per spiegare a chi diventerà adulto che l’ambizione sfrenata può avere conseguenze imprevedibili, soprattutto se la si crede un grimaldello per fuggire da un contesto sociale sfavorevole: Le scarpette rosse di Hans Christian Andersen.
La fiaba ha una fortuna visiva in una diseguale tradizione di film che inizia con il visionario e magnifico The Red Shoes di Michael Powell e Emeric Pessburger (1948, in cui il triangolo tra i protagonisti Lermontov, Vicky e Julian è ispirato alla vicenda professionale e umana, di passione, invidia, vendette, di cui sto per parlare e che riguarda l’impresario dei Balletti russi, il primo ballerino e la sopraggiunta sua moglie, Romola.
Vincitore di due Oscar, il film è un capolavoro immaginifico ed è tra i film favoriti di Martin Scorsese, che ha contribuito al restauro della pellicola). La sequenza cinematografica arriva a Il cigno nero (2010, di Darren Aronofsky, che ebbe l’Oscar per l’attrice protagonista; forse però una trasposizione troppo greve e horror rispetto alla fonte).
Ho usato l’inizio e la fine di Le scarpette rosse per introdurre la favolosa e tragica biografia di un grazioso bambino ucraino che si sente polacco, a dieci anni studia da ballerino in Russia, diventa una star imitata perfino dalla donna più eccentrica del tempo, la marchesa Casati (che si fa ritrarre vestita con un abito disegnato dal costumista del ballerino, lo scenografo Léon Bakst: ne ho scritto su “Ricerche di storia dell’arte” nel 2014, pp. 64-66, qui: https://www.academia.edu/12559729/Monna_Lisa_col_melograno_la_marchesa_Casati_per_larte_del_suo_tempo).
Il successo del ballerino è sostenuto da un impresario visionario che si innamora di lui e che gli fa fare un viaggio decisivo a Parigi, dove il pubblico lo idolatra come “il dio della danza”; infine viene rovinato da chi lo ha reso famoso e dalla sua stessa ambizione (pur se sostenuta da una abilità rara), oltre che dall’invidia. Il bambino si chiama Vaclav Nižinskij e ancora oggi è considerato il ballerino fisicamente più abile e rivoluzionario di tutti i tempi, capace di movenze complicate, difficilissime e ineffabili.
Nižinskij nasce a Kiev da ballerini polacchi emigrati in Ucraina, si considera sempre polacco (per la posizione strategica e la produzione di grano, il territorio dell’attuale Ucraina è stato spesso soggetto ad annessioni e rivendicazioni alterne da parte di Polonia e Impero zarista). Della Polonia non impara mai bene la lingua, poi nel 1900 entra nel tempio della danza classica: si iscrive alla prestigiosa scuola di danza di Pietroburgo, subendo invidie e malevolenze dai compagni che ne riconoscono subito la precoce grandezza.
Dal 1909 la grafia del nome del ballerino viene europeizzata e Nižinskij diventa per tutto il mondo Vaslav Nijinsky: quell’anno a Parigi il ballerino viene lanciato da Sergej ‘Serge’ Djagilev, che ha quasi vent’anni più di lui. Djagilev fa l’impresario teatrale e a Parigi fonda quei Ballets russes che diventano presto leggendari, compendio di tutte le arti russe in ambito internazionale. Infatti ‘Serge’ non scrittura soltanto Nijinsky e altri ballerini e ballerine che grazie ai Ballets diventeranno famosi, ma per i suoi spettacoli ingaggia musicisti delle avanguardie come Igor Stravinskij ed Erik Satie ed esponenti di tante avanguardie artistiche come André Derain, Henri Matisse, Juan Gris, Georges Braque, Maurice Utrillo, Max Ernst, Joan Miró e Pierre Bonnardd, Giorgio de Chirico, Giacomo Balla e Picasso.
Alla base della straordinaria innovatività e del conseguente successo europeo dei Balletti russi sta infatti in primo luogo l’aspetto visivo, decorativo, scenografico delle rappresentazioni, progettate da artisti di prim’ordine di nazionalità e professionalità diverse che collaborano a creare capolavori. Prima di fondare la compagnia di danza, infatti, l’impresario si avvicina a Léon Bakst e Alexandre Benois, scenografi attivi nella rivista “Mir iskusstva” (“Il mondo dell’arte”). Nel 1905 Djagilev organizza a Pietroburgo un’esposizione di ritratti russi. Risale al 1906 la prova generale che permetterà, tre anni dopo, l’arrivo trionfale dalla Russia della compagnia di danza e la sua affermazione come generatrice di ‘opere d’arte totali’: Djagilev fa allestire a Parigi l’Exposition de l’Art Russe al Salon d’Automne.
Si tratta di un’occasione decisiva per rendere attrattiva ogni forma di arte russa all’estero, perciò Djagilev fa riunire in una ambientazione raffinata oggetti di artigianato, icone, incisioni, sculture, quadri antichi e contemporanei (di Aleksandr Nikolaevič Benois, Kostantin Somov e Michail Fëdorovič Larionov e Natalia Goncharova).
Dopo l’esordio, per i Balletti russi si susseguono i successi non solo teatrali. Il 29 maggio 1912 alla prima del balletto L’Après-midi d’un faune, atto unico con la musica che era stata ispirata a Claude Debussy da una poesia omonima di Sthéphane Mallarmé, i costumi di Bakst e le coreografie dello stesso Nijinsky, assiste il più celebre artista vivente specializzato in statue, Auguste Rodin.
L’artista viene favorevolmente impressionato proprio dall’aspetto della coreografia che invece scandalizza il pubblico della prima: in tutina aderentissima, Nijinsky si comporta in scena come ci si aspetta che si comporti un fauno e alla fine mima esplicitamente un atto sessuale.
Ma non si tratta di una provocazione gratuita: la coreografia è naturalistica e aderente alla fama mitologica dei fauni, che hanno la caratteristica principale di essere promiscui e proni alla propria “bestialità erotica”, che il danzatore esplicita con una “mimica pesantemente sfrontata” (così Gaston Calmette su “Le Figaro” recensisce i realistici passi del danzatore). Non a caso, il ballerino e lo scenografo vanno al Louvre (come fa del resto qualunque altro artista dell’epoca, compreso Picasso) per studiare nelle figure dei vasi antichi le movenze dei corpi su cui basare la coreografia, sulla quale pare che poi l’ultima parola sia stata dell’impresario.
A ben vedere, alla fine ciò che scandalizza il pubblico è l’aderenza filologica di ogni aspetto dello spettacolo al soggetto messo in scena: il fauno è vestito da fauno, si muove da fauno e si comporta da fauno.
Rodin, che per tutta la carriera ha lavorato con materiali duttili (gesso, argilla, cera) per realizzare statue verosimili quanto i corpi umani presi a modello, difende entusiasticamente i passi che nella coreografia erano apparsi a pubblico e recensori deliberatamente goffi e osceni. Qualche giorno dopo Rodin chiede a Nijinsky di posare nudo per lui e i risultati delle sedute sono ancora oggi degni di mostre di richiamo per il grande pubblico (che non è sempre un pregio per le esposizioni, ma in casi come questo certamente lo è stato, quando è capitato).
Il più sperimentale modellatore di anatomie in gesso e il più sperimentale modellatore della propria anatomia, dinamicamente spinta agli estremi, si incontrano e le statuette che Rodin realizza mentre il ballerino danza sembrano bassorilievi greci che si animano.
La danza, dunque, nella sua fase suprema e irripetibile è stata un crocevia di contatti internazionali sul suolo europeo proprio perché gli artisti non sono stati distinti gli uni dagli altri per la loro nazione di provenienza: è stata la voglia, prevalente sopra ogni altro opportunismo, di creare opere eccellenti che ha permesso i contatti tra impresari, ballerini, scenografi, artisti mentre stava per scoppiare la prima guerra mondiale. Anche così il balletto classico ha consolidato la propria fama di forma d’arte con cui più di ogni altra la Russia è identificata nel mondo, così come oggi la moda e la pizza rappresentano l’Italia (i russi sono stati più bravi di noi a non sostituire completamente il Bolshoi con la vodka).
Ora che la guerra dichiarata dalla Russia all’Ucraina sostenuta dagli USA sembra non dover finire così presto perché prevalgono le istanze dei poteri economici su quelle dell’ingegno umano, le cose si sono messe diversamente. È dei giorni scorsi una delle tante polemiche esplose dopo le dichiarazioni russofobiche di un ballerino, Roberto Bolle, nei confronti dei suoi bravissimi colleghi russi, fino a prima della guerra tanto bene accetti.
Prima Bolle aveva dichiarato al settimanale “Oggi”: “La libertà per me è un valore incomparabile. Se in questo momento difficile la mia popolarità può aiutare, io ci sono. Faccio quello che posso. Non potrebbe essere altrimenti… Ballare a Kiev per chiedere la fine dell’aggressione? Assolutamente sì”, prendendo anche le distanze dalla collega un tempo più volte sua partner alla Scala, Svetlana Zacharova, la prima ballerina del Bolshoi, “ucraina e filo-putiniana”.
“Non voglio giudicarla, capisco che per lei sia difficile esporsi, in un regime così autoritario e spietato le ritorsioni possono essere micidiali” (https://www.oggi.it/people/vip-e-star/2022/05/04/parla-roberto-bolle-la-liberta-e-un-valore-incomparabile-se-mi-invitassero-andrei-a-ballare-a-kiev-esclusivo/).
Bolle non è uno qualsiasi; per fama mediatica internazionale è una sorta di corrispettivo vivente del suo inarrivabile antenato dei Balletti russi. Molti curricula e interviste autorizzati dallo stesso Bolle negli anni scorsi insistono giustamente su un aneddoto della sua biografia decisivo e degno della “leggenda dell’artista” (nella letteratura artistica spesso un anziano pittore si accorge che è arrivato sulla scena il suo futuro erede guardando le sue esercitazioni inconsapevoli o giovanili: ancora validissima lettura su questo tema è il bellissimo libro di due storici dell’arte vicini a Sigmund Freud, Ernst Kris e Otto Kurz, La leggenda dell’artista: https://www.lafeltrinelli.it/leggenda-dell-artista-libro-ernst-kris-otto-kurz/e/9788833911274).
Da allievo quindicenne della Scuola di ballo del Teatro alla Scala, Bolle ha avuto come mentore Rudolf Nureyev, che lo sceglie per il ruolo di Tadzio in Morte a Venezia. Del ballerino russo Bolle si sente erede: “Cerco di portare avanti il seme che lui ha piantato” (https://tg24.sky.it/spettacolo/2018/05/25/roberto-bolle-serata-nureyev).
Giova ricordare che Rudolf Nureyev è diventato un’icona pop del Novecento grazie alla libertà professionale e comportamentale permessa dall’asilo politico ottenuto dalla Francia dal 16 giugno 1961, in piena Guerra fredda, a causa della quale non ha poi potuto rimettere piede in Russia per moltissimo tempo.
Giova anche ricordare che Bolle il 25 settembre 2014 aveva dichiarato orgogliosamente: “Quando danzo in Russia mi sento parte della storia del balletto”. Bolle aveva “conquistato il pubblico della Federazione”, aveva posato in esclusiva su “Vogue Russia” e “si preparava a tornare a Mosca per il “Gala di stelle” al Palazzo del Cremlino per danzare con l’étoile russa Polina Semionova”, sua “partner di scena e grande amica” (queste ultime sono ancora parole di Bolle, si leggono qui: https://it.rbth.com/storie/2014/09/25/roberto_bolle_le_confessioni_del_divo_32821).
Se è comprensibile che Bolle, Étoile del Teatro alla Scala di Milano, voglia conservare anche il ruolo di Principal Dancer dell’American Ballet Theatre di New York rilasciando dichiarazioni che appaiano il più filoamericane possibile, appare retrogrado che anche in una delle arti tradizionalmente più cosmopolite, interdisciplinari e oggi più inclusive di tutte, la danza, si manifestino discriminazioni inaccettabili, per giunta assecondate dai media più diffusi.
Proprio grazie alle indiscrezioni, alle fotografie concesse ai paparazzi e alle mezze ammissioni di Bolle, piuttosto riservato sulla propria vita privata, l’omosessualità dei ballerini classici è tornata a essere un veicolo di sostegno ai coming out di molti giovani anonimi, dato che all’epoca delle relazioni del suo mentore Nureyev con artisti altrettanto famosi la cosa suscitò rumori mediatici dovuti più alla notorietà del ballerino esule che a una reale rivoluzione nella quotidianità conservatrice della danza; grazie al reclutamento di una collega americana, Misty Copeland, che tra 2016 e 2017 proprio Bolle ha voluto come partner femminile in un balletto (russo, di Prokof’ev) alla Scala, si è progressivamente modificata l’idea fissa della ballerina classica in un tipo fisico univoco: Copeland è stata la prima afroamericana a essere nominata prima ballerina all’American Ballet Theatre dopo essere stata vittima di body shaming per la statura bassa, il colore della pelle e la struttura muscolare insolita per una ballerina ma che tuttavia è uno dei suoi punti di forza professionali, come fu per Nijinsky (un’intervista di Virginia Dolata è su “Elle” del 16 febbraio 2021 qui: https://www.elle.com/it/magazine/interviste/a35476729/misty-copeland-ballerina/).
Insomma, Roberto Bolle ha rivendicato un uso politico del suo ruolo di primo ballerino, dichiarando la convenienza dell’applicazione di una sanzione ai colleghi russi: “Non inviterò al mio spettacolo ballerini russi, non hanno colpe ma è giusto dare un segnale politico. È difficile invitare degli artisti russi che non si sono dissociati dal regime, è difficile e non credo sia giusto invitarli in questo momento. Credo sia giusto avere una voce unica”.
Da studiosa delle immagini, delle fonti a esse collegate e del contesto in cui sono elaborate e allestite, ha suscitato il mio interesse la situazione in cui uno dei più famosi ballerini classici del mondo (se sia anche il migliore non sta a me giudicare, ho competenze inferiori a quelle di una dilettante in materia di danza classica) ha rivendicato il carattere politico di una scelta professionale in un ambito artistico.
La dichiarazione che ho virgolettato prima è estrapolata da una risposta di Bolle a un’entusiasta (per l’attraente aspetto fisico del ballerino nonostante sia quasi cinquantenne, più che per le sue idee o le sue doti professionali) Giulia Santerini durante una videointervista dietro le quinte dell’Arena Robinson, lo spazio di «Repubblica» al Salone del Libro di Torino (l’intero video è disponibile qui: https://video.repubblica.it/metropolis/salone-del-libro-2022-roberto-bolle-non-invitero-al-mio-spettacolo-ballerini-russi-non-hanno-colpe-ma-e-giusto-dare-un-segnale-politico/416360/417297).
Dunque, un’intervista rilasciata non dietro le quinte di un teatro ma a una fiera del libro. Tutto sommato, l’invito di un ballerino bello e famoso alla più importante annuale fiera italiana del libro non sarebbe poi un fatto stravagante, se la ragione dell’invito fosse la pubblicazione di un suo libro. Proprio al suo ideale avo Nijinsky, infatti, si attribuisce la scrittura di un diario autobiografico pubblicato dalla moglie Romola dopo la sua morte e poi tradotto in molte lingue non solo per la fama del suo autore ma anche per la qualità della scrittura (la traduzione italiana integrale più recente è di Maurizia Calusio per Adelphi: https://www.adelphi.it/libro/9788845921278).
Bolle, dal canto suo, dal 2010 al 2020 ha garantito a Mondadori e a Rizzoli vari libri autobiografici e illustrati di cui si dichiara autore e in cui si racconta la sua vita. Esiste, dunque, il genere dell’autobiografia dei danzatori classici con una tradizione illustre, facente capo al grande ballerino polacco emigrato in Ucraina e diventato professionista in Russia.
Nell’agenda dell’evento Cuore selvaggio della danza in programma il 21 maggio al Salone del libro Bolle è stato presentato come “il gladiatore della danza”. L’evento trovava ragione nel fatto che in passato Bolle aveva dichiarato:
“Al primo posto c’è la danza, ma al secondo ci sono l’amore per i viaggi e per i libri”. “Così non poteva esserci posto migliore per Roberto Bolle dove raccontare e raccontarsi, e l’Étoile dei Due Mondi, il Gladiatore della Danza, il simbolo dell’arte tersicorea e dell’Italia nel mondo, sarà ospite alla XXIV edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino”.
Quindi l’evento del 21 maggio al Salone era motivato dalla meritata notorietà del personaggio come ballerino, non come artista-scrittore. Chissà se Bolle è stato mal consigliato o se la dichiarazione politica rilasciata a “Repubblica tv” è, come possibile, farina del suo sacco.
Da studiosa interessata per lavoro anche alle dinamiche secondo cui gli artisti e i loro comportamenti condizionano il pubblico che li apprezza, credo che Bolle avrebbe potuto mettere a frutto la sua fama e l’invito a Torino con maggiore audacia di pensiero, anche perché il suo stesso repertorio (come quello di ogni ballerino classico) è basato in fortissima percentuale su opere di autori russi, che egli stesso ha ballato con colleghi russi e che non ha disdegnato di farlo, quando Putin era già al potere e non si dimostrava tanto diverso da come si è pienamente rivelato dal febbraio scorso.
L’occasione pubblica si sarebbe potuta sfruttare inserendosi nel solco tracciato da altri danzatori e artisti prima di Bolle, che in tempo di guerra hanno praticato un’arte non destinata solo a distrarre, ma anche a educare e soprattutto ad azzerare ogni differenza e ogni conflitto.
In fondo, lo hanno dimostrato i ballerini russi e ucraini ad aprile scorso, quando al San Carlo di Napoli si sono uniti per esibirsi insieme, tutti boicottati dai rispettivi paesi di origine. Questi artisti non si sono improvvisati uniti in tempo di guerra per la prima volta, perché una lezione ad andare in tale direzione veniva loro proprio dall’esempio autorevole dei Balletti russi.
Il 18 maggio 1917 l’Europa attraversa un momento cruciale della Prima guerra mondiale. Ma al Théâtre du Châtelet a Parigi debutta Parade, prodotto dai Ballets russes e creato in Italia da due francesi, un russo e uno spagnolo: il libretto è di Jean Cocteau, la musica di Erik Satie, la coreografia di Leonide Massine, le scene, i costumi e il sipario di Picasso.
L’iconografia del sipario di Parade è una sorta di emblema dell’arte come rappresentazione della realtà quotidiana e del rapporto ironico e competitivo con la tradizione della storia dell’arte. Il sipario è grande quanto una pittura murale antica, pesa 45 kg., il soggetto omaggia tanti capolavori secondo la regola della parodia: i saltimbanchi, i loro arnesi e i loro animali formano la Scuola di Atene del presente; alcuni sono in maschera, sono a tavola prima o dopo l’esibizione; guardano le evoluzioni dell’acrobata con le ali finte e i loro atteggiamenti mescolano le pose degli astanti nella taverna all’arrivo di Gesù e Pietro nella Chiamata di Matteo di Caravaggio a San Luigi dei Francesi (ma in controparte) e quelle di altrettanto celebri “ultime cene”, con l’oste che qui è moro e Arlecchino, Pierrot e la sua discinta compagna che stanno seduti come Giuda, Gesù e Giovanni (ma qui nessuno tradirà il suo maestro, è solo una pausa dallo spettacolo).
Uno sfondo di paesaggio con rovine si apre scoperto da una tenda rossa: sono elementi iconografici classici nella grande pittura di genere, religiosa e di storia. A sinistra l’immagine gigantesca di Pegaso, il mitologico cavallo figlio del sangue di Medusa e simbolo della irriducibilità dell’ispirazione artistica a qualunque briglia, mette in chiaro che a teatro, e nella carriera di un artista, tutto è consentito se si dice la verità.
Sembrano le prove generali prima di Guernica, quando Picasso non calerà un sipario sul pubblico per dare a esso una pausa dall’orrore che imperversa fuori dal teatro, ma dipingerà l’orrore su una tela grande come un sipario, senza possibilità di risparmiare gli occhi di chi vorrebbe distoglierli ricorrendo a un quadro.
Quando il gruppo di artisti prodotto dal suo antico mentore realizza Parade, Nijinskij è in Svizzera, sta per essere considerato irrimediabilmente pazzo pur se tanto lucido da parlare di sé compiutamente e spera, nonostante la guerra e la disperazione, di poter tornare in Russia per fondare un’accademia di danza in cui educare i giovani.
L’idea di arte trasmessa alla storia europea dai Balletti russi e in particolare dalla creazione di Parade è inclusiva, priva di ogni selezione su basi nazionalistiche intolleranti: un’opera di successo ha anche un effetto didattico e permette a tutti di familiarizzare con ogni cultura, come era successo al giovane ucraino cosmopolita grazie alla danza, come è successo al ballerino russo esule politico in Francia grazie alla danza, come è successo alla giovane afroamericana prima ballerina di una compagnia che fino a poco tempo prima non l’avrebbe pubblicizzata neppure come danzatrice di fila.
Il 1917 di Parade è un anno spartiacque per la storia dell’arte.
Quattro mesi dopo muore uno degli artisti più decisivi per la storia dell’arte dell’intero Novecento (Picasso compreso) e per il mercato dello stesso secolo, Edgar Degas, noto a chiunque (e riduttivamente) per le sue ballerine minorenni corrotte dal bisogno di sfuggire a vite miserabili, ridotte ad assumere, nei volti e nei corpi, sembianze e movenze scimmiesche impastate per sempre dalla polvere dei pastelli.
Artista immenso, solitario, amante dei romanzi d’appendice e razzista, antisemita, misogino, Degas è figlio di un banchiere e ha ricevuto un’istruzione superiore solida. Alla fine dell’Ottocento, a cinquantaquattro anni, si lamenta della deriva sociale causata dall’accesso all’istruzione scolastica dilatato anche alle classi sociali più basse.
Se i poveri vengono messi nelle condizioni di restringere il divario sociale andando a scuola, progressivamente scomparirà la coincidenza tra nascita e destino, soprattutto se si è donne (se Degas resuscitasse, sarebbe rincuorato vedendo che la situazione odierna, soprattutto in Italia, è finalmente quasi quella che auspicava lui).
Degas la pensava esattamente così: “L’istruzione consiste nel rendere un uomo inetto a una quantità di mestieri con cui potrebbe procurarsi di che vivere. Una volta le figlie dei portinai diventavano ballerine, oggi si diplomano alla scuola comunale!” (l’affermazione è raccolta da Daniel Halévy, Degas parla (1888), a cura di Jean-Pierre Halévy. Traduzione di Tommaso Pezzato, Milano 2018, p. 81).
Fortunatamente da decenni i figli dei proletari non devono scegliere tra la danza e il diploma: possono diventare ballerini e studiare contemporaneamente. Proprio Roberto Bolle da Casale Monferrato, figlio di una casalinga e di un meccanico, da allievo della scuola di ballo della Scala ha fatto in tempo, tra allenamenti rigorosissimi e spettacoli internazionali, a conseguire la maturità scientifica.
La considerazione sociale e mediatica dei ballerini oggi è, per fortuna, molto diversa da quella dei tempi di Degas. Per questo un primo ballerino viene intervistato e giornalisti e pubblico vogliono conoscere il suo parere, non solo sull’arte in cui eccelle, ma anche sulla politica internazionale.
L’uso che si può fare di questo potere espressivo può andare in tante direzioni. Il “seme” fatto germogliare da Nureyev nel giovane portato alla ribalta tanti anni fa non credo andasse nella direzione dell’odio nazionalista ma della promozione di un’arte visiva che è stata spesso a vocazione polimorfa. Se ci si sente, sicuramente a ragione, l’erede del più noto ballerino al mondo dopo Nijinksy, che questi, Nureyev e i loro discendenti si siano entrambi formati in Russia forse dovrebbe rappresentare, a questo punto e per un artista, davvero solo un dettaglio.
Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; @FlConte) e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia