Nella tela del ragno. Israele tra Stati Uniti e Iran nella lunga guerra per la supremazia del Medio Oriente

L’attacco militare allo Yemen di USA e UK contro gli Houthi, sostenuti da Teheran, che ostacolavano il passaggio delle navi mercantili nel Mar Rosso dopo l’esplodere del conflitto tra Israele e Hamas, ha allargato il fronte di guerra mediorientale già inasprito dall’assassinio in Beirut, il 2 gennaio 2024, di Saleh al-Arouri, importante leader politico di Hamas, e di altre 6 persone che erano nello stesso ufficio, seguito il giorno successivo dalla strage di Kerman, in cui, durante la cerimonia di commemorazione di Qasem Soleimani (il generale iraniano assassinato dagli USA in Iraq quattro anni fa)  hanno perso la vita almeno 84 persone.

L’Iran, il più accanito oppositore della presenza occidentale in area mediorientale, nemico dichiarato degli Stati Uniti, sostenitore della causa palestinese e della necessità di eliminare Israele dalla carta geografica per ora, tuttavia, non si lascia coinvolgere direttamente. Il livello di arricchimento del suo uranio è ai limiti della produzione di bombe atomiche, ma non è ancora in grado di produrne. Qualora riuscisse a divenire una potenza nucleare, il Paese sciita potrebbe diventare una temibile minaccia per gli interessi occidentali in Medio Oriente. Difficile credere che proprio l’Iran, il Nemico per eccellenza di Stati Uniti e Israele, fino a pochi decenni fa fosse uno dei più accreditati e fedeli alleati delle due potenze occidentali.

Circondato da nazioni arabe votate alla sua distruzione, Israele si era rivolto alla Persia (Paese musulmano indo-europeo), governata dal 1925 (dopo il colpo di Stato del 1921 ordito dai britannici) da Reza Shah Pahlavi, sciita dei Mazanderani, che aveva definitivamente deposto la dinastia Qajar. La situazione, fattasi precaria con l’elezione democratica (1951) del primo ministro Mohammad Mosaddegh, che aveva nazionalizzato il petrolio iraniano, era stata nuovamente rovesciata (1953) da un altro colpo di Stato anglo-statunitense. Le così chiamate “Operazione Ajax” (USA) e “Operazione Boot” (UK), si erano riprese ogni potere per metterlo nelle mani del giovane Shah Mohammed Reza Pahlavi che si era affrettato a riaffermare gli accordi stipulati con le compagnie petrolifere occidentali a guida statunitense ed era diventato il principale alleato di Stati Uniti e di Israele.

La situazione è perfetta. L’impianto militare è governato dagli USA e i servizi segreti sono in mano al Mossad israeliano. Il Paese corre veloce verso una “occidentalizzazione” voluta (imposta?) dallo Shah che ha proclamato la “Rivoluzione Bianca”, nonostante la fortissima opposizione dei religiosi sciiti e degli studenti coranici, stretti alle tradizioni, guidati dal leader in esilio Ruhollah Musavi Khomeini. Non è chiaro se il successivo colpo di Stato che vede lo Shah abbandonare l’Iran (16 gennaio 1979) abbia una diretta relazione con la sua decisione di rimettere mano al prezzo del petrolio, atto che lo pone in conflitto aperto con le compagnie petrolifere occidentali a guida statunitense. Di certo è che lo Shah non è adeguatamente informato dai servizi segreti, si accorge troppo tardi della portata della rivolta che lo travolge e, male consigliato, dà mano libera all’esercito contro le migliaia di civili che manifestano. I morti sono duecento, i feriti sono centinaia. É l’8 settembre 1978, data che passa alla storia come il “Venerdì Nero” e segna, di fatto, la fine della monarchia dei Pahlavi in Iran. Gli USA, accantonato lo Shah, si affrettano a riconoscere il nuovo governo dell’Ayatollah Khomeini, che, reclamato dal popolo, è ritornato in Iran il primo febbraio 1979.

Israele, al contrario, prudentemente, chiude ogni sua rappresentanza in attesa degli sviluppi che non si fanno attendere. Il primo passo dell’Iran teocratico di Khomeini, infatti, è di accogliere il 17 febbraio 1979 Yasser Arafat con gli onori di un capo di Stato e di affermare l’impegno del proprio Paese al sostegno della causa palestinese contro Israele, visto come una propaggine occidentale nel mondo musulmano. Il passo clamoroso immediatamente successivo è di convertire lo stabile in cui risiedeva la missione israeliana in ambasciata della Palestina, negando così, in modo manifesto, ogni legittimità di esistere allo Stato ebraico. Otto mesi dopo è Washington a doversi preoccupare. Il 4 novembre 1979 centinaia di studenti coranici assaltano l’ambasciata americana e prendono in ostaggio i cinquantadue diplomatici. Le foto che li mostrano bendati, con le mani legate, spinti fuori tra la folla urlante, fanno il giro del mondo. Gli Stati Uniti del Presidente Carter impiegheranno 444 giorni per riportarli a casa.

 

4 Novembre 1979. Foto d’Archivio. Diplomatici statunitensi bendati e con le mani legate, sequestrati dagli studenti coranici di Khomeini.

 

É evidente, oramai, che gli equilibri su cui si fondavano gli interessi occidentali in Medio Oriente sono radicalmente cambiati e che la guerra non dichiarata tra USA e Iran per la supremazia dell’area ha avuto inizio. Il 6 giugno 1982 Israele, stanco degli attacchi terroristici che l’OLP di Arafat conduce dal confine libanese, entra in Libano, Paese sovrano, con imponenti forze militari. L’intento è di liberare dai combattenti palestinesi una fascia di quaranta chilometri di territorio per impedire che cannoni a lunga gittata colpiscano il Paese ebraico. La missione di guerra “Peace for Galilee”, guidata da Ariel Sharon, tuttavia non si ferma e in una settimana arriva alle porte di Beirut. La capitale libanese è posta sotto assedio, la parte ovest pesantemente distrutta. Yasser Arafat, braccato, con diecimila dei suoi ripara in Tunisia. É vittoria totale per Israele cui immediatamente si affiancano Stati Uniti e Francia, in passato mandataria del Paese dei Cedri. Si progetta di fare del Libano un alleato sicuro, insediando un governo retto da cristiano-maroniti, sostenuto, armato e guidato dalle tre potenze occidentali. L’Iran, impegnato dal 1980 nella dissanguante guerra che l’Iraq di Saddam Hussein gli ha scatenato contro e che durerà otto anni, è costretto ad assistere, impotente, a tali eventi. I giochi per la supremazia dell’area si sono nuovamente rovesciati.

La guerra ha, però, fortemente scosso un’antichissima comunità sciita del sud-est del Libano. Si tratta dello sciismo più antico, fortemente legato alla tradizione, che venera, con il culto delle immagini e con la solenne rappresentazione e sanguinosa auto-fustigazione collettiva del giorno dell’Ashura,  alḤusayn ibn ʿAlī, terzo Imam e Imam martire per la  verità e giustizia, ucciso nel 680 insieme a 72 suoi fedeli, dal califfo Omayyade Yazīd ibn Muʿāwiyah, nella piana di Kerbala e da cui ha avuto origine la scissione tra musulmani sciiti e sunniti.

 

Rappresentazione di Ali, genero di Maometto, con i due figli Hasan a destra e Hussein a sinistra (da Naima El’Makrini, Cahiers du Cismodoc, 2019, fig. 1)

 

L’interlocutore obbligato diventa l’Iran sciita ove è inviata per consiglio una missione di saggi. É con loro che Khomeini sviluppa il suo piano. Invia in Libano, con l’appoggio dell’amica Syria, qualche centinaio dei suoi ferventi rivoluzionari che vi portano denaro, attrezzature e strategie militari. La valle della Beqāʿ diventa luogo clandestino di addestramento e d’insegnamento. Ciò che gli sciiti libanesi coltivano e che gli elitari iraniani incentivano in loro è il culto dei martiri.  L’11 novembre 1982 il palazzo di sette piani delle forze israeliane a Tiro, salta per aria: 91 morti. Gli israeliani, escluso il terrorismo, dal momento che l’OLP è stato sconfitto, concludono per l’esplosione di una tubatura di gas. Il 23 ottobre 1983 alle sei del mattino è la volta del quartier generale americano di quattro piani: 241 marines trovano la morte. Contemporaneamente salta per aria l’immobile del quartier generale francese: 58 morti. Hizballah esce allo scoperto, rivendica gli attentati e celebra i propri suicidi martiri, autori delle stragi. L’Iran è riuscito a creare l’asse Iran-Syria-Libano. Una società parallela ha preso forma ed ha iniziato a esistere in Libano: quella affiliata a Hizballah che vede dall’asilo alle superiori educare i propri figli nel culto del martirio. Israele, che in due anni ha perso 600 uomini, il 6 giugno 1985 si ritira da un Libano allo sfascio e si relega nell’area di confine Sud, dove resterà fino al 2000. L’Iran, dal suo canto, prepara Hizballah ad assumere un ruolo politico, oltre che militare, per strappare definitivamente il Paese dei Cedri all’Occidente.

L’11 novembre, il giorno dell’attentato contro il quartier generale israeliano a Tiro diviene la festa della commemorazione dei “Martiri della Resistenza” e l’autore suicida diciottenne, Ahmad Kassir, è insignito del titolo di “Principe dei Martiri” e celebrato con graffiti e immagini ovunque. Ancora una volta gli equilibri mediorientali sono cambiati. Khomeini muore nel 1989, ma la sua eredità anti-occidentale è

 

 

più forte che mai. Il 27 febbraio 1991 la prima guerra del Golfo, con la facile vittoria USA sull’Iraq, entrato in Kuwait sette mesi prima, rivede gli Stati Uniti protagonisti in Medio Oriente. Bush Padre, già direttore della CIA, vice-presidente e poi presidente statunitense consolida così la supremazia del suo Paese (divenuta egemonia unipolare dopo il crollo del Muro di Berlino) in quell’area geografica ricchissima di petrolio. Il nodo da sciogliere resta Teheran. É organizzata la Conferenza di Pace di Madrid del 30 ottobre 1991, che ha come scopo di creare progetti di collaborazione tra Israele e Paesi Arabi. Vi partecipano tutti; manca solo un Paese, l’Iran, che non è stato invitato e che è ora retto dall’Ayatollah ʿAlī Ḥoseynī Khāmeneī e dal pragmatico presidente ‘Ali Akbar Hāshemi Rafsanjāni. Durante la guerra del Golfo, la Persia si è mantenuta neutrale, ma ha concesso il proprio spazio aereo agli USA per bombardare l’Iraq.

Economicamente a pezzi dopo la lunga guerra con Saddam Hussein, il Paese ha più che mai l’esigenza di uscire dal proprio isolamento. L’esclusione da Madrid è vissuta come un’ulteriore conferma dell’inaffidabilità degli statunitensi che hanno usato la concessione dello spazio aereo iraniano per i propri stretti fini senza alcuna intenzione di aperture verso l’Iran. Khāmeneī, costretto a incassare il colpo, reagisce giocando d’anticipo; due settimane prima di Madrid, apre a Teheran un convegno internazionale religioso a sostegno della causa palestinese. Vi partecipano una sessantina di organizzazioni. L’obiettivo è quello di sradicare il dominio degli Stati Uniti dal Medio Oriente annientando Israele.

Da quel momento in poi Hamas e il Jihad islamico che operano in Palestina e Hizballah in Libano si legheranno strettamente per formare, sotto l’egida di Teheran l’ “Asse della Resistenza”. A nulla servono attacchi mirati per uccidere leaders di Hizballah, come l’uccisione di Abbas al-Musawi, assassinato da Israele insieme alla moglie e al figlio al ritorno da un evento commemorativo. La catena dei morti israeliani, palestinesi e pro-palestinesi che segue sembra inarrestabile. La nomina a Primo Ministro di Israele, il 13 luglio 1992, di Yitzhak Rabin ribalta nuovamente la situazione. Da grande statista, il politico israeliano comprende che il solo modo per sopravvivere alla tela del ragno in cui si dibatte Israele è trovare un accordo diretto con i palestinesi scavalcando l’Iran e chiudendo per sempre il problema. É un momento propizio perché Rabin ha come interlocutore, dall’altra parte, un uomo del calibro di Yasser Arafat che capisce come solo su una propria terra riconosciuta come Stato il suo popolo può uscire dalla guerriglia che lo vuole vittima sacrificale nella stessa tela del ragno creata dal conflitto tra USA e Iran. Gli accordi di Oslo del 1993 e 1995, sanciscono una pace difficile che né l’Iran né i sionisti sostenuti dagli USA vogliono.

L’assassinio di Rabin nel 1995, l’emarginazione progressiva di Arafat e il sostegno dichiarato da Teheran al terrorismo islamico, portano al naufragio del piano di pace e allo scattare delle sanzioni USA contro l’Iran, volte ad isolarlo e a strangolare la sua economia. L’11 settembre 2001 segna un riavvicinamento tra Stati Uniti e Teheran. Washington attacca l’Afghanistan, ritenuto colpevole di proteggere Osama bin Laden, leader di Al Qaeda, con l’intento non solo di distruggere l’organizzazione terrorista, ma anche di rovesciare il governo dei Talebani per installarne un altro, guidato dall’Occidente. L’Iran, non solo ha una lunga frontiera condivisa con l’Afghanistan, ma ha conti da regolare con i Talebani, sunniti, che hanno massacrato le minoranze sciite Hazari, e ucciso i diplomatici iraniani. Gli interessi di Washington e Teheran, questa volta coincidono e all’”Asse della Resistenza” (Hamas, Jihad islamico, Hizballah) è data facoltà di rivestire un ruolo importante nel conflitto. La conferenza internazionale di Bonn, riunitasi nel dicembre 2001, decide la formazione del nuovo governo afgano e Mohammad Javad Zarif, è l’acuto delegato iraniano che riesce a ritagliare per il proprio Paese un ruolo fondamentale d’intermediario. Contestualmente, sono chiesti a Washington un alleggerimento delle sanzioni e un’apertura verso accordi di pace. Bush Jr. è , però, circondato da Dick Cheney, Colin Power e Donald Rumsfel che rifiutano interscambi con l’Iran al di là di opportunistici accordi tattici.

L’illegale guerra contro l’Iraq a guida USA e NATO del 2003, fondata sulla più vergognosa menzogna dell’Occidente, che porterà al massacro di centinaia di migliaia di civili innocenti è un colossale errore strategico nel momento in cui, ancora una volta, gli Stati Uniti, inebriati dalle facili vittorie, eliminano Saddam Hussein, il più accanito nemico dell’Iran, e contemporaneamente rifiutano la mano tesa di Teheran che, tramite l’ambasciatore svizzero, propone di disarmare Hamas, il Jihad islamico e Hizballah, in cambio dell’annullamento delle sanzioni e del riconoscimento del proprio ruolo da protagonista nell’area. Ancora una volta tale diniego è male vissuto. Considerati i colpi di Stato in Afghanistan e Irak, quelli già subiti dall’Iran in passato e la facilità con cui gli USA, insuperabili Maestri in tal campo, rovesciano i regimi che ritengono ostili ai propri interessi, Teheran si preoccupa.

L’Ayatollah Khamenei, reagisce alla chiusura occidentale incentivando la corsa al nucleare. L’elezione di Obama permette una tregua con l’accordo sul nucleare stipulato a Vienna nel 2015, ma l’elezione di Trump vede gli USA inaspettatamente recedere unilateralmente. Intanto gli equilibri sono nuovamente cambiati. Gli “Accordi di Abramo”, mal visti dagli iraniani, firmati nel 2020 tra Israele, Marocco, Emirati, Sudan, Barein e che avevano portato a collaborazioni diplomatiche, economiche e tecnologiche eccezionalmente proficue, con le stragi di civili palestinesi in Gaza, successive all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, hanno subito una battuta d’arresto. Ritiratisi gli statunitensi dall’Afghanistan nel 2022, i Talebani sono ritornati al governo; Teheran ha sostenuto gli Houthi nella guerra tra Arabia Saudita (armata dagli USA) e Yemen e ha creato l’asse Iran-Libano-Syria-Yemen cui si è aggiunto l’Iraq con un patto per la protezione dei rispettivi confini dal terrorismo kurdo. Il risultato della guerra a guida statunitense contro l’Afghanistan e l’Iraq per destabilizzare l’area, i bombardamenti sulla Syria di cui non si è riusciti a rovesciare il governo di Bashar al-Assad, al di là delle centinaia di migliaia di morti si sono rivelati perdenti.

Gli attacchi Houthi sul Mar Rosso hanno permesso, ora, a USA e UK di intervenire direttamente, repentinamente e di bombardare lo Yemen colpendo non solo il porto di Al Hudaydah, ma anche la capitale Sana’a e le città di Dhamar e Sa’da, all’interno del territorio. Gli Stati Uniti tornano così nuovamente da protagonisti in Medio Oriente, prima che l’Iran sia stato in grado di emergere come potenza nucleare. Biden, alla scacchiera, guarda alle elezioni di novembre.

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Maurizia LeonciniFreelance Journalist

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