Confesso che non ho alcuna considerazione per l’uguaglianza materiale che i classici del liberalismo considerano “una pura idealizzazione dell’invidia”.
Invece ho una fede assoluta e inesausta nell’uguaglianza legale, benché non ne apprezzi l’espressione che sembra alludere o rinviare ad una straordinaria uguaglianza illegale.
L’uguaglianza di fronte alla legge non è acquisizione britannica o francese o americana. No, la meravigliosa consapevolezza che agli uomini dovesse applicarsi la stessa legge è appartenuta ai Greci per primi. La chiamarono isonomia, che significò uguaglianza politica ovvero parità di diritti.
Non mi stancherò di sottolineare che la democrazia, il potere politico nella polis spettante ugualmente a tutti i cittadini, è figlia dell’isonomia, non viceversa. L’isonomia significa anche eguale ripartizione del diritto di governare, dunque anche equilibrio politico. “Se siamo uguali – dovettero pensare gli Ateniesi passeggiando nell’agorà – comandare spetta a tutti”.
Sia la democrazia diretta, alla maniera dell’antica Atene, sia la democrazia rappresentativa, alla maniera dello Stato moderno, sono organismi che faticano a controllare il carattere genetico che le porta ad inseguire e privilegiare l’uguaglianza materiale pure a discapito dell’uguaglianza legale.
Atene non finì male per la peste o la sconfitta ma cominciò ad infiacchirsi allorché i cittadini che l’avevano resa grande in ogni senso incominciarono a mungerla piuttosto che alimentarla.
Curiosamente, la degenerazione dell’isonomia in isomoiria, divisione paritaria dei beni, è stata quasi ratificata dall’articolo 3 della Costituzione italiana, dove il Primo comma si rifà correttamente all’isonomia classica, mentre il Secondo sembra ispirato all’isomoiria: un’assurdità logica e giuridica perché non è possibile perseguire l’uguaglianza materiale o sostanziale, cioè la tendenziale parificazione delle posizioni economiche, senza violare l’uguaglianza legale o formale, a parte riuscirci completamente in un sistema libero.
Nessun pensatore liberale classico ha mai negato l’obbligo morale, individuale e pubblico, di sovvenire gli ultimi impossibilitati a sostenersi. Tuttavia, la tutela delle posizioni sostanziali e particolari del “debole” senza la violazione della legge generale ed astratta va rivelandosi la cruna dell’ago che le moderne democrazie non riescono ad infilare.
Quasi tutti quelli che lamentano la crisi della democrazia rappresentativa e del Parlamento appartengono, generalmente parlando, a partiti che la fomentano con le migliori intenzioni di aiutare il prossimo, ma non cristianamente o caritatevolmente. Scambiano la giustizia della politica con la giustizia del diritto. Pervertono l’isonomia in isomoiria. Perdono l’una senza ottenere l’altra. La disuguaglianza legale, vituperata a parole od anche sinceramente, in buona fede, prolifera a misura che aumentano i tentativi di realizzare l’uguaglianza materiale.
L’uguaglianza di diritto è inconciliabile con l’uguaglianza di fatto in un sistema politico di libertà. Quanto più le azioni positive, che troppi sogliono ricavare non sempre a ragione dal Secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, sono determinate dal miraggio dell’uguaglianza sostanziale, tanto più la libertà garantita dall’uguaglianza formale sancita dal Primo comma del medesimo articolo viene sacrificata nei risultati a dispetto delle intenzioni e del diritto. “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”, stabilisce il Secondo comma.
Le azioni positive legittimate da tale disposizione sono quelle, e soltanto quelle, idonee a rimuovere gli ostacoli nel rispetto del Primo comma, diversamente il principio di uguaglianza, ispiratore dell’intera Costituzione, viene violato o distorto.
Leazioni positive, da considerare costituzionalmente autorizzate, non devono mirare ad un eguale trattamento materiale, ma a conferire pari dignità sociale. Diversamente le azioni positive, oltre a violare l’uguaglianza di diritto, incrementano le disuguaglianze di fatto. Fanno il contrario dello scopo a cui sono preordinate. Inoltre, economicamente parlando, la reale situazione materiale complessiva delle persone è accertabile soltanto nei casi estremi.
I limiti di fatto alla libertà e all’uguaglianza, la cui rimozione viene affidata alla Repubblica, nondimeno sono un’indefinibile categoria programmatica. Individuarli specificatamente, caso per caso, eccita la fantasia interventista dei politici piuttosto che contenerne gli eccessi di azioni positive. Le quali, sebbene costituzionalmente ingiustificate, risultano tuttavia elettoralmente vantaggiose a chi le adotta. E perciò adottate senza ritegno. La formulazione del Secondo comma sembra, al contrario, frenare anziché incentivare le azioni positive. Come se fosse scritta così: “È compito della Repubblica rimuovere soltanto gli ostacoli…”.
Insomma, l’uguaglianza di diritto è sostanziale più dell’uguaglianza di fatto. Subordinare completamente la prima alla seconda costituisce del resto un’impresa impossibile nella società libera, dove invece la subordinazione è fomite di discriminazione legale e disuguaglianza materiale. Il declino dello Stato di diritto è concomitante con l’erosione dell’uguaglianza legale. Declino ed erosione sono sotto gli occhi di tutti o, almeno, di chi vede bene e sa dove guardare.
Pietro Di Muccio de Quattro – Direttore emerito del Senato, Ph.D. Dottrine e istituzioni politiche