Così Virginia Woolf (Diario 16/01/1923) definiva una donna che aveva tutti i numeri per rivaleggiare con lei nel mondo “sacro” della scrittura: la neozelandese Kathleen Beauchamp, alias Katherine Mansfield, che quel mondo attraversò con indomabile irrequietezza e ferma determinazione.
L’ansia ribellistica e il ripudio delle convenzioni sono evidenti nella miriade di eteronomi che ella si diede in relazione al variare di stati emotivi, estetici, relazionali e percettivi del suo essere. Tra le Kass, Katie, Katiushka, Katharina, Katie, Kissienska- e altra onomastica- spicca però l’epiteto/diminutivo Tig, la tigre moglie di John Middleton Murry. Ma Katherine Mansfield, pur amandolo appassionatamente, non volle e non poté mai essere soltanto la moglie di Murry.
E per affermare la sua libertà dagli schemi non ebbe bisogno -come ammise parlando di sé Virginia Woolf- di “uccidere la propria madre” per sfuggire alla ripetizione del paradigma femminile vittoriano di moglie e madre borghese. La modernità di Katherine è tutta nella perentorietà di atteggiamenti, non solo nei confronti dell’istituto del matrimonio, ma più in generale del rapporto di coppia da lei osservato alla luce di un’impietosa idea del genere umano: Io credo che gli uomini siano come tante valigie: riempite di certe cose, spedite, sballottate, gettate in un angolo, posate pesantemente a terra, perdute e ritrovate, d’un tratto mezzo svuotate oppure stipate all’inverosimile, finché da ultimo l’Ultimo Facchino le scaraventa sull’Ultimo Treno, e filano via sferragliando[…].
Nella pagina iniziale del gioiello narrativo intitolato Je ne parle pas français, in un piccolo caffè parigino dove ogni cosa sembra in stato di attesa, dove tutto è proiettato sul futuro perché il rimpianto è qualcosa di informe e inutile, così si esprime il giovane protagonista Raoul Duquette, iniziando una specie di autodiagnosi tra cinismo, comicità e ironia. Al lettore arrivano frammenti, pensieri intrecciati ad osservazioni ambientali o guizzi memoriali di un monologare che coinvolge anche l’arte e la letteratura con toni irriverenti (“Tu, letterato?Tu hai l’aspetto di uno che scommette alle corse!).
Istintivamente modernista
I personaggi si incastrano senza cerniere narrative, senza passaggi diegetici, secondo moduli ascrivibili totalmente al Modernismo: istintivamente modernista fu infatti la Mansfield, che evitò psicologismo e simbolismo per far parlare le cose e gli oggetti con evidenza straordinaria, pur adottando spesso forme vaghe, impalpabili, aleggianti come petali su di noi, in un perenne presente del narrare (“Lo scrittore non deve esistere se non come scrittura”; “La trama mi lascia fredda”) e dell’interrogarsi sull’esistenza.
Come accade in un passo famoso del racconto lungo Alla baia: un fiore sfiorendo fa cadere i suoi petali giallo pallido sulla protagonista Linda Burnell e suscita in lei la domanda (leopardiana) sul perché dare alla vita, perché prendersi la pena di creare e far fiorire quel che presto sfiorirà: uno spreco di tutte le cose, un’insensatezza cui però non è possibile rinunciare.
Katherine, “valigia” tra le tante, visse con la valigia sempre pronta, espresse la sua inquietudine in una perenne fuga, a partire dalla prima, la più “violenta”, avvenuta all’età di 14 anni nel 1903, dalla terra natale per raggiungere Londra e completare lì i suoi studi. Nel corso della sua breve e intensa vita fuggì da demoni interni ed esterni, nella ricerca di sé attraverso sé stessa e gli altri, nel privilegiare rapporti incandescenti, spesso di breve durata ed eterogenei, vampe di desiderio che si smorzavano a contatto con la sua (apparente e contraddittoria) durezza; unica eccezione l’amore incondizionato per il “fratellino” morto in guerra per lo scoppio di una granata e il cui ricordo appassionato e assoluto sfiorò la morbosità.
Scelte radicali
Attraverso Leslie Katherine attingeva all’età incontaminata dell’infanzia trascorsa nell’isola selvaggia, ne dimenticava il provincialismo coloniale per ricordarne solo le bellezze naturali, gli ineffabili odori, colori, sapori. Di quella durezza parla la Woolf, forse per difendere il proprio tratto snobistico e certi suoi residui di conformismo, a proposito delle scelte radicali fatte dalla neozelandese sul piano del costume: gonne corte, capelli à la garçonne tagliati fino alle orecchie, calze colorate, tacchi alti, spregiudicatezza del vestire.
Troppo wildismo nell’amica competitor di cui si confessava “invidiosa”?
Troppo spinta quell’ansia di sperimentare la vita in ogni aspetto, compresa l’intera ottava del sesso: metafora musicale che rivela, oltre a bellicose intenzioni, anche il primo amore artistico di Katherine, quello per il violoncello e per un affascinante violoncellista. Amore dell’amore, amore dell’arte, amore della vita. Comandamenti per la Mansfield che era però consapevole – e lo dichiara in tante pagine – della sua doppiezza : lo specchio è una ricorrenza della sua narrativa come oggetto catalizzatore di pensieri, percezioni, sentimenti, siglando l’importanza dell’istante emotivo come unica verità e sola giustificazione del nostro esser-ci.
Il sogno di una piccola strada bianca
Una donna doppia anche perché spezzata dal trauma dell’aborto che le provocò l’infertilità e che spiega in termini di inconscio il senso di molti racconti. Ad esempio quello breve, tagliente, intitolato La bambina stanca, nel quale la figlia illegittima di una cameriera svolge una mole insopportabile di mansioni comandate da una padrona madre di tre figli e in attesa di un altro e che non le consente di dormire, di riprendere il sogno da lei bruscamente interrotto, il sogno di una piccola strada bianca con alti alberi neri dalle parti, una piccola strada che non conduceva in nessun luogo.
Questa piccola Cenerentola intorno alla quale, come nella fiaba, gli oggetti si animano ( una delle caratteristiche dell’ars poetica della Mansfield) e la stufa ha sonno e freddo come lei, alla fine, con un coup de thèatre, in punta di piedi, dopo avere tentato invano di far tacere il bebé piangente, prende il piumino rosa dal letto della padrona e lo preme sulla faccia del bimbo che si dibatte come un’anitra con la testa staccata, che si contorce tutta.
Allora la bambina stanca, la schiavetta di casa riprende il suo sogno e si ritrova finalmente a camminare su una stradina bianca…Incipit ed explicit identici chiudono a cerchio il breve racconto.
L’ardire morale ed altri esperimenti
Questa è Katherine Mansfield, questo il suo ardire anche morale, mentre sul piano delle scelte stilistiche omaggia Čechov che aveva tradotto dal russo e di cui apprezzava la capacità di condensare in momenti essenziali e realistici la psicologia dei personaggi, senza le barriere fittizie di bravure stilistiche per stupire. Attorno a lei, vera sperimentalista, è stata costruita piuttosto un’aura di sregolatezza e incauto maledettismo condizionata dagli anni delle dissolutezze, della tossicodipendenza e del rifiuto del limite (ogni cosa spingetela lontano quanto essa può andare); né le hanno giovato in quel periodo conformista e repressivo affermazioni quali Non vi è Dio, né cielo né aiuto di alcun genere e gli dei sono statue di marmo con i nasi rotti.
Proprio per i suoi atteggiamenti libertari a me pare che parli a noi donne di un secolo dopo con voce insieme realistica e visionaria, evocativa e descrittiva, e anche per l’attenzione sincera verso i ceti meno abbienti (La povera gente del racconto Garden Party ). Ancora oggi attraggono quel suo lato meduseo – rilevato con acutezza da D.H.Lawrence- e l’intuizione del lento ma inarrestabile degrado dell’essere umano, dei comportamenti “meccanici” su cui si interroga perché coinvolgono anche gli artisti nella perdita dell’anima.
Oltre la superficie
E intenerisce il suo vitalismo indomito ad onta della malattia che la portò a morire a soli 34 anni, dopo l’estremo tentativo dell’esperienza mistico-terapeutica nell’Istituto di G.I.Gurdjieff a Fontainebleau: lì sperimentò la vita di comunità e un’eccentrica cura “naturalistica” per liberarsi dalla paura della morte e dall’ansia di vivere. In queste peregrinazioni l’imperscrutabile Katherine continuava a cercare sé stessa per andare oltre la superficie delle cose, oltre i suoi istinti più forti e realizzare l’equilibrio interiore necessario alla ratio della scrittura.
Anche se nel suo intimo amava stare da sola e detestava la fedelissima e invadente Ida Baker, denunciò in vibranti racconti la solitudine della donna in un mondo ostile governato dal maschio per il quale ella è soprattutto preda sessuale.
Per farlo spesso assume nei racconti il punto di vista maschile, mettendo in rilievo la scarsa sensibilità e/o l’ottusità dell’altro genere. Lo fa, per esempio, ne La giornata di Reginald Peacock, dove un supponente marito elenca i vizi della moglie nemica anche nel sonno che a suo avviso malignamente si adopera a rendergli la vita difficile, mentre tra abluzioni ed esercizi ginnici egli appaga la sua vanità e si auto-incensa (peacock significa pavone) come artista famoso.
Una bambola dall’intelligenza superba
Un racconto più che umoristico, quasi comico, grazie alla strategia narrativa del soggetto monologante che si specchia e si compiace della propria immagine. Al contrario della scrittrice mai contenta di sé e per questa ragione aperta a tutte le spinte innovative, alle suggestioni di tutte le arti, compreso il cinema: testarda e trasgressiva, solitaria e veemente nelle relazioni con le persone, delicata e sorprendente nel rapporto simbiotico con gli oggetti, con le piccole cose di cui conosce il valore, aiutandoci ancora oggi a riscoprirlo con lei.
Una bambola giapponese secondo Virginia, con quella frangia tagliata diritta e gli occhi “canini” distanti ma belli, che le parlavano di una particolare intesa tra loro. Una bambola sì, ma una bambola di un’intelligenza superba. Un’Eva che sapeva bene come fosse indistinguibile dalla polpa il verme nascosto nella mela.
Caterina Valchera– Docente, saggista