“A Chantal Akerman” recita la dedica in esergo all’immagine di una figura femminile bruna ed eterea immersa nella notte, prima seduta su un letto, poi in piedi tra gli stipiti di una porta, avvolta in scialle e camicia bianchi, come una malinconica solitaria Ifigenia in Tauride sottratta al sacrificio dal pittore tedesco Anselm Feuerbach e strappata al paesaggio diurno dal simbolista belga Fernand Khnopff. Torna davanti ai miei occhi nei momenti chiave del film La vita accanto proprio Khnopff, un artista scrittore colto, amante di Schumann, Debussy e Wagner, che dipinse per tutta la vita la propria enigmatica sorella (il quadro La sfinge o Le carezze passa nelle scenografie di Il potere delle follie teatrali di Jan Fabre e di L’età dell’innocenza di Martin Scorsese).
Di enigmi racconta La vita accanto, aggrovigliati attorno al potere nefasto o salvifico dei corpi, alla musica che è tormento e salvezza, a una coppia di gemelli troppo vicini, a uno di loro che ama per sempre la moglie morta, forse, anche per sua colpa.
Non so se i confronti istintivi con la pittura e la grafica appena accennati sono dovuti al mio sguardo dismorfobico da storica dell’arte e se chi ha scritto e diretto il film li troverà pertinenti; ma guardando La vita accanto è irresistibile evocare lo stesso Simbolismo belga già caro al teatro e al cinema e lo farò altre volte, pensandolo come guida ermeneutica, se non come fonte iconografica (in ogni caso, il 12 agosto, poche ore dopo avere chiuso queste righe, ho letto su “Huffington Post” la recensione in cui Mario Sesti, “La vita accanto” di Marco Tullio Giordana sfiora il capolavoro, più genericamente, vede lo stesso clima iconografico in queste scene).
La vita accanto inizia con la camminata notturna silente in bianco su blu di Maria (Valentina Bellé, al suo primo vero ruolo drammatico maturo, è capace di manifestare dolore e disperazione con intensità crescente). Il film diretto da Marco Tullio Giordana è scritto con Marco Bellocchio, che ne è anche co-produttore, ed è stato presentato il 12 agosto al Festival del cinema di Locarno; è nelle sale italiane dal 22 agosto. A Locarno Giordana ha ricevuto il Pardo speciale alla carriera, chiudendo idealmente un cerchio che a Locarno si era aperto nel 1980 con la vittoria del Pardo d’oro per il suo film di esordio, Maledetti vi amerò (una delle intuizioni dell’Academy di Vania Protti Traxler e Manfredi Traxler, della cui attività decennale di distribuzione e produzione ho scritto in questa rubrica il 27 ottobre 2023).
Lo spunto per la sceneggiatura del film viene dalla lettura dal romanzo omonimo di Maria Pia Veladiano (pubblicato da Einaudi, Premio Calvino 2010). Ma il film è del tutto autonomo rispetto al libro, che si dipana come un racconto in prima persona di una protagonista così brutta che è “un’offesa alla specie e soprattutto al mio genere”, figlia di una madre “che parlava non più di due o tre volte alla settimana, senza preavviso e mai a qualcuno in particolare” (p. 4). Il film non è in soggettiva, pur mantenendo a tratti l’andamento di una fiaba nera.
Le riprese risalgono all’anno scorso tra Vicenza e dintorni. Le musiche di Dario Marianelli insieme alla fotografia di Roberto Forza (storico collaboratore di Giordana fin da I cento passi) trasfigurano Vicenza in una novella Bruges la morta: il romanzo di Georges Rodenbach con un frontespizio di Khnopff che sta dietro al libro di Boileau e Narcejac, D’entre les morts, che Hitchcock usò per il magnifico Vertigo (che pure riemerge nelle atmosfere di suspense e ogni volta che Bellè è attratta dal vuoto, dall’acqua e dai pensieri ossessivi), affiora ogni volta che la macchina da presa indugia sugli esterni, a Vicenza e alla Villa “I Nani” che sinistramente si anima, e nelle stanze della casa di famiglia, per l’atmosfera di claustrofobico silenzio accentuata spesso dalla fotografia che nei notturni indugia sui blu e i rossi (in Vertigo il verde sottolineava la trasmigrazione dalla realtà alla follia, al desiderio, alla memoria e al tema del doppio). Al romanzo fiammingo di Rodenbach rinviano anche altre affinità nelle trame di film e libro: in quest’ultimo, un marito ha perso la giovane moglie Ofelia, abita una città sul fiume la cui atmosfera sinistramente cupa si sposa col suo lutto e con le allucinazioni, e c’è perfino una domestica, Barbe, che non tollera il clima opprimente in cui lavora e si licenzia (in La vita accanto la giovane puericultrice a servizio per accudire la neonata si licenzia perché “c’è troppa sofferenza… c’è troppo dolore in questa casa”).
In aggiunta a Hitchcock e ai fiamminghi artisti scrittori, Giordana raffina la scena iniziale (poi ripetuta e completata nel momento decisivo alla fine del film) e molti momenti con riferimenti al film capostipite sull’orrore che abita la vita quotidiana e in specie il matrimonio, la vita di una moglie isolata in casa e la coabitazione semiforzata: Rosemary’s Baby. Del magistrale (e perfino premonitore, a rivederlo oggi) film di Polanski, La vita accanto ricorda la panoramica iniziale sulla città apparentemente borghese e rassicurante; la musica suonata al pianoforte che si sente di continuo da un altro appartamento (Per Elisa di Beethoven eseguita da qualcuno che non si vede mai in Rosemary’s Baby; musiche di Bach, Schubert, Rachmaninov, Bartòk, Schönberg, suonate da Bergamasco in La vita accanto); gli sguardi letali, da magia nera; il marito ignavo e con buona posizione nella sua professione; la reclusione della moglie giovane, bella, ben vestita e nullafacente in una casa con arredi di design da rivista (e la casa dei coniugi Macola è costellata di vasi Venini); la coppia di vicini che invadono continuamente la vita della giovane moglie e che, con la complicità del marito, si appropria di un nascituro molto desiderato per attuare propri scopi (Erminia, una lucente e chiaroscurata Sonia Bergamasco dall’aura espressiva sempre più inafferrabile, tradisce forse la propria reale inclinazione quando scherza col fratello Osvaldo/Paolo Pierobon, che qui è un ignavo farisaico travestito da buono; dopo che la madre ha donato un pianoforte alla figlia, la zia Erminia gli sussurra: “Si potrebbe anche pensare che me la voglia portare via”); la mostruosità degli stessi vicini (“mostri, siete tutti mostri”, constata finalmente tra sé e sé Rosemary/Mia Farrow quando sta per trovare le prove dei suoi sospetti; in La vita accanto, la mostruosità è emotiva e la vicina di appartamento, la zia Erminia, per sua cognata Maria è “la mostra” nel segreto del suo diario); la mostruosità del neonato per il quale la madre prova attrazione e repulsione (il neonato di Rosemary respinge perché ha gli occhi diabolici di suo padre, la neonata di Maria atterrisce per prima la coppia di fatto formata dai gemelli e poi Maria stessa, perché la macchia rossa appare come un marchio da nascondere, o da ostentare, per una colpa che si intuisce ma di cui non si saprà mai davvero tutto); infine, proprio la scena notturna con cui si apre e poi si srotola La vita accanto, ha dietro la soggettiva finale di Rosemary’s Baby: la camicia da notte elegante, l’arma appuntita e inutile cercata in cucina, l’ispezione notturna, la conferma del sospetto di un male inconfessabile cresciuto nella propria casa, la vita che si svela come il vero orrore sopportabile solo con la follia.
La dedica a Chantal Akerman desta fin da principio l’attenzione sul basso continuo del film, che mostra la discesa all’inferno dell’alienazione domestica di una madre giovane e bella incompresa e di fatto lasciata a sé stessa da una famiglia apparentemente coesa e perfetta. Akerman si era affermata internazionalmente riflettendo proprio sulla solitudine a cui portava la ripetitività della vita quotidiana femminile, fino alla sequenza fissa sulla sbucciatura delle patate nel suo capolavoro, un film di 201 minuti che fruga nello squilibrio di una madre casalinga che occasionalmente si prostituisce per bisogno, Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles. Anche il film La folie Almayer (2011) riguarda la pazzia a cui può condurre una relazione genitoriale in un contesto di isolamento, in questo caso in un rapporto tra un padre e una figlia nell’unica trasposizione del primo, folgorante racconto di Joseph Conrad, La follia di Almayer. Akerman ha vissuto sentendosi sempre figlia, mai donna, pur avendo lavorato nella scena sperimentale newyorkese, diventando un’ispirazione per Gus Van Sant e Todd Haynes, guadagnandosi un posto di rilievo nel cinema d’arte e d’autore. Nell’estate 2015 Akerman aveva presentato proprio al Festival di Locarno No Home Movie, film sull’agonia di sua madre, sul suo rapporto con lei e con il trascorrere del tempo. Pochi mesi dopo, il 4 ottobre, Akerman, sessantacinquenne, si suicidò a Parigi. La dedica di Giordana ad Akerman non è, dunque, un semplice rimando concettuale. Il regista ha raccontato a “Variety” che considera Akerman una delle più grandi registe del XX secolo:
“[Akerman] Avrebbe la mia età se fosse ancora viva oggi. Ha debuttato al cinema nel 1975, poco prima di me, e l’ho subito ammirata moltissimo. Ho avuto l’opportunità di incontrarla brevemente, aveva visto il mio primo film e mi parlava con molto rispetto. Si è tolta la vita subito dopo la morte di sua madre e, in qualche modo, quando ho pensato di dedicare questo film a qualcuno, ho subito pensato a lei perché vorrei che potesse vedere il film e che fosse ancora viva”.
(Traduco dall’intervista del 9 agosto scorso a Rafa Sales Ross)
Anche la madre protagonista di La vita accanto è una casalinga (pur se privilegiata) progressivamente estraniata dalla realtà e da sé stessa, che sceglie la fine di Chantal Akerman. Maria è poco più che trentenne, parla con un forte accento da ricca vicentina (Bellè, veronese, è convincente nel riprodurre l’italiano regionale e i tic verbali richiesti dal ruolo) ed è sposata a Osvaldo, un ginecologo quasi sessantenne. Maria e Osvaldo abitano un piano della sontuosa e algida villa ereditata da Osvaldo e da sua sorella gemella Erminia, pianista di fama internazionale, che occupa un’ala autonoma del palazzo.
Quando Maria scopre di essere incinta, la sua gioia si esprime fisicamente, prima in una corsa veloce su per le scale, poi in teneri e improvvisati passi di danza condivisi col marito e con la cognata. Ma la gravidanza comincia a far sprofondare Maria nell’inadeguatezza nei confronti del ruolo imminente di madre. Maria vive in un palazzo bellissimo, con arredi altrettanto belli a cui aggiunge altrettanto belli e perfetti arredi e accessori per la nascitura; Maria stessa è bella ed elegante; bella ed elegante è anche sua cognata, così come l’arte musicale che pratica. Tutta la bellezza a cui Maria è quotidianamente abituata sembra accrescere in lei l’incomprensione per gli imprevisti della varietà della vita reale quando Rebecca (da bambina recitata da Viola Basso, poi da Sara Ciocca e da adolescente e giovane adulta interpretata dall’esordiente attrice Beatrice Barison, pianista professionista) nasce con un difetto fisico, peraltro oggettivamente non deturpante: l’angioma rosso che ricopre vistosamente una parte della guancia destra della bambina scatena in Maria l’autogiustificazione del rifiuto delle responsabilità materne. Come si vede succedere davvero nella realtà in casi simili, favoriscono progressivamente la follia della giovane donna l’isolamento, la paura delle maldicenze altrui e l’intrusione prima e l’abbandono poi della pratica religiosa, tipici di ogni provincia, oltre che l’eccesso di tempo libero nell’esistenza ovattata e sempre uguale da ricca provinciale: Maria non lavora, non ha letteralmente nulla da fare tutto il giorno, c’è chi si occupa perfino di vestirla. Maria si convince presto che la macchia sul volto della figlia sia una beffa di un Dio che schernisce chi ne segue i precetti; e allora niente battesimo se non “lava via la macchia”, dice Maria al sacerdote gretto che da tanti anni la “vede” ma non la conosce. Maria decide di vivere come se fosse morta, negandosi perfino di uscire di casa pur di espiare la colpa di avere messo al mondo quella figlia imperfetta: indossa il lutto, si libera di ogni segno anche esterno del vincolo matrimoniale che ha generato la bambina (si trasferisce in una stanza singola lontana da quella di Osvaldo, regala l’abito da sposa alla puericultrice che si occupa di Rebecca, infine si toglie la fede nuziale). La solitudine a cui Maria si condanna ingigantisce in lei il dubbio oscuro che tra il marito e sua sorella gemella (come ho già detto, Erminia è da lei segretamente definita “la mostra”, nel tentativo inutile di esorcizzarne la bellezza, il talento, il potere affettivo sul marito) il legame di fratellanza esclusiva sia in realtà di natura incestuosa. Pur se la depressione post partum non è la topica centrale del film, Bellè ha giustamente preparato il suo ruolo parlando con Sabrina Capaccio che ha fondato un’associazione di donne che soffrono di tale patologia. “Si convincono di essere pazze, la solitudine peggiora tutto” (intervista di Bellè con Stefania Ulivi, Il disagio di una madre, in “Corriere della Sera”, lunedì 12 agosto 2024, p. 35).
Dopo avere scelto di occupare la stanza della madre per un certo periodo, Rebecca guadagna con Maria un rapporto onirico che tuttavia la cambia, come un percorso di analisi: Maria appare in sogno alla figlia più volte, portandola letteralmente per mano verso la conoscenza e la liberazione dai traumi, assecondandone così il percorso di giovane adulta che, quando abbandona il senso di colpa, vede scomparire anche la macchia che ne è testimone: Rebecca è convinta di essere l’unica causa del suicidio della madre, che invece ha radici complesse nel roveto algido della famiglia, come sempre nell’immaginario di Bellocchio (l’intrico simile a un roveto dentro cui si annidano le cause del suicidio materno è perfino metaforizzato nell’innocua carta da parati di cui è tappezzata la cameretta tutta per sé in cui Rebecca dorme per buona parte del film: il motivo decorativo ripete ossessivamente il ramo di mandorlo su sfondo azzurro dipinto in manicomio per la nascita del nipote da Van Gogh: un’altra allusione alla nascita di un bambino, alla follia e alla morte per suicidio, se si considera la vita del pittore olandese).
Uno degli attori di La vita accanto, Paolo Pierobon (nell’intervista a Paola Piacenza, Nella vita bisogna essere un po’ più che bravi, in “Io Donna”, sabato 10 agosto 2024, p. 32), ha infatti sottolineato che nel film temi topici in Bellocchio, derivati dal teatro, sono “la famiglia fonte di tutti i mali, la ‘gemellitudine’ [sviscerata ma non risolta finalmente nello strazio analitico collettivo compiuto di Marx può aspettare tre anni fa], la piccola città. E la macchia, il segno che crea il diverso, lo stigma a cui in provincia non si sfugge”, a cui si aggiungano il suicidio, le interazioni dei defunti con i vivi, il miracolo e l’ateismo.
La madre appare a Rebecca in tutta la sua elegante avvenenza di quando madre non era, come una sorta di vestale funerea, simile alla sorella del pittore Khnopff che, velata e vestita di bianco, impersona il Sonno, figlio della Notte e fratello gemello della Morte, in uno dei suoi quadri più impenetrabili e morbosi.
Il raggiungimento dell’autonomia da parte di Rebecca attraversa tappe rese più difficili dal suo precoce innato talento musicale abbinato alla ricchezza familiare (tale da celare alla bambina il significato della parola “affitto”) e alla bellezza fisica solo accidentalmente contaminata dalla macchia. Rebecca è una bambina dotata di un talento eccezionale, cioè una gifted, come si dice oggi con un anglicismo entrato nell’uso (Gifted – Il dono del talento è il titolo di un film, decisamente meno bello di La vita accanto, diretto da Marc Webb del 2017 che ha come protagonista una bambina prodigio in matematica che, come Rebecca, deve fare i conti con il suicidio della madre).
Le tappe consistono: nel superamento di episodi di bullismo che puntano sui tentativi di sfregiare il talento nel corpo di Rebecca prendendo a pretesto il suo difetto fisico (l’unico elemento oggettivo al quale appigliarsi per umiliare una ragazza per il resto bella e brava) culminanti in un inganno architettato da un gruppo di coetanei meno dotati e più pigri di Rebecca che si vendicano della sua primazia artistica arrivando fino a un tentativo di stupro nella vecchia falegnameria dismessa del Conservatorio che frequentano; nel superamento dell’esame di pianoforte nello stesso istituto in cui è avvenuto l’assalto da parte dei coetanei, non eludendo il confronto pubblico; nella scelta di vivere per la prima volta fuori dalla casa familiare e dal nido costituito da un padre che non ha saputo dirle la verità e da una zia che è stata madre e mentore decisiva ma incapace di autonomizzarsi davvero da quello che per lei stessa è sempre lo stesso nido al quale tornare.
La zia Erminia è la coprotagonista artefice delle concrete svolte nella personalità della nipote perché è l’unica che, seguendo regole proprie, vive fuori dal palazzo di famiglia che è carcere e rifugio. Erminia è un’appassionata Sonia Bergamasco, di nuovo compiutamente attrice musicale perché suona effettivamente i pezzi eseguiti nel film (qua è visibile la videoregistrazione integrale dell’esecuzione dell’op.16 n. 3 di Rachmaninov e qua i due corti con le registrazioni in presa diretta delle esecuzioni integrali di Bergamasco e Barison)
Bergamasco è alla terza prova con Marco Tullio Giordana, che l’aveva valorizzata nell’ormai mitico La meglio gioventù, prima serie italiana uscita al cinema che ha festeggiato il ventennale lo scorso dicembre (c’è poi il cameo in Sanguepazzo). Per La meglio gioventù il multiforme talento di Bergamasco (artista scrittrice, pianista diplomata al Conservatorio di Milano, attrice, drammaturga, regista, poetessa e scrittrice), pressoché unico nel panorama artistico, aveva condizionato il contrastato personaggio di Giulia, che inizialmente avrebbe dovuto essere una chitarrista dilettante. Per La meglio gioventù Bergamasco eseguì, nell’ordine, il primo movimento della Sonata in la minore K.310 di W.A. Mozart, il primo movimento della Sonatina di Maurice Ravel (che Giulia/Bergamasco dona al suocero), le Kinderszenen di Schumann (che Giulia/Bergamasco, incinta, suona mentre Nicola/Lo Cascio invita a casa il fratello Matteo/Boni) e, all’organo della chiesa di Santo Spirito a Firenze, l’Invenzione a 2 voci n. 2 in do minore di Bach (per la figlia).
Come in La meglio gioventù Bergamasco/Giulia era inquadrata per la prima volta mentre familiarizzava con un pianoforte scordato risparmiato dall’alluvione di Firenze, anche in La vita accanto la prima apparizione di Bergamasco/Erminia la manifesta pianista, in un momento intimo di studio alla tastiera con il fratello Osvaldo/Pierobon seduto in ammirazione accanto a lei. Giordana è particolarmente legato a questa grande artista ed è egli stesso fortemente segnato dalla musica come chiave interpretativa della realtà che immette nei film, poiché da giovane ha studiato la chitarra classica:
“la musica mi ha sempre appassionato e l’ho continuata a sentire anche al di là del mio mestiere. Non potrei concepire la mia vita senza la musica e il cinema ha una parentela molto stretta con la musica, perché segue una specie di scansione: così come nella scrittura musicale ci sono la divisione in battute, i movimenti interni, le linee interne, il rallentando, l’accelerando, il crescendo, il diminuendo, ecco tornare tutte cose molto simili anche nel montaggio cinematografico” (Giordana intervistato da Nicole Bianchi per “Cinecittà News” il 12 agosto scorso).
Uno dei momenti musicali più coinvolgenti del film è il concerto di Bergamasco sul meraviglioso palcoscenico del Teatro Olimpico di Vicenza, uno dei luoghi più unici per la storia dell’arte e del teatro. Il Teatro Olimpico risale al 1580 ed è un progetto di Palladio che, morto improvvisamente, non ne vide l’inaugurazione il 3 marzo 1585 con la messa in scena dell’Edipo re di Sofocle. Per questa tragedia Vincenzo Scamozzi ideò le scenografie in legno e stucco rappresentanti in prospettiva le vie di Tebe: si tratta delle uniche scenografie originali rinascimentali rimaste fisse in un teatro.
Il ruolo di Erminia è stato anche l’occasione per Bergamasco di collezionare quattro “prime volte”.
- Per la prima volta Bergamasco fa un film con Marco Bellocchio. Nel suo libro Un corpo per tutti. Biografia del mestiere di attrice (Einaudi 2023, che ho recensito il 5 maggio 2023) alla fine del capitolo XVII Nutrimenti, significativamente subito dopo avere parlato dell’assiduità con cui, da giovanissima a Milano, frequentava mostre di scultura e di pittura, Bergamasco aveva rilevato di non avere mai lavorato con Bellocchio, un artista che aveva cominciato a esplicitare il suo immaginario dipingendo (pp. 96-97):
“Con il regista Marco Bellocchio non ho mai lavorato. Ci conosciamo, ci siamo incontrati più volte: provini, confronti, chiacchierate, ma niente di più. Il suo film più intimo, Marx può aspettare, è la conferma dello sguardo geniale di questo regista sulle cose e sulle storie. Potente, slacciato dalle convenzioni. Opere come la sua trasmettono un’energia creativa integra, ti richiamano alla necessità del fare, dello sciogliere le briglie della fantasia per andare incontro a te stesso”.
La vita accanto, difatti, sta come un oggetto autoriale unico a tutti gli effetti nel corpus di Bellocchio, che lo ha sceneggiato in prima battuta con Gloria Malatesta, per poi proporne la direzione a Giordana, che fin da giovane guarda a Bellocchio come uno dei principali modelli registici a cui ispirarsi. Giordana ha personalizzato la sceneggiatura, spostando in avanti di un decennio la cronologia (dagli anni Settanta agli Ottanta) e depurandola da alcuni elementi fortemente legati all’immaginario personale e filmico di Bellocchio (per esempio, l’educazione religiosa rigida della protagonista). Bellocchio ha inoltre assunto altri ruoli fondamentali nella realizzazione del film: la coproduzione e il montaggio, affidato alla sua montatrice di fiducia, la compagna Francesca Calvelli che ha lavorato con Claudio Misantoni. Bellocchio ha anche realizzato un oggetto di scena che si vede più volte nel film; non si tratta tuttavia di un mero elemento scenografico ma è il mezzo con cui torna il passato di Maria, cioè il suo diario segreto (presente anche nel libro, insieme ad alcuni disegni ad acquerello che la donna esegue prima della nascita della figlia: p. 143). Il quaderno è composto di disegni su carta a tecnica mista del tipo di quelli che d’abitudine Bellocchio realizza come bozzetti durante la lavorazione dei suoi film; ai fogli Giordana ha aggiunto propri testi. L’inserzione di proprie opere pittoriche nei film è un altro uso di Bellocchio: i quadri che Sergio Castellitto dipinge in L’ora di religione sono opere del regista. In occasione di una delle esposizioni dei suoi lavori figurativi (al MUST di Lecce tra maggio e giugno 2014 in occasione del Festival del Cinema europeo) Bellocchio spiegò:
“La mia attività come pittore è stata molto limitata. Sono più cineasta. Lasciare la pittura è stato naturale per poter sviluppare qualcosa di più complesso con immagini in movimento che raccontano l’essere umano. Credo che queste opere non abbiano un valore in sé, ma siano importanti rispetto al mio lavoro cinematografico. Gli storyboard invece continuo a farli perché per me sono un puro divertimento”.
Nel film il diario è un oggetto ignoto agli abitanti della casa; lo ritrova Rebecca diversi anni dopo la morte della madre e, nonostante la violenza visiva delle immagini, i disegni e i paragrafi disordinati che li accompagnano rivelano il vero aspetto della madre alla figlia, riconciliandole. Vediamo in soggettiva le illustrazioni espressioniste, ascoltiamo alcuni passaggi scritti in corsivo e in maiuscolo: Rebecca grazie al diario scopre quasi sempre il contrario di quello che aveva creduto per anni, vivendo accanto a quella donna infelice rosa dal dubbio e dal dolore e lasciata a sé stessa. Solo una volta prima del suicidio spiamo Maria/Bellè scrivere il diario in una condizione che contrasta con quella che si impone davanti alla famiglia: se in pubblico veste di nero, con abiti accollatissimi e castigate ballerine, quando scrive sta completamente nuda nascosta sotto il lenzuolo bianco del letto singolo in Stile Impero nel quale dorme senza sua marito dopo essere tornata a casa con la bambina, nella stanza che è il suo rifugio claustrofobico quotidiano. Le parole che scrive mentre sua figlia piange e il suo bel corpo nudo freme sono un grido di angoscia afona contro la funzione unica che le si è attribuita in famiglia, la maternità silente: “È inutile che piangi. Non serve che mi ricordi continuamente che ci sei. Lo so che ci sei. Lo so che ci siete tutti. Cosa volete ancora da me?”.
Le pagine del diario disegnato da Marco Bellocchio e rielaborato da Marco Tullio Giordana in La vita accanto (foto da Fabio Ferzetti, Con Marco Tullio Giordana sul set de La vita accanto: “Perché il talento può essere riscatto o condanna”, in “The Hollywood Reporter”, 20 luglio 2023: https://www.hollywoodreporter.it/film/film-dautore/la-vita-accanto-visita-sul-set/31918/
- Per la prima volta Bergamasco mette in scena un fatto autobiografico decisivo nell’evoluzione del suo sensibilissimo talento: interpretando una zia musicista che incoraggia il talento pianistico della nipote che, invece, spaventa la madre (Maria regala un pianoforte alla figlia ma poi vorrebbe che suonasse solo quando e come vuole lei) e che la sua anziana insegnante al Conservatorio apprezza perché forgiato da una disciplina militaresca, Bergamasco rievoca il proprio passato, storicizzato in Un corpo per tutti dopo accenni sparsi come questo:
- “La musica era nell’aria a casa anche se in verità solo una zia, Mariarita, la praticava. Era una cantante molto promettente che non ha proseguito, si è dedicata alla famiglia. Mia nonna amava l’opera, suonava pianoforte sbagliando tutto, mio nonno paterno canticchiava arie d’opera ma nessuno si era inoltrato. Mia madre ci teneva che noi fratelli imparassimo a suonare uno strumento e mi ha avviato al pianoforte” Al Conservatorio “sono entrata a dieci anni, è stato impegnativo. Per me fu durissimo per la chiusura monastica che ho percepito, che ho un po’ subito” (intervista con Stefania Ulivi per “Corriere della Sera”, 24 giugno 2022: https://www.corriere.it/cronache/22_giugno_24/sonia-bergamasco-intervista-poesia-b7c74b0c-f32e-11ec-970d-cecc1e4d6a45.shtml).
- Per la prima volta e nel suo habitat primario, un teatro, Bergamasco interpreta la concertista che sarebbe potuta diventare a pieno titolo, dopo il diploma, se non avesse scelto di fare l’esame di ammissione da attrice alla Scuola del Piccolo Teatro.
- Per la prima volta i versi di Bergamasco entrano nei dialoghi di un film: i versi che concludono Ho seppellito mio padre, la prima prosa poetica di Il Quaderno, il canzoniere con cui Bergamasco ha esordito come scrittrice per La Nave di Teseo nel 2022 (Prefazione di Maria Grazia Calandrone; la citazione è a p. 19), diventano uno scambio di battute tra i due gemelli quando Rebecca/Barison si ribella al padre e alla zia. Dopo che la ragazza si è rivolta loro in modo sgarbato, Osvaldo ed Erminia duettano in sequenza: “Tempi duri, adolescenza” (Osvaldo/Pierobon), “Miserabile bosco di spine” (Erminia/Bergamasco). Giordana ha ancora una volta accolto e fatto proprio, come ai tempi di La meglio gioventù, un aspetto della professionalità multiforme di Bergamasco.
Erminia è una donna che, per non limitare la propria arte e per via della propria bellezza, ha dovuto costruirsi una vita eccentrica rispetto ai dettami provinciali, non stringendosi in lacci che non siano quelli, indistricabili, con la famiglia d’origine. Quando cerca, con levità, una relazione di una notte con uno degli ammiratori che è andato a chiederle un autografo in camerino dopo un concerto al Kinnor Theatre a Tel Aviv, Erminia/Bergamasco evita ogni possibilità conoscitiva reciproca che spezzerebbe l’incanto passeggero, limitandosi al nome (David, che conosce per avere firmato l’autografo), passandosi un dito sulle labbra nella luce riverberata nello specchio e trasformandosi nell’incarnazione moderna di uno dei pastelli più noti di Khnopff, che disegnò la sorella Marguerite in una bruma soffusa polverosa, mentre l’indice guantato serrava le labbra, richiamando all’incantamento del silenzio con un gesto universale.
La vita accanto è, in fin dei conti, un punto di vista su ciò che può rappresentare il corpo nel romanzo di formazione della vita: il corpo può agevolare o contrastare l’affermazione nel mondo; può essere un ingombro, un cimento o un mezzo di libertà (col corpo Erminia controlla il rapporto con gli altri, col corpo Rebecca impara a suonare lo strumento che la libera dal dolore, col corpo Lucilla/Sveva Bassan si libera del padre); il corpo che ci capita in sorte condiziona la nostra vita emotiva. Il corpo dell’ignavo Osvaldo non agisce mai davvero, il corpo di Maria si fustiga fino alla morte per lavare via la macchia familiare. Ma La vita accanto è anche un esercizio di lavoro corale per il corpo di attori di diverso calibro e di diverse generazioni: per restare nella metafora musicale centrale, la direzione d’orchestra di Giordana della partitura condivisa con Bellocchio suona corpi d’artista che esprimono, ognuno al proprio meglio, la fatica lacerante di attraversare il “miserabile bosco di spine” che immette ogni “Maria’s baby” nel flusso della meglio gioventù.
Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia