Ci sono bambine bionde sorridenti, nell’ultimo video virale dell’ultradestra brandeburghese, destinate ad essere minacciate da orde di migranti scuri di pelle, se l’elettore non voterà per l’AfD: sequenza prodotta con l’intelligenza artificiale, così come quella in cui le immagini di devastazioni urbane degne di un film apocalittico si alternano al primo piano di un ragazzo ariano dalla pettinatura anni Trenta che con espressione virile segna la sua croce sul simbolo blu del partito che sta lacerando la Germania, la sua idea di sé, il suo paesaggio politico.
Il controverso filmato della campagna elettorale della formazione nazional-populista nel Land del Brandeburgo – messa sotto osservazione dai servizi segreti interni per la sua natura “chiaramente estremista” – è finito nel calderone del dibattito su quale sia la natura del grande corto-circuito tedesco, una specie di implosione del “sistema Germania” al cui centro si è alzata la “marea nera” dell’ultradestra, con risultati-monstre intorno al 30% all’est – quasi un nuovo muro a dividere il paese – e sondaggi-ottovolante che piazzano l’AfD al 20% su base nazionale.
Il gigante impantanato
La verità – ovvia, se volete – è che la crescita apparentemente inarrestabile della formazione nazional-populista (e, in parallelo, del Bsw, il neonato partito “rossobruno” guidato dall’ex leader della Linke Sahra Wagenknecht) è al tempo stesso sintomo ed effetto della nuova grande crisi tedesca. Una crisi senza precedenti per dimensioni e implicazioni, se s’inizia a contare dal dopoguerra ad oggi: la fotografia attuale della Germania è quella di un gigante impantanato, con l’allarme rosso che suona contemporaneamente e orizzontalmente in tutti gli ambiti della vita pubblica, dalla leadership attorcigliata su se stessa di Olaf Scholz alla débâcle a ritmo continuo nelle urne e nei sondaggi dei partiti cosiddetti “tradizionali”, passando dai principali indicatori industriali ed economici quasi tutti avvitati in una spirale discendente.
“L’economia tedesca sembra paralizzata”, scrivevano a marzo gli esperti dell’Ifo, l’autorevole istituto di ricerca economica di Monaco diretto da Clemens Fuest. Calo degli investimenti sia pubblici che privati, crollo della fiducia delle imprese, l’industria dell’automobile in un vicolo cieco, il Pil esangue, la recessione: difficile dare un’immagine più pessimistica dello stato di salute della cosiddetta locomotiva d’Europa.
Anche il quadro offerto dall’IW (Istituto dell’economia tedesca) nel suo rapporto pubblicato l’11 settembre 2024 conferma lo scenario: contrazioni importanti nell’industria manifatturiera (-2,8%) e nell’edilizia (-3,4%) su base annua nei primi sei mesi. E se la domanda globale di beni industriali, afferma l’IW, “risente direttamente dei conflitti geopolitici e del conseguente rallentamento dell’economia globale”, il calo della domanda interna “riflette la crisi degli investimenti e la debolezza dei consumi in Germania”.
La prima metà del 2024 si registra anche un calo delle esportazioni (-0,9%) e, in modo ancora più accentuato, delle importazioni ( -2,6%). Crollano, nello stesso periodo, gli investimenti fissi lordi totali (-3%), così come appare frenato l’aumento dei consumi privati (+ 0,4%). Le speranze di una ripresa in tempi brevi sono debolissime. Sempre l’Ifo prevede per il 2024 un calo del Pil dello 0,1%. “Possiamo ancora salvare il nostro benessere?”, si chiede sulfurea la Zeit in prima pagina.
Una tempesta perfetta
Sì, praticamente il quadro di una “tempesta perfetta”. Che certamente spiega le tensioni continue tra gli alleati del governo “semaforo” (dal colore dei rispettivi partiti, socialdemocratici più Verdi e liberali dell’Fdp). L’ultimatum di tre settimane posto dai liberali al cancelliere Scholz (“altrimenti l’esecutivo non arriva a Natale”) sembra quasi una barzelletta alla luce del loro devastante risultato in Brandeburgo (sono precipitati sotto l’1%, tanto da venir messi nel colonnino degli “altri” nei conteggi degli istituti demoscopici). Più grave le dimissioni in massa dei vertici dei Verdi, decimati nei Länder dove si è votato a settembre (Brandeburgo, Turingia e Sassonia).
Con le sole eccezioni dei conservatori della Cdu che fu di Angela Merkel, valutata sopra il 30% dei consensi, dell’AfD e del Bsw, per i partiti tedeschi i sondaggi nazionali sono un incubo costante: stando agli ultimi rilevamenti dell’Istituto Insa, la Spd di Scholz viaggia intorno al 15,5%, dieci punti secchi in meno rispetto alle elezioni federali del 2021, mentre i Verdi languono intorno alla soglia del 10%.
Ecco: non solo è la metà di quello che valevano nei sondaggi solo due anni fa, ma è la metà di quanto viene messo a segno oggi dall’ultradestra su scala nazionale. In più, se si votasse adesso, l’Fdp con un risultato del 4,5% finirebbe fuori dal Bundestag, il partito della sinistra, la Linke, sarebbe ridotta all’irrilevanza con il 3,5%. Di contro, la formazione di Wagenknecht, sensibile a pulsioni filo-putiniane e non esente da proclami anti-migranti con i quali è accusata di fare concorrenza all’AfD, dal nulla è schizzata al 10%. Sono numeri che stanno terremotando il panorama politico tedesco: le elezioni federali si terranno tra un anno, e salvo sorprese, salteranno tutti i rapporti di forza che ancora tengono in piedi il paese.
Ma, come si sente ripetere spesso a Berlino in questi giorni nel continuo sudoku delle possibili alleanze, con chi potrebbe governare la Cdu se, come probabile, uscirà vincitrice dalle urne del settembre 2025 e se, come tutti continuano a giurare, nessuno vorrà mai e poi mai allearsi con l’ultradestra e neanche con “Sahra la rossa”? Di nuovo con i socialdemocratici in una riedizione della GroKo (Grosse Koalition), che tutti hanno giurato di voler evitare come la peste? E, nel frattempo, che ne sarà di Scholz? Il cancelliere ha fatto sapere che si ricandiderà, ma dietro le quinte molti socialdemocratici, forti dei suoi pessimi indici di gradimento, pensano che sia necessaria una “opzione Biden”, ossia la sostituzione in corsa del candidato alla cancelleria.
Il caso Commerzbank
Comprensibilmente, lo stato di nervosismo permanente si registra su tutti i fronti. Emblematica la vicenda dell’ingresso di Unicredit nella Commerzbank, dove si è visto il solitamente compassato Olaf Scholz sbottare che l’operazione italiana nei confronti dell’istituto di credito tedesco è un “atto ostile”. Scrive Politico che “gli interessi interni di Berlino ancora una volta prevalgono sui sogni paneuropei”, e argomenta: “Ora che Unicredit ha effettivamente avviato un’acquisizione in Commerzbank, i sostenitori di una maggiore integrazione dell’Ue sembrano destinati a rimanere delusi. E le ambizioni di scalata transfrontaliera del settore finanziario dell’Ue rimarranno solo chiacchiere, come lo sono state per un decennio”.
Aggiunge l’autorevole testata che “il timore di Berlino è che gli italiani, se dovessero acquisire una partecipazione in Commerzbank maggiore di quella del governo tedesco, potrebbero ridurre i prestiti alle preziose piccole e medie imprese manifatturiere considerate la spina dorsale dell’economia della Germania”. Insomma, le resistenze all’affare Unicredit-Commerzbank sono, conclude Politico, un “pessimo segnale” per l’integrazione del mercato finanziario europeo.
Certo, in tutto questo non aiutano la guerra in Ucraina (due anni fa, a sei mesi dall’inizio del conflitto, alla domanda se la Germania dovesse inviare carri armati da combattimento all’Ucraina, il 47% degli interpellati rispondeva sì, ma il 43% rimaneva granitico sul proprio no) con annessa la fine dei generosi flussi di gas russo, e men che mai la crisi dei rapporti commerciali con la Cina (ad agosto le esportazioni tedesche verso la Repubblica popolare sono crollate del 15,2% rispetto all’anno scorso), due elementi che hanno mandato sottosopra gli equilibri sui quali nei decenni era costruito il benessere tedesco.
I conti con la storia
Proprio in questi giorni si contano i 34 anni dalla riunificazione delle due Germanie. In quel 1990 le macerie del Muro di Berlino erano ancora calde, nei discorsi si sentiva l’eco delle parole di Willy Brandt, “ora cresce insieme quel che appartiene insieme” pronunciate undici mesi prima, dopo che le folle incredule avevano attraversato il Checkpoint Charlie e gli altri varchi della capitale spaccata in due di fronte alle guardie della DDR in stato di trance. Il 3 ottobre la Germania ricorda come ogni anno l’unificazione di un Paese diviso alla fine del conflitto mondiale, emblema della guerra fredda e del mondo dei blocchi contrapposti ed un’unità costruita a tempo record dopo lo sbriciolamento del Muro.
Ma che Germania è quella che oggi celebra ancora una volta la sua “nuova storia”, una storia di rigenerazione che per decenni è stata sinonimo della speranza di un mondo migliore? Ebbene: è una Germania che ha paura. Una paura che oggi ha il volto dell’ultradestra, ma che ha radici che vanno oltre il regolamento di conti con la storia del Novecento.