Una cosa alla quale raramente si pensa, benché se ne faccia uso quotidianamente migliaia di volte, è la lingua. Per un motivo o per l’altro, infatti, molti di noi non pensano alla centralità, nella loro esistenza individuale e sociale, della comunicazione che avviene spesso anche attraverso più lingue, padroneggiate in modo diverso. Parliamo e scriviamo incessantemente (per la verità non dappertutto, né con pari intensità), ma non ci rendiamo conto delle fattezze oggettive degli strumenti essenziali dell’espressione verbale.
È vero: usiamo anche linguaggi non-verbali per comunicare e per esprimere il nostro stato d’animo – decine di studi lo testimoniano, almeno sin da Ch. Darwin, 1872, The Expression of the Emotions in Man and Animals – ma l’ordine che siamo riusciti a riconoscere (e a imporre, dominando la grammatica) nel linguaggio parlato è davvero sorprendente. Sappiamo anche questo, secondo formulazioni rigorose che risalgono alla fine dell’Ottocento, quando un glottologo svizzero, Ferdinand de Saussure, in quello che poi è diventato il Cours de Linguistique Générale, 1916, ha condensato varie conquiste di quel periodo in una visione del linguaggio non interferita dal riferimento alle lingue classiche, alla loro forma scritta e alla tradizione grammaticale che si era diffusa arbitrariamente partendo da esse***.
Nel corso del Novecento non sono mancati ulteriori progressi nelle conoscenze del funzionamento di questa straordinaria dotazione genetica degli esseri umani che si manifesta in una magnifica diversità, nelle varie aree geografiche del pianeta. E se, da un lato, dall’analisi strutturale siamo passati al funzionalismo e ad altri modelli di analisi del linguaggio (e di specifiche lingue) che hanno modificato il modo di riflettere sulla grammatica e sulla didattica delle lingue, dall’altro, l’affermazione di principi universal(istic)i, suggeriti inizialmente da Noam Chomsky, ha fatto constatare come le risorse condivise per la costruzione degli enunciati possano specializzarsi in tante soluzioni linguistiche diverse, pur restando ciascuna lingua motivata dalle stesse premesse.
Non sono mancati gli studiosi che hanno dedicato le loro attenzioni alle situazioni di plurilinguismo, concentrando le loro ricerche sulle modalità con cui si presentano i progressi nell’apprendimento di una lingua straniera. Ma la seconda metà del Novecento ha visto molti sociolinguisti e pragmalinguisti che hanno investito le loro energie nel mostrarci il modo in cui il parlante usa le sue lingue, cioè le lingue di un repertorio linguistico che non è sempre condiviso e bilanciato (non parliamo le lingue che conosciamo con la stessa frequenza e non le controlliamo allo stesso modo nelle varie situazioni d’uso; si veda almeno il QCER – Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue).
E come abbiamo progressivamente imparato a riconoscere, anche grazie a linguisti come Tullio De Mauro, non parliamo solo una lingua nazionale: anche dove non codificati in modo unitario e normativo, i nostri dialetti sono vere e proprie lingue locali che arricchiscono il repertorio individuale di molti parlanti anche in aree geografiche dove si sono incontrati modelli linguistici totalmente diversi (si pensi alle aree alloglotte, le località dove si parlano dialetti tedeschi, greci, albanesi…, oppure alle lingue dei nomadi oppure ancora a quelle di migranti che vengono da Paesi in cui sono diffuse centinaia di altre lingue).
La complessità però, come possiamo immaginare, spostandoci da una regione all’altra, è spesso legata anche al fatto che portiamo con noi i nostri bagagli linguistici anche nelle comunità che ci accolgono. In questi contesti mettiamo in circolazione parole o espressioni, usi grammaticali che confrontiamo con quelli degli altri (inclusi quelli della comunità di accoglienza) in situazioni di contatto davvero interessanti che hanno condotto in qualche caso a importanti cambiamenti dei caratteri linguistici generali di alcune grandi città (Roma o Torino, tra le altre).
Perciò ad es. i sardi o i siciliani, già forti della loro consapevolezza di una diversità dialettale derivante da un’unità insulare, non si sono trattenuti e hanno così scoperto variazioni interne non trascurabili e valori locali non solo riconducibili a specificità culturali (tradizioni, costumi, gastronomia…), contribuendo a determinare anche il profilo linguistico delle città in cui si sono spostati in modo più impattante.
A questi aspetti sono dedicati diversi saggi del collega Roberto Sottile, recentemente scomparso, che ha lavorato per anni col suo maestro, Giovanni Ruffino, presso il Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani e all’Università di Palermo (ebbene sì, la dialettologia esiste ed è disciplina accademica).
Come nelle altre regioni, il parlante dialettofono siciliano – sempre per fare un esempio – scopre di essere portatore di un mosaico di lingue, le cui tessere si possono scambiare o sovrapporre e che già in passato si sono adattate per fare posto a sempre nuovi arrivi: la convivenza di elementi di lingue diverse nel nostro repertorio le modifica col tempo e nessuna lingua può dirsi “pura”, anzi, la ricchezza di forme e significati, le situazioni di continua evoluzione sono il sale quotidiano che rende efficace e ludica la comunicazione e mantiene vitali le lingue, che si adattano così alle necessità del presente, del luogo e del gruppo di individui.
Oggi, anche rimanendo nella nostra comunità d’origine, grazie ai mezzi di comunicazione a distanza (dapprima telefono, radio, TV…) e all’arrivo di concittadini di origini diverse, abbiamo fatto la scoperta della nostra individualità locale e abbiamo osservato quanto questa possa rafforzare un sentimento identitario, nel senso benevolo del termine.
Se, in alcuni casi isolati, questo può aver infatti portato all’esasperazione di nazionalismi xenofobi, nella maggior parte dei casi la maggiore sensibilità alla variazione linguistica ha contribuito a sviluppare la consapevolezza di partecipare a un’unità nazionale o a un cosmopolitismo basato su una diversità da preservare con senso eco-linguistico. Tutto questo nella convinzione che si possa essere cittadini del mondo, pur restando europei, italiani e, per fare solo un esempio, padani, piemontesi, cuneesi, monregalesi, pamparatesi e valcasottesi (cioè viavia membri di comunità sempre più piccole annidate l’una nell’altra, fino alla borgata o alla frazione).
Ecco quindi che il revival dialettale comincia ad affiorare (anche là dove non ci sono rivendicazioni di autonomia o addirittura nelle condizioni di commistione create da diverse comunità regionali che si sono incontrate all’estero) e a ritagliarsi uno spazio in ambiti per un certo tempo riservati alle lingue nazionali.
Per fare anche solo un esempio, come mostrano le ricerche degli studiosi del “paesaggio linguistico”, abbiamo visto un incremento progressivo delle forme dialettali, a volte solo fossili di una lingua della nostalgia (nelle regioni in cui precocemente le parlate locali erano state sacrificate a un’idea estemporanea di progresso), anche nella crematonimia, cioè nelle parole che usiamo nelle insegne, nella segnaletica stradale di alcune località (soprattutto nelle comunità alle quali la legge 482/99 ha riconosciuto lo statuto di minoranza linguistica), nelle pubblicità, nell’offerta di prodotti commerciali per scopi turistici…
Senza per questo voler criticare le buone intenzioni degli scriventi improvvisati, qui è sorto però il problema delle grafie ingenue adottate per lingue che erano rimaste per secoli nella pura oralità*.
Ecco quindi un proliferare di forme dialettali che sono state scritte come se si trattasse di forme “corrotte” dell’italiano (e con i poveri strumenti di questa lingua, insufficienti per rappresentare la significativa variazione linguistica nel territorio della nazione).
In queste circostanze iniziano poi le dispute tra diversi modelli di lingua e di scrittura: persone, che fino al giorno prima non avevano idea della diversità delle lingue del mondo e della complessità dei sistemi linguistici, cominciano a considerare un’offesa personale la proposta di scrivere con <o>, con <ou> o con <u> un determinato suono che – in quella parlata, in quella posizione all’interno di quella particolare parola – si presenta con quel particolare timbro, che rappresenta un “tratto-bandiera” di un determinato dialetto.
E tutto questo accade proprio nel momento in cui arrivano i social media, a fare da cassa di risonanza alle stravaganze di curiosi influencer piuttosto che incoraggiare a rivolgersi all’expertise dell’accademico che avevano sviluppato pionieristicamente l’attenzione verso quest’aspetto – prima che scoppiasse la moda – dedicando studi, riflessioni e proposte argomentate in modo consapevole e sensato. Penso a figure come quella del fondatore del laboratorio in cui lavoro, il fonetista e dialettologo torinese Arturo Genre, già direttore dell’Istituto dell’Atlante Linguistico Italiano e docente di glottologia dell’Università di Torino.
Benché la materia sia nettamente meno importante, vediamo qui lo stesso paradosso che si verifica in tema di vaccini e pandemia: così come in queste circostanze tutti diventano virologi, possiamo osservare come già da tempo, magari con la sola licenza elementare (o magari con una laurea in sismologia o sociologia delle religioni), molti si siano sentiti linguisti laureati, autorizzati a ignorare decenni di ricerche degli specialisti, e abbiano cominciare a pontificare su apostrofi e schwa, spesso anche in mancanza totale di netiquette o, persino, di un senso di educazione e civiltà (che fino a qualche tempo fa sarebbe stato un senso comune in ambito mediatico).
Accade, allora, di osservare il nome di una specialità gastronomica calabrese, diffusa in tutto il mondo, la nduja, acquistare una serie di grafie che vanno da quelle più prudenti e oculate ad alcune (purtroppo le più diffuse) che – eufemisticamente – potremmo definire difficilmente giustificabili (Ora mi dilungo su nduja ma lo stesso potrei dire di ndràngheta, e lì dovrei essere impietoso nei confronti di molti conduttori di notiziari e giornalisti di scarsa sensibilità linguistica, che scrivono o pronunciano questa parola italianizzandola impunemente!).
Quali sono le soluzioni grafiche più adatte per la parola nduja? E quali sono gli ostacoli per una comprensione della forma più auspicabile da attribuirle?
Molti ne saranno sorpresi, ma la parola intùglio (o intóglio) esiste in italiano, come esistono le forme (a)nnóglia o (a)nnójë diffuse in altre regioni del Centro-Sud, e – confrontandosi con fr. andouille – indica un tipo d’insaccato (< lat. *inductilia, REW 4384)**. Bene quindi la grafia ’Nduja, perché l’apostrofo iniziale indica un’aferesi; ma notare le riflessioni che è stato necessario fare per sdoganarla. La seconda soluzione, Nduja, essendo rigorosamente fonetica, cioè fedele a una corrispondenza non ambigua fonema-grafema, è quella che impegna di meno ed è di gran lunga preferibile per un’utenza senza adeguata formazione.
La terza, ‘Nduja, con la virgoletta semplice aperta (!), è ormai stata forzatamente introdotta anche da molta editoria trascurata che – faute de tradition et de compétence – si è lasciata dominare dai correttori ortografici (che non consentono l’apostrofo all’inizio di una parola, come invece prevede la gloriosa tradizione tipografica italiana che i migliori editori ancora continuano). Come si vede dai quattro esempi, è però la quarta soluzione, N’duja, totalmente immotivata, come se fosse caduta una vocale dopo la nasale iniziale (ma abbiamo visto che questo non è il caso), quella che ricorre più spesso, a testimonianza dell’approssimazione con cui si eseguono queste operazioni. Con questo non voglio dire che il prodotto nella confezione sia meno buono, ma l’etichetta rivela forse il tentativo di risparmiare di un produttore che ha preferito fare da sé, senza rivolgersi a un professionista della comunicazione (oppure si è rivolto a un ciarlatano o ancora ha copiato da altri che l’avevano fatto). Chiude la carrellata, nel testo in basso in figura, tratto dal menu di una pizzeria, il caso di ‘N’duja, con ‘n’ tra virgolette semplici (come se fosse da mettere in evidenza), sul quale anche un conoscitore superficiale dei dialetti calabresi e meridionali stenderebbe un velo pietoso.
Dal Sud al Nord, alla piemontese bagna càuda, facile a dirsi e a scriversi, si potrebbe pensare. E invece no, perché anche in questo caso i fantasiosi organizzatori di sagre e feste paesane le inventano tutte per introdurre elementi che rendano “esotico” (cioè distante da usi genericamente italiani) il prodotto gastronomico locale.
Nelle modalità di presentazione più semplici, l’emblema dell’arte culinaria piemontese assume in buona parte della regione una denominazione che conserva un significato trasparente di “intingolo caldo” (quindi una bagna, càuda, cioè ‘calda’, con esito vocalico della velarizzazione di I, direbbe un linguista storico). Ignare degli sforzi di molti cultori locali intenti a normalizzare la lingua locale (tra l’altro tutelata anche da decreti della Regione), gli autori delle locandine in figura mostrano, invece, ben quattro soluzioni inattese: tutte allontanano il lettore dall’immediata comprensione (o, se non altro, dall’immediata restituzione fonetica) del nome della vivanda che s’intende promuovere. Dato che ciascuno dei simboli speciali introdotti induce a una diversa lettura, il turista inesperto finisce anche col chiedersi se non si tratti di piatti diversi o di pronunce regionali diverse del nome di uno stesso piatto.
Ma non solo il turista. Ne sono consapevoli alcuni dirigenti del Ministero delle politiche agricole che mi hanno contattato in passato per rimediare a problemi di grafia e pronuncia dei nomi dei prodotti agroalimentari tipici delle diverse regioni, anche se vale ancora il Decreto Ministeriale 18 luglio 2000 (v. sito MIPAAF che pubblica l’”Elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali”) il quale, alla sua 18a edizione, continua a offrire una delizioso quadro di totale inadeguatezza delle disponibilità linguistiche dell’italiano medio a promuovere i prodotti regionali nelle lingue del territorio.
Per la sopravvivenza e/o la valorizzazione delle nostre lingue madri l’invito è allora – primariamente – quello di continuare a “parlare come mangiamo”, rivolgendoci ai nostri anziani, i migliori portatori della tradizione linguistica e culinaria. Se poi siamo pronti ad accogliere le novità a tavola, non dobbiamo diffidare delle innovazioni linguistiche, che naturalmente si diffondono per dare nuova linfa vitale alle nostre parlate. E se infine vogliamo “onorare” la lingua orale di uno status di presunto maggior prestigio, “nobilitandola” ad es. per mezzo di una grafia che ne garantisca la possibilità di scrittura, possiamo sempre rivolgerci agli esperti, che sono pronti a fornirci le ricette.
Antonio Romano – Ordinario di linguistica Università di Torino
* Il lettore intenzionato ad approfondire il tema troverà diversi contributi interessanti in S. Dal Negro, F. Guerini & G. Iannàccaro (a cura di) (2015), Elaborazione ortografica delle varietà non standard. Esperienze spontanee in Italia e all’estero, Bergamo University Press/Edizioni Sestante. Contributi più applicativi possono essere invece, per i dialetti di alcune aree: F. GRANATIERO, Altro volgare: per una grafia unitaria della poesia nei dialetti alto-meridionali, Milano: La vita felice, 2015, e A. REGNICOLI, Scrivere il dialetto. Proposte ortografiche per le parlate delle aree maceratese-camerte e fermana, Macerata: EUM, 2020.
**Il REW è una fonte datata ma ancora valida per le ricerche etimologiche delle forme dialettali del dominio romanzo (W. Meyer-Lübke, Romanisches Etymologisches Wörterbuch, Heidelberg: Winter, 1935 (3a ed.)).
***Per lo studio delle lingue, infatti, in quel momento storico, si prendevano a modello il latino o il greco, che mal si adattavano a descrivere le proprietà delle lingue vive. Oggi molti sarebbero inclini – altrettanto fallibilmente – a prendere l’inglese come base analitica per comprendere il funzionamento delle altre lingue, per le quali servirebbe invece un modello generale (che non si impara a scuola, ma nei corsi di studio universitari).