La Galleria di Eufemi. Giorgio De Giuseppe, nel ’92 stavo per essere eletto capo dello Stato con i voti del Msi. Sventai la manovra

Quell’esame di Filosofia del diritto con Moro rinviato di anno in anno. La Dc distrutta dal correntismo. Per noi giovani Fanfani era l’innovatore. Moro stava con i dorotei. Poi le cose cambiarono. I complimenti di Pella. Un unicum: Vicepresidente del Senato, per tre legislature, anche vicario, con quattro Presidenti: Cossiga, Malagodi,  Fanfani e Spadolini. Quel rapporto meraviglioso con Spadolini. Fu sua la proposta- per salvare la Dc dal correntismo –  nell’83 di incompatibilità tra mandato parlamentare e incarichi di governo. Fu approvata solo 10 anni dopo quando ormai era troppo tardi.

 

Oggi incontriamo Giorgio De Giuseppe Avvocato, classe 1930, dunque un novantaduenne,  già docente di istituzioni di Diritto Pubblico all’Università di Lecce, provveditore agli studi di Lecce.

Nella sua lunga carriera  politica De Giuseppe ha ricoperto numerosi incarichi da  delegato provinciale e regionale del Movimento giovanile della Democrazia Cristiana a segretario provinciale della D.C. dal 1968 alla candidatura al Senato nel 1972, poi nelle Istituzioni : Senatore della Repubblica, eletto nel collegio di Galatina-Gallipoli ininterrottamente per sei legislature, dal 1972 al 1994.

Quando scomparve la Democrazia Cristiana si ritirò volontariamente dalla politica attiva rinunziando alla riconferma della candidatura; è stato eletto presidente del gruppo parlamentare dei senatori della D.C. dal 1980 al 1983; vicepresidente vicario del Senato per tre legislature dal 1983 al 1994; presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla dignità e la condizione sociale dell’anziano, istituita dal Senato nel 1989. La relazione conclusiva venne votata all’unanimità; per contrastare il correntismo all’interno del partito, propose dal 1983 l’incompatibilità per i Democratici Cristiani tra mandato parlamentare ed incarico di governo: la proposta trovò attuazione soltanto nel 1992 con il governo Amato I e, nel 1993, con il governo Ciampi, troppo tardi per contrastare la crisi del partito. Il documento si trova in Senato nel Fondo Roberto Ruffilli. Fu Candidato Dc  al Quirinale nel 1992.

Dal 28 maggio 2010 è stato difensore civico della Provincia di Lecce, dove è stato eletto all’unanimità dei voti di centrodestra e centrosinistra, portando la sua esperienza al servizio  della comunità.

Sei pronto a rispondere ai miei quesiti?

Sono pronto, sono ai tuoi ordini.

Voglio scavare negli anni giovanili per scoprire le ragioni del tuo impegno politico.

Entro in politica per caso. Ero studente al terzo anno di università e preparavo l’ esame di filosofia del diritto, che non mi decidevo a dare, perché essendo il professore amico di famiglia, non volevo dare l’impressione di essere impreparato per avere un ottimo voto.

Chi era il professore?

Era Aldo Moro. E quindi rinviavo  di volta in volta l’esame che avrei dovuto dare al primo anno. Al terzo anno avevo ancora questo esame da sostenere. Un giorno, arrabbiato con me stesso per questa incapacità a superare i timori e le preoccupazioni, andai  a una Assemblea  della Dc. Era venuto in quella assemblea Giovanni Elkan,  che era vicesegretario nazionale della Dc: era in Puglia a visitare la zona di riforma agraria, sia la zona dell’otrantino sia dell’Arneo (consorzio speciale di bonifica di quasi 253 mila ettari in tre province di Lecce, Brindisi e Taranto ndr) che è a Nardó.

Nel corso della assemblea dopo la relazione generale fu aperta la discussione e io pur non essendo iscritto al partito chiesi di parlare. Evidentemente non dissi molte sciocchezze. Il segretario provinciale chiese : “Chi è questo ragazzo che sta parlando? “. Il giorno dopo mio padre ricevette una telefonata dal segretario provinciale che gli chiedeva che io andassi a Lecce perché voleva parlarmi.

E che successe?

Mio padre capì subito. Disse ad Antonio Fiocca, un mito della Dc: “Lascia mio figlio, si deve laureare; non mi devi parlare di politica”.  Fiocca attese  due anni. Quando –  come allora si usava – sul giornale  apparve l’annuncio che mi ero laureato,  ritelefonó a mio padre: “Giulio,  io ho atteso, mantieni l’impegno; adesso fai venire tuo figlio che gli voglio parlare”. Così io mi trovo da un momento all’altro nominato commissario provinciale del movimento giovanile della Dc e comincia la mia avventura nel partito.

Chi c’era allora nel movimento giovanile?

Il movimento giovanile si trovava in una difficilissima situazione. C’era il gruppo che poi abbandonó il movimento giovanile, era il gruppo della sinistra. In quell’epoca da una parte c’era  Franco Maria Malfatti,  che poi continuó  a restare nella Dc, mentre dall’altra un gruppo di competitori di giovani, come Lucio Magri e Chiarante che poi lasció  il movimento giovanile della Dc e poi passò nella federazione giovanile comunista. La rottura avvenne a Firenze nel ’55 (il 10 e 12 giugno 1955 ndr). Eravamo riuniti per il congresso giovanile al teatro Rondó di Bacco di Palazzo  Pitti che è un piccolo teatro. Li ci fu lo scontro tra Magri e tutto il nostro gruppo, il gruppo Malfatti. In quel congresso venne eletto Ernesto Laura con 41 voti sui 37 a Franco Boiardi.

Scrivevi  su “Per l’azione” o “terza generazione”

Terza generazione” ospitava gli scritti sia del gruppo Malfatti  sia dell’altro gruppo di sinistra. Una volta avvenuta la scissione “Terza generazione” non venne più pubblicata. Su”Per l’Azione”, molto attivo  era il ruolo dei fiorentini e di Nicola Pistelli che  purtroppo scompare  molto presto. L’apporto che avrebbe potuto dare alla politica fu per un periodo molto breve. Pistelli era di quella rivista la  espressione importante.

Partecipavi  ai convegni?

In quell’epoca molti convegni venivano fatti. Era l’epoca in cui la Dc dopo la fine della esperienza degasperiana e la presa della guida di “Iniziativa  Democratica” con Fanfani e gli altri,  comincia il discorso del centrosinistra. Sì, di convegni ne abbiamo fatti tanti. Credo che uno di maggiore rilievo sia stato quello di Salerno.

Si verificò una cosa interessante. Per la prima volta la stampa quotidiana cominció a parlare del movimento giovanile della Dc con articoli apparsi sul “Giornale  d’Italia”, sul “Messaggero”. Il mio intervento al convegno di Salerno fu ripreso dai quotidiani  nazionali. Sta a dimostrare che la stampa nazionale dava rilievo al ruolo che il movimento giovanile esercitava. Il movimento giovanile compì una scelta unitaria sostenendo Fanfani, allora in polemica con Moro perché dalla riunione delle suore Dorotee, i Dorotei eleggono segretario del Partito Aldo Moro. Noi eravamo su altre posizioni. Noi eravamo con Fanfani. Aveva concluso la esperienza di segretario del partito perché aveva assunto su di sé tutti gli incarichi possibili e immaginabili:  era Segretario del Partito, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri.

La rivolta in un consiglio nazionale da parte del gruppo Doroteo ci fu  e Fanfani  non se lo fece  dire due volte; piantó  tutti, cominció a girare l’Italia e lo invitai a Lecce.

Peró quando aveva questi momenti di crisi Fanfani ripartiva dai suoi amici in Maremma…

Certo. Si dimette e si appella alla base del partito. E comincia il giro della periferia. Viene a Lecce. C’era già un esponente dei fanfaniani  che era l’ avv. Alessandro Agrimi  Sindaco di Lecce, deputato e senatore, una figura importante, molto leale,  molto rigorosa nei confronti di questa scelta fanfaniana. Con Agrimi organizzammo la visita di Fanfani a Lecce. Questo crea scompiglio perché tutto il gruppo dirigente della Dc, il segretario provinciale Giacinto Urso,  poi i deputati che erano Giuseppe Codacci Pisanelli, Beniamino De Maria,  i senatori Arcangelo Magli e Michele De Pietro,  erano tutti sulle posizioni dorotee. Per cui il movimento giovanile fu interprete della linea Fanfani nella provincia di Lecce.

Dei giovani in Puglia chi c’era?

I giovani erano tutti sulla mia linea, Francesco Rausa e  Angelo Tulli che diventano successivamente deputati. Giacinto Urso era segretario provinciale,  contrastava tenacemente la nostra posizione. Devo purtroppo dire che quella  iniziativa di Fanfani, che servì a valorizzare il dibattito in periferia e che aveva seri contenuti di impegno politico segnò  però l’inizio nefasto del sistema correntizio della Dc. È l’inizio in quegli anni ’59- ’60, a mio modo di vedere,  del processo che ha distrutto la Dc con il correntismo.

Nel 1959 è l’inizio di un processo degenerativo, di scontro di potere? 

Comincia allora quel processo degenerativo. Le correnti diventano all’interno della Dc il processo disgregatore del Partito.

E Moro per te che  sei nato a Maglie che cosa ha rappresentato?

Proprio perché per primo avevo  parlato dell’incontro con i socialisti, per un primo periodo di tempo,  nei confronti di Moro avevo tutte le mie riserve. Per me Moro era il capo dei Dorotei, quello che si contrapponeva a Fanfani mentre Fanfani per me era il progressista, Moro  invece no. Poi le cose cambiano. Moro assume progressivamente, lentamente tutta una posizione che lo porterà poi al suo martirio. Di questo si tratta.

Quando parliamo di Moro  e Fanfani parliamo  di due figure intellettuali della DC completamente all’opposto. Fanfani è l’uomo degli scatti, del nervosismo, della non adeguata riflessione, Moro comincia un cammino che lentamente,  stancamente porta all’evoluzione agli anni dell’incontro, del colloquio con il partito comunista. Sono due personalità profondamente diverse con idee diverse. Sul piano dei temperamenti;  più che contrasto di idee è contrasto di temperamenti. Noi che eravamo giovani impulsivi e tenaci che volevamo dall’oggi al domani cambiare il mondo e cambiare il partito eravamo con Fanfani.

Era un innovatore Fanfani?

Sì.

Entri in Senato nel  ’72 

Sono stato segretario provinciale dal ’68. Dopo quattro anni riportai  la Dc a livelli di grande forza nella provincia di Lecce, per la prima volta conquistammo il capoluogo, che era il centro dei gruppi organizzati di destra fascista, massonica. Conquistai il comune di Lecce con un sindaco eccezionale, Totò Capilungo; la mia segreteria provinciale diede ottimi risultati.

Il diabete che ho dal  1970 scoppiò  durante la campagna elettorale delle prime regionali. Perché bevevo, bevevo, io che non bevevo mai. Non andai dai medici perché la prima prescrizione sarebbe stata di darmi una calmata. Il segretario provinciale  dell’epoca si dedicava da mattina a notte. Tornavo a casa all’una e mezzo di notte. Dopo l’università al mattino, dove facevo lezione, andavo al provveditorato agli studi, poi dal pomeriggio la massa dei problemi infiniti di una provincia di ben 94 comuni. Non mi feci curare. Continuai l’attività. Ricordo l’ultimo comizio, quello in piazza sant’Oronzo a Lecce di ringraziamento per il grande successo ottenuto.

Che cosa successe?

Ad un certo momento,  non mi era mai accaduto,  la bocca si impasta, avverto il bisogno di bere,  guardo intorno, non vedo una bottiglia d’acqua, un momento drammatico perché non riuscivo più a parlare. Intorno a me solo i parlamentari Dc. Non potevo chiedere aiuto. Disperato,  guardo e vedo  un bicchiere d’acqua ma osservo che tutto il primo strato di acqua era nero, perché i moscerini richiamati  dal caldo e dalla luce dei riflettori avevano sentito il bisogno di bere loro prima di me. Ero di fronte al dilemma: o interrompere il comizio o bere l’acqua con i moscerini.

Come finì?

Bevvi l’acqua con i moscerini!

Cosa non si fa per l’amore della politica!

Poi andai a Parma e iniziai la cura diabetica.

Hai svolto il mandato parlamentare negli anni Settanta e Ottanta e inizio Novanta, quelli dell’intervento straordinario, della riduzione dei divari,  della crescita della Puglia come Regione con gli indicatori migliori di tutto il Mezzogiorno, poi la fine dell’intervento straordinario? Come l’hai vissuta la politica in Parlamento?

Sono stato un parlamentare molto fortunato. Accadde un fatto imprevedibile. Si svolse la prima Assemblea dei deputati Dc. La presiedeva Fanfani perché non c’era ancora il presidente del Gruppo. C’era una grandissima sala per contenere gli oltre 130 senatori Dc per essere autonomi. Io impaurito, conoscevo solo Agrimi e il sen. Francesco Ferrari della provincia di  Lecce. Partecipai ricordando quello che Giolitti aveva detto a uno dei suoi amici che aveva fatto eleggere alla Camera: “Non ti preoccupare,  il primo anno devi solo sentire, guardare e cercare di capire”.

Ebbi la tentazione di parlare e chiesi di parlare. Finita l’assemblea Fanfani nella replica non rispose a nessuno ma solo a me ripetendo più volte ” … come ha detto De Giuseppe! “. Alla fine alle mie spalle sentii la voce di Pella che avevo amato quando da presidente del Consiglio  difese Trieste e la italianità che disse “De Giuseppe oggi hai avuto successo, cerca di fartelo perdonare”. Rispondo: “presidente terró conto”.

Questo fatto fece sì che il mio nome circolasse. Alle elezioni delle cariche del gruppo parlamentare vengo eletto componente del direttivo del Gruppo con un notevole successo personale: ebbi ben 25 preferenze. Questo fatto mi aprì la possibilità di seguire il lavoro del Senato e del gruppo Dc attraverso i suoi presidenti soprattutto con Bartolomei che fu il presidente  che poi sostituii quando lui divenne ministro dell’Agricoltura.

Come andò la elezione e a presidente del Gruppo senatoriale?

La mia elezione  avvenne per la prima volta con una contrapposizione. Le battaglie avvenivano solitamente alla Camera. Al Senato si concordava con il Partito. Pur essendo il vicepresidente non pensavo assolutamente ad  essere candidato. Un giorno entró nel mio ufficio Gino Cacchioli  senatore eletto a Parma,  una figura molto importante della Resistenza in Emilia, comandante delle brigate partigiane, decorato di medaglia d’argento al valore militare. Occupò con una ventina di senatori il mio studio e dissero: Giorgio, abbiamo deciso:  il presidente devi essere tu.

Come nacque questo pronunciamento? Che cosa era accaduto?

La corrente di “Base” senza concordare con nessuno aveva candidato Salverino  De Vito. Questo atteggiamento aveva infastidito per questo gesto di arroganza del gruppo di Base che pensava di decidere senza parlare con nessuno. Si giunse anche in Senato allo scontro.

Come  alla Camera tra Gerardo Bianco e Giovanni Galloni, in Senato  lo scontro tra De Vito e De Giuseppe. Quella fase li, quel ruolo bellissimo, come lo ricordi? Che cosa ti rimane?

Rimane la ricomposizione della unità del gruppo. Prendo in mano un Gruppo  quasi spaccato a metà e riesco a recuperare la unità. Innanzitutto lasciando aperta la porta del mio ufficio. Tutti potevano entrare e ciò pose il presidente in un colloquio continuo con tutti i senatori. Presi  l’iniziativa di dare notizie flash alle 15. Emettevo un foglio di notizie.

C’era l’esigenza di informazione per i senatori. Siamo nei primi  anni Ottanta:  non c’erano telefonini, solo telescriventi,  poi niente. Alle 15 facevo trovare le notizie più importanti. Una iniziativa che ebbe apprezzamento anche dalle opposizioni. Poi resi le assemblee del gruppo non occasionali, ma periodiche.  Una volta ogni quindici giorni il gruppo si riuniva in assemblea e ciò consentiva di creare un clima di amicizia,  di simpatia, di stima . Tu pensa quando Gonella, Scelba, Rumor parlavano. Era momento di unità. C’era poco da dire: “Io sono della Base, sono di Forze nuove…” . Prevaleva il senso di unità.

Poi lasciasti il Gruppo e fosti eletto vicepresidente del Senato. Come avvenne questo passaggio

Lasciai il gruppo per una richiesta fatta da Piccoli e da De Mita. Dovevo essere quella mattina riconfermato, non c’erano altri candidati.  Si parlava sempre di una candidatura di Mino Martinazzoli, come competitor, ma Mino mi disse:  Giorgio stai tranquillo, qualunque cosa dicano voto per te, non creo divisioni all’interno del gruppo.

Poi mi chiama Piccoli e mi disse ti devo parlare. Bisaglia aveva cominciato a fare i capricci e aveva costituito un gruppo di deputati e senatori e di segretari provinciali del Veneto che si erano staccati dal controllo di Rumor e si erano orientati verso la iniziativa più forte, più vivace, più presente di Antonio Bisaglia.

Questo creava all’interno del Consiglio nazionale, dove le posizioni che facevano riferimento a De Mita non erano così forti, una situazione per cui dominus al Consiglio nazionale era Antonio Bisaglia.                                                                                                                                                                                            Piccoli mi disse anche a nome di De Mita di lasciare. Verrà Bisaglia perché abbiamo bisogno di rafforzare la Segreteria. Risposi a Piccoli. “Tutto questo non è successo stanotte. potevate dirmelo 15 giorni fa. Oggi si vota. Non c’è una candidatura ufficiale”.

Avevo ricevuto conferme. Zaccagnini mi disse: “Giorgio il mio voto è per te”. Volli parlare con De Mita. De Mita mi fece lo stesso ragionamento di Piccoli. Ti chiediamo di metterti da parte perché rischiamo  di non avere la maggioranza in Consiglio Nazionale. Quando vado al Senato per raccogliere le carte per andare via, trovo Zaccagnini e altri che protestano. Dopo due giorni mi telefona Antonio Bisaglia.

Domani votiamo un vicepresidente del Senato di nostra competenza vorremmo che fossi tu. Risposi: “È iniziativa tua o della direzione del Partito?” Mi rispose “È iniziativa mia e della Direzione del Partito”. Così mi trovai vicepresidente del Senato.

Sei stato Vicepresidente del Senato fino al 1994,  anche vicario, con quattro Presidenti: Cossiga, Malagodi, Fanfani e Spadolini.

Sì, rappresento un unicum. lo sono stato vicepresidente per tre legislature con un succedersi di presidenti. Realizzo un rapporto meraviglioso con Spadolini. Spadolini quando celebra a Firenze i 25 anni di ordinariato mi volle all’Istituto Alfieri, fui  l’unico senatore, mi fece visitare anche la sua casa con la Biblioteca strapiena di libri, poi donata, una casa che lui non abitava, ma con aria condizionata per conservare i preziosi libri. C’era una sola camera da letto, era quella della madre che lui adorava. Il resto erano solo stanze strapiene di libri. Mi volle quel giorno accanto a sé.

Anche con Giovanni Malagodi sei  stato vice.

Sì, per un breve periodo. Era la fine della legislatura. Si trattava di un mese. Nicola Mancino voleva  me, ma per una serie di accordi fu mantenuto l’impegno verso Malagodi,pPresidente del Senato. Toccò a me accompagnare la salma nel piccolo cimitero in Toscana dove è sepolto nel paese di origine della famiglia.

Il rapporto con Giovanni Spadolini è quello che ti è rimasto di più?

Spadolini era un grande personaggio. Bisognava avere consapevolezza di trattare con una persona che meritava grande rispetto. Non perché era presidente del Senato, ma perché era un uomo  che onorava la cultura italiana. Non mancai mai di svolgere il ruolo di collaboratore attento e  anche rispettoso. Accadde un episodio. Inizialmente rimase turbato, poi con intelligenza capì. Quando presiedeva lui , tutti i gruppi ne erano felici. Sapeva fare  mille cose ma una volta era fuori di sé, non sapeva presiedere l’Assemblea. Mentre  presiedeva pretendeva  di telefonare,  di scrivere,  di preparare articoli (multitasking si direbbe ora ndr) molte cose insieme, ma perdeva il controllo dell’Aula, una volta mi lasció  presiedere una seduta di Legge Finanziaria in un momento delicato e difficile.

In quelle due ore riesco con cipiglio e impegno a chiudere in anticipo, a fare quello che con Spadolini  occorrevano due o tre giorni. Quando tornó  a presiedere l’Assemblea scoppia un fragoroso applauso da sinistra a destra al momento del cambio delle consegne. Spadolini non capisce l’applauso. Chiede a Gaetano Gifuni: “Perché mi stanno applaudendo?”. Il Segretario generale chiarisce a Spadolini che l’applauso  era per il sen. De Giuseppe! Spadolini diventa rosso in volto. Da allora la nostra amicizia divenne più intensa perchè ogni volta mi diceva: “Ah briccone, hai cercato di diminuire il mio prestigio!”. Lo ricordo con affetto.

Hai avuto una grande soddisfazione, sei stato il candidato di bandiera della Dc nelle elezioni presidenziali del 1992? Che cosa ha rappresentato quel momento?

Tutta  la mia vita politica non è stata costruita con i miei gomiti. Sono stati gli altri che mi hanno chiamato a svolgere quelle funzioni. Quella notte intorno all’una  che precedeva la elezione mi chiama Nicola Mancino e mi dice: “Giorgio abbiamo avuto una lunga riunione della delegazione (segretario,  capigruppo e presidente del Consiglio) e ti chiediamo di essere il candidato di bandiera dei nostri gruppi parlamentari”.

Chiesi se erano unanimi o c’era qualche riserva. Dammi la parola d’onore. La richiesta è unanime.  I gruppi votarono per me per tre votazioni poi alla quarta votazione si astennero. Perché ? Maurizio, Ti metto al corrente di una pagina di storia importantissima. Apprendo da un giornalista – di cui non rivelerò mai il nome neppure dopo la sua morte – che il Movimento Sociale  alla quarta votazione, quando si passa dalla maggioranza qualificata a quella semplice,  senza fare dichiarazioni di voto avrebbe votato per me. Quando apprendo questa notizia vado immediatamente  dal Segretario Politico Arnaldo Forlani e gli dico della operazione in atto, guardando alla situazione con grande serietà. Continuare a votare per me che significa? Significa soltanto una cosa che il gruppo alla prima votazione mi ha dato 292 voti e alla seconda votazione me ne ha dati 280 e alla terza 270; il gruppo della Dc non è più compatto, inevitabilmente, perché iniziano i vari candidati a muoversi. Andreotti,  Colombo, Taviani e così via pretendono dai loro amici di essere indicati, perché poi sperano che quella indicazione si trasformi in qualche cosa;  noi diamo uno spettacolo di un gruppo che non è più compatto e quindi la trattativa che si deve fare con gli altri partiti la facciamo in posizione di debolezza. Che cosa significa fare la quarta votazione, quando possiamo passare al candidato vero. Se il candidato vero se Tu e sei Tu, allora abbi  l’incontro con Craxi e parla con Craxi e parla con gli altri con cui pensi di potere avere i voti per essere eletto. La Tua votazione facciamola alla quarta.

E Forlani cosa disse?

Forlani rimase sconvolto da questo discorso e mi disse: “Lasciami pensare”. Mi chiamò un’ora dopo; mi disse: “Giorgio hai ragione. Per adesso non è possibile. Alla quarta il gruppo si astiene, alla quinta il gruppo di centro sinistra vota per me. Cosi bisogna fare. Un abbraccio”. La mia candidatura non c’è più.

Avevo ottenuto lo scopo di tutta la  mia azione. Senza rivelare la mia fonte avevo messo il MSI nella impossibilità  di creare una situazione che avrebbe portato il Paese al dramma. Ricordavo i tempi del governo Tambroni  che era caduto o le critiche nei confronti di Leone fatte per i voti arrivati dal MSI. Dovevo impedire una candidatura di De Giuseppe che nasceva con i voti del MSI. All’interno della Dc gli  amici di Andreotti  e gli amici di Lombardi nel Psi fanno fallire la candidatura di Forlani. Questa è la storia che conosci. Si continua fino alle bombe di Capaci e alla candidatura di Scalfaro.

Che cosa ti rimane della lunga esperienza politica e parlamentare?

La soddisfazione di avere sempre anteposto gli interessi del partito  e del Paese. Non ho mai badato a me, tutto quello che ho avuto,  e ho avuto tantissimo,  l’ho avuto perché me lo hanno offerto. Non ho imposto nulla con i gomiti. Non ho imposto niente. Ho sempre detto si. Per la Presidenza  della Repubblica sono l’ultimo designato dalla Dc come tale. Dopo di me la Dc non designa più nessuno. Chiudo l’elenco di persone che il partito ha indicato per ruoli di grande importanza.

Rispetto alla situazione attuale i nostri leader che cosa ti fa venire in mente?

È una tristezza.

Presentasti nel lontano 1983 una progetto “rivoluzionario” quando proponesti l’incompatibilità per i Democratici Cristiani tra mandato parlamentare ed incarico di governo. Cosa che il Partito affrontó dieci anni dopo, nella conferenza di Assago e formalizzó con il governo Amato nel 1992?

Il partito adottó  questa linea per il governi Amato e Ciampi. Lo vedevo come unico contrasto al correntismo che ormai dilagava.  Le correnti nascevano per occupare i posti di ministro o sottosegretario. Pensai che condurre questa battaglia avrebbero potuto scardinare il sistema delle correnti. Questo spiega perché non sono mai stato nè ministro nè sottosegretario, perché conducendo all’interno della Dc questa battaglia non potessi entrare in contraddizione. Vinsi  la battaglia quando ormai nel 1992  il Partito ormai era in crisi. Siamo con il partito con governo  Amato e al governo Ciampi,  ma era troppo tardi perchè questa iniziativa avrebbe potuto dare effetti positivi.

Rispetto alla situazione attuale che cosa ti preoccupa?

La situazione di adesso è  a livello del dramma; tutti i partiti hanno commesso un errore che non sconteranno mai per quanto è stato grande. Hanno avuto 17 mesi di governo Draghi. Partiti pensosi del domani avrebbero  dovuto utilizzare quel tempo per risolvere due problemi che dai tempi di De Gasperi ancora impedisce all’Italia di avere un governo. L’Italia  chiunque vincerà le elezioni  avrà il 69/mo governo della Repubblica . Non c’è Paese democratico con una successione di governi come in Italia, in una tale situazione. Parlo della democrazia mondiale.

Abbiamo un governo ogni anno: significa che non abbiamo un governo.! Invece delle bandierine  i partiti avrebbero dovuto fare due cose: una legge elettorale perchè quella che c’è ha dimostrato che non assicura governi stabili e affrontare un problema presente dal 1983 e sul  sul tavolo politico. Negli atti parlamentari c’è una mozione con cui Camera  e Senato  chiesero la riforma della seconda parte della costituzione, e fu nominata la prima commissione Bozzi. Nel documento troverai  indicato tutto sia per il potere esecutivo sia  che per il potere giudiziario per rendere moderna la democrazia italiana.

La Costituzione  è stata fatta per creare la ingovernabilità. I Dc temevano i comunisti e i comunisti fecero la stessa cosa con i democristiani. Non cambiare con il contagocce su un articolo o questo o quel punto, perché è peggio, ma un insieme di norme altrimenti è una stupidata.

Con questa affermazione esce fuori il professore di diritto pubblico De Giuseppe o il politico?

Esce fuori uno che guarda al domani e si  rende conto che queste  elezioni del 25 settembre  non servono a niente. Quando andrà al governo la Meloni  si troverà esattamente nella stessa situazione di tutti gli altri. C’è una illusione di fare il governo, manca la possibilità di amministrare. Se avessero utilizzato  i 17 mesi per modificare legge elettorale e seconda parte della Costituzione che va modificata. Come pensiamo  di aumentare i poteri delle Regioni avendo 20 regioni per 50 milioni e 20 poteri legislativi. Stiamo alla follia!

E aggiungo con 20 economie differenziate ?

Ci sono responsabilità drammatiche di tutti i partiti. Anche per Letta che riflette un po’ di più,  ma ha sprecato tempo prezioso. Avrebbe dovuto porli questi problemi, affrontarli. Un peccato, un periodo come quello di Draghi, l’Italia non se lo sogna più.

È stato fatto un grave errore a far cadere Draghi con i suoi successi e la sua credibilità!

Di questi errori si scontano le conseguenze. Occorreva che Draghi a Palazzo Chigi e 5 persone in un altro palazzo  qualsiasi,  discutessero di queste cose. Ma davvero possiamo andare avanti con una legge elettorale con miscuglio di proporzionale e maggioritario! Anche le organizzazioni dei partiti ne risentono. Si organizzano diversamente anche in base alla legge elettorale. Non che abbia 92 anni,   ma sono pessimista!

Li porti benissimo da come hai ricordato vicende lontane e con le chiare soluzioni che proponi.

 

Maurizio Eufemi – Già senatore nella XIV e XV legislatura

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