Il 7 ottobre 2023 un’operazione di Hamas nel sud di Israele ha portato ad un’escalation di tensione tra Tel Aviv e Gaza. L’attacco del gruppo islamico è stato ampiamente condannato dall’Occidente ma a quasi un anno di distanza e di fronte alla reazione di Israele sembra che le carte in tavola stiano cambiando. Usa ed Ue non riescono più a nascondere il disappunto per il modo in cui Tel Aviv ha attaccato il territorio palestinese, e ora quello libanese, per stanare i capi del gruppo terroristico.
Abbiamo parlato della difficile situazione in Medio Oriente con l’analista ed esperto della cosiddetta area MENA / Middle East and North Africa) Emanuele Volpini.
Quali sono le prospettive ad un anno dallo scoppio dal conflitto?
“In questo mese si è discusso a lungo di nuove proposte per il cessato del fuoco per evitare un aumento di tensioni. Le prospettive per l’anniversario del 7 ottobre ad oggi sembrano essere quelle di un innalzamento delle ostilità tra Israele e Libano, mentre l’Iran sembra in questa fase farsi leggermente da parte, visto l’avvicinamento del nuovo Presidente della Repubblica Islamica. In questo momento l’Iran sta cercando di comprendere quali siano le proprie possibilità in caso di conflitto aperto con Israele. Il nuovo fronte caldo per Tel Aviv sembra quello a nord, quindi Hezbollah potrebbe diventare la minaccia numero uno per Israele. Il gruppo paramilitare ha ribadito la sua intenzione anche tramite la pubblicazione di video che mostrano le proprie capacità militari.
Potrebbe esserci un conflitto aperto?
Mi sembra difficile, questa situazione va avanti da mesi. Si è pensato che il conflitto potesse esplodere con Hezbollah, poi con Teheran dopo l’uccisione di Haniyeh…credo che le prospettive future siano quelle di mantenere alta l’instabilità e la tensione. L’unica variante che potrebbe perlomeno rappresentare realmente una possibilità di raggiungimento di un cessato del fuoco è rappresentata dall’amministrazione Biden. Se l’amministrazione Biden ponesse fine alle ostilità sarebbe un successo doppio sia per gli americani in Medio Oriente che riuscirebbero quindi a salvare la faccia, sia per l’amministrazione Biden stessa che concluderebbe i suoi quattro anni con la risoluzione momentanea di un conflitto che per un anno ha paralizzato il Medio Oriente intero e anzi ha accresciuto ulteriormente l’odio che sembrava essere ormai sopito nei confronti di Israele.
Come sono cambiate invece le relazioni internazionali? Sembra che anche gli alleati storici di Israele abbiano storto il naso di fronte a certe azioni…
Il mondo sembra essersi reso conto dell’ipocrisia e di quello che sta accadendo in Medio Oriente soprattutto grazie ai mezzi di comunicazione, in particolare grazie ai social. Si è vista l’altra faccia della medaglia di Israele, una democrazia imperfetta che anzi ha subito una battuta del resto nel suo processo di democratizzazione. Vediamo un Paese che in realtà ha molte contraddizioni, ha molte fragilità interne. Ricordiamo che poi negli ultimi sei anni Israele ha cambiato cinque governi, questo è un altro sintomo di instabilità politica interna. Il mondo si sta accorgendo che Israele non è il Paese perfetto che per anni è stato dipinto. Ci si accorge anche dei doppi standard imposti dall’Occidente in contesti dove ha degli interessi politici, economici e militari.
Quali problemi politici affronta in questo momento Israele oltre alla guerra?
Netanyahu deve mantenere alto il livello di tensione a livello di politica interna. Il premier sa che nel momento in cui il conflitto dovesse terminare dovrà affrontare un processo da parte dell’opinione pubblica interna ed eventuali elezioni anticipate politiche. Inoltre dovrebbe fare i conti con l’estrema destra che fa parte della sua coalizione di governo. Se guardiamo invece alla politica estera, quindi sia quella regionale che internazionale, sicuramente Israele perde tanto. Quando si concluderà questo conflitto a Gaza, e non sappiamo né quando né come, sicuramente Israele perderà credibilità nonostante i passi che erano stati fatti in avanti. Alcuni Paesi, come l’Arabia Saudita che ritengono Israele un modello, cercheranno di mantenere i rapporti.
Israele perde tanto nella sua partnership con gli Stati Uniti a livello di immagine, anche se poi nella concretezza gli Usa non hanno mai negato il continuo supporto a Tel Aviv. Israele, infine, dovrà ricostruire la propria immagine internazionale: dipenderà anche dalle prossime elezioni politiche che non sappiamo ancora quando si terranno.
Il Libano, come già detto, è il nuovo fronte caldo. Sono state invocate tante soluzioni nelle ultime settimane…
La situazione in Libano è quella di più alta tensione. È diventato il terreno principale degli scontri, distogliendo in parte l’attenzione da quello che sta succedendo a Gaza, perché ricordiamo che comunque Israele continua ad essere ancora presente con le proprie forze di terra. Beirut non esiste più. Israele continua ad attaccare, continua a bombardare mirando ai vertici di Hezbollah. Credo che una possibile soluzione in questo caso per ciò che sta succedendo fra Beirut e Tel Aviv sia quella forse di una cordata di Paesi arabi che intervengano per cercare di trovare una soluzione politica momentanea e che riportino comunque il focus su Gaza.
Hezbollah in questi ultimi mesi ha alzato molto il tiro mostrando anche la sua indipendenza operativa rispetto a Teheran, che sembra essersi fatta da parte in questo momento. La soluzione che a mio avviso potrebbe essere quella più congeniale per cercare una tregua tra Hezbollah e Israele penso che sia un tavolo dove i Paesi arabi si siedano e cerchino di riportare comunque l’attenzione su Gaza e allentare le tensioni militari che Hezbollah sta ulteriormente aumentando in risposta ovviamente alle azioni di Israele.
Tel Aviv ha attaccato in maniera preventiva e dunque per primo. Hezbollah in questo momento reagisce, forse cade in quella che è la trappola dell’istigazione israeliana. I partner regionali di Hezbollah possono cercare di intavolare delle trattative per allentare le tensioni.
In questo momento sono in corso i negoziati prima a Doha, poi al Cairo. Nonostante tutto, il cessate il fuoco quanto è lontano?
Il cessate il fuoco sembra realmente una visione utopica in questo momento. C’erano speranze, ovviamente, quando si vociferava di un incontro nel giorno di Ferragosto. L’unica reale possibilità per il raggiungimento di un cessato del fuoco credo che sia l’azione americana, che in questo momento è l’unico attore a livello internazionale che può muovere gli equilibri e spostare le decisioni di Israele.
Non c’è però in questo momento la volontà neanche dell’amministrazione Biden, e sembrerebbe neanche da parte di Kamala Harris, di affrontare realmente il problema e condannare Israele proprio per una questione di legami politici ed economici.
A quasi un anno dall’inizio del conflitto del 7 ottobre sembra veramente lontano il cessate il fuoco. Abbiamo visto che la guerra cominciata a Gaza si è espansa, sono infatti subentrati gli Houthi e Hezbollah ha assunto sempre di più un ruolo preponderante nel contesto, per non dimenticare infine il ruolo di Teheran. Il cessate il fuoco dovrebbe essere regionale ma per ora resta difficile.
Il Medio Oriente rischia di essere ridisegnato dopo questo conflitto? Potrebbero nascere diverse zone cuscinetto?
Il Medio Oriente sarà sicuramente diverso dopo la fine della guerra. Questo conflitto verrà considerato uno spartiacque per certi punti di vista e lascerà degli strascichi sulla regione non indifferenti. Come abbiamo detto, a livello di credibilità Israele perde molto nonostante avesse intrapreso un processo con i famosi ‘Accordi di Abraham’ del settembre 2020 sotto l’amministrazione Trump che lo avvicinava di più al mondo arabo.
Molti Paesi si stanno tirando indietro dalle partnership con Israele. Negli ultimi anni la questione palestinese sembrava essere diventata secondaria, tant’è che all’interno della monarchia saudita si era creato un conflitto tra Bin Salman e il re, proprio perché la vecchia generazione percepiva la questione palestinese come quella più importante della regione, mentre le nuove generazioni puntano al miglioramento e allo sviluppo del Paese e avevano rilegato la questione palestinese a una questione secondaria che poteva essere solamente d’intralcio allo sviluppo e ai rapporti con Israele. Con gli eventi dell’ultimo anno sicuramente questa cosa cambierà.
Non credo che si possano creare zone cuscinetto, o perlomeno potrebbero nascere eventualmente nella Striscia. Per esempio in Cisgiordania non cambierà la situazione per quanto riguarda la presenza e l’arrivo dei coloni israeliani. Però, per il resto, vedremo sicuramente un Libano sempre più in crisi, colpito da una guerra continua e gli altri Paesi di conseguenza ne risentiranno, soprattutto quelli del Levante che dovranno sempre mantenere un certo grado di attenzione nei confronti del proprio vicino. Viceversa Israele dovrà stare attento ai Paesi vicini.
Quindi a chi dovrà stare attenta Tel Aviv?
Siria, Libano, ma anche Iraq, dove ci sono diverse milizie sciite legate in parte a Teheran che agiscono comunque in maniera semi-indipendente, senza dimenticare poi gli Houthi che hanno la propria agenda: come Hezbollah non agiscono non in maniera servilistica per i conti di Teheran ma per la propria agenda politica. Potenziali zone cuscinetto potrebbero nascere nella Striscia.
Francesco Fatone – Giornalista