La poesia contemporanea ha sviluppato la sua natura sul versante del pensiero. Dove prima campeggiavano le metafore, le immagini, le descrizioni naturalistiche, oggi (ma in realtà da decenni) prevale il verseggiare concettoso, l’andamento quasi prosastico del verso, e soprattutto il ragionare, sia pure su un registro poetico. Il pensiero, l’idea, che si rapprende, si solidifica in un ripiegamento più o meno, e a volte nient’affatto, lirico, in un ragionare sulla vita e sulla morte. Chi fin dalle elementari è stato abituato alla poesia in rima che parla di fiori e ruscelli, può averne una reazione di stordimento se non di disorientamento. Ma il mondo è cambiato, sono cambiati i linguaggi, e anche quello poetico è mutato, tra sperimentalismi e nuove forme di espressione. Mentre poesia e filosofi, ma anche scienza, sono diventati mondi sempre più intercomunicanti.
In questa scia della poesia “filosofica” si immette Alessandra Peluso, salentina di Leverano, docente, cultrice di filosofia, poetessa con un bilancio di pubblicazioni che perdura da circa un quindicennio, dall’esordio nel 2010 con Canto d’anima amante.
Il poetare di Alessandra Peluso, almeno in questa ultima raccolta di versi, è una trama, un tessitura di pensieri, dove l’indole speculativa e riflessiva spesso ha la meglio sull’accento e l’andamento lirico. È una considerazione descrittiva, questa, intendiamoci, non un rilievo critico, anche se in qualche caso c’è qualche eccesso di ermetismo che richiederebbe forse più riletture per coglierne il senso profondo. Già nel titolo la nuova raccolta poetica annuncia la sua carta d’identità: Azzardi dell’io.
Leggendo via via le cento pagine del volume, poesia per poesia, si comprende il significato di questi “azzardi dell’io” e il loro perimetro d’azione, che semplicemente è quello dell’esistenza, dell’amore, dei rapporti umani, dei rapporti sociali, dell’amicizia.
E sono azzardi, perché dietro l’angolo di ogni cimento e di ogni esperienza dell’io, come un serpente tra le foglie, si annida lo scacco, il tradimento, il fallimento, l’inatteso. Per fortuna non sempre, poiché se il cielo della poesia di Alessandra Peluso è talvolta gremito di nuvole, in altre occasioni risplende il sole meridiano.
“Azzardi dell’io” ci consegna l’immagine di una poesia “pendolare”, nel senso che oscilla tra la gioia e il piacere di vivere di Epicuro e il senso di inattingibilità del piacere stesso: “Il desiderio di sentirsi l’amore supera la finzione di averlo”.
L’amore, che nella poetica e nella visione della vita che ne emerge, è ancora di salvamento ma anche tormento, ha larga parte in questo volume di versi. L’amore invocato, l’amore atteso, l’amore vissuto, ma anche l’amore rimuginato e a volte “triturato” dal pensiero. Eh già, l’io poetante di questa raccolta è un cuore che pensa, e a volte si crogiola in questo labirinto di pensieri. Non a caso l’amore è definito anche un labirinto.
La presenza a volte soverchiante del lato speculativo sull’afflato propriamente poetico rende le poesie di Alssandro Peluso un poco difficile meglio e bisognosa di una rilettura: rileggendo, come è capitato a chi scrive, si apprezzano sfumature, idee, accostamenti che non erano stati colti a una prima lettura.
Ma quale è l’idea dell’amore in Alessandra Peluso? È quella di un amore primigenio, disarmato, quasi ingenuo, nel senso di privo di complicazioni. “Vorrei vivere un amore/ d’adolescenza/ puro di essenza di mughetto/ autentico senza armi né strategie/.
La poetessa che nell’esergo cita i nomi di Patrizia Valduga e Patrizia Cavalli, forse deluderà chi pensa che l’autrice si adegui agli stilemi arditi, e quasi scabrosi delle due poetesse menzionate, soprattutto della prima. Pur parlando d’amore, in molte delle sue poesie, l’autrice usa un lessico che solo in poche occasioni sfiora il confine dell’esplicitezza, c’è quasi un contenuto pudore, e qualche fuggevole guizzo allusivo, ma domina un tono e in linguaggio sommesso e non urticante, che rispecchia anche la personalità dell’autrice.
Dove invece la poetessa diventa più esplicita e decisa, e quasi netta e severa, è nella descrizione di certi comportamenti umani, registrati in quelli che ella con felice definizione chiama “gli arcipelaghi dell’io”: e allora il verso diventa, specie nella conclusione della poesia, una sentenza morale, che ha l’icasticità del motto sapienziale. Un esempio: “Abbuffarsi del nulla è facile/saziarsi di qualcosa complicato/”Ma c’è sempre qualcuno che ti fotte/ perché a digiuno ordina le vite come crede”.
Le vite degli altri, par di capire. Questa idea della tavola attorno alla quale qualcuno cerca di apparecchiare, immaginiamo, trame e e trappole a danno del prossimo, ricorre in altre composizioni, e visibilmente è suggerita dall’idea del convivio.
Per fortuna, tra un tradimento e un disinganno, tra il tentativo di sfruttare mascherato da offerta di aiuto, s’immagina in cambio di qualcos’altro, c’è sempre l’amore che viene in soccorso, con la promessa alla Ingrid Bergman “Io ti salverò”. Un amore che la poetessa vede come trasparenza e come rapporto basato sulla sincerità: “Vorrei sentirti pronunciare un “ti amo”/ così rapido e inciso/ come un francobollo su una vecchia cartolina/ non si scolla. Neanche tu
C’ sull’amore, questa idea originale della poetessa Peluso: che per amare bisogna essere dentro anche bambini, come se l’essere bambino dia la capacità di apprezzare l’incanto dell’abbandono amoroso, come l’infante si abbandona alla madre.
“Eccita l’odor di latte che scorre dalla pelle bianca/ un incrocio di neuroni, uno scontro di atomi. / Le molecole del Dna tilteggiano (sic) / e si compiace quella leggiadra di infante che son stata/ Immagino una rosa bianca di latte vestita/ con attorno schiere d’api che la infiorano/ in cambio di miele/ una schiera di angeli con cornice di rosa/ che tu saprai spalmare sul dorso/ solo ( il corsivo è nostro) se potrai apprezzare il latte di tua madre/.
Lo sguardo di Alessandra Peluso verso la vita e il prossimo è uno sguardo severo, diffidente, senza troppe illusioni, e quindi la reazione è chiudersi un po’ in se stessa nel pensiero su questi “io” erranti e sui loro destini . “Annuso gli opportunisti da lontano/ li stano nella loro nudità”.
Sono cento, ripetiamo, le poesie della raccolta Azzardi dell’io ( un richiamo alle Cento quartine di Patrizia Valduga?). Hanno in testa numeri romani, e non contengono titoli. Una scelta stilistica non casuale: l’autrice forse non ha messo i titoli per non irrigidire la composizione e per non influenzare il lettore che magari titolerà lui in base alla sua interpretazione’.
Altra curiosità: alcune poesie cominciano con la lettera minuscola. Escludendo il refuso, si può immaginare che si sia voluta dare l’idea di un “discorso interrotto ma che ricomincia”. È una ipotesi, resa plausibile dal fatto che alcuni temi – l’amore in primis – ciclicamente ritornano. E a volte richiedono al lettore di sostare un po’ di più, specialmente su alcuni versi: il tempo un’emorragia di vita; non servono i var a rivivere un passato; “un corpo d’anima che fluttua di giorno in giorno”; il tempo non ha tempo perché non ha memoria; “la vita è una giostra;” “sei il germoglio, l’attesa di un giorno”.
E poi segnalo questo incipit di una poesia, la numero LXIX: “Guardarti è stato come aver conferma di me/ amarti è stato come imparare ad amarmi/ perderti come ritrovare me stessa”/.
Ho accennato alla vena epicurea della poesia di Alessandra Peluso, pur increspata da una visione pessimistica degli uomini, e dal loro tradire, affannarsi e sfruttare. Ma poiché è dall’amore che alla fine può venire la salvezza, e dalla poesia la luce, allora registriamo questa poesia che definirei un appello –manifesto: “Non aspettare domani, lo sei/ cogli ciò che puoi di questo tempo/ e tienilo da parte quando ne avrai bisogno/ quando dovrai raccogliere/il frutto della gioventù che ora appassisce: l’amore dei suoi giorni non ha più tempo/ ha le ore contate, deambula/ nell’attesa che qualcuno presti attenzione/ rivolga lo sguardo, la luce lo scaldi/ Non aspettare domani/.
Mario Nanni – Direttore editoriale